Si sente la mancanza del vecchio PCI “nonostante i suoi limiti”? No, si sente la necessità di un partito comunista che superi quei limiti!

Lettera alla Redazione

 Cari compagni,

durante una manifestazione in occasione dello sciopero del 27 ottobre, un operaio con la falce e martello nel cuore mi ha detto, un po’ sconsolato perché in piazza c’era poca gente, che “si sente la mancanza del PCI (di quello vecchio) nonostante i suoi limiti. Oggi le masse non lottano più nemmeno per difendere le loro conquiste”.

Siccome stavo volantinando, gli ho risposto un po’ di fretta che è vero che per i lavoratori era meglio quando c’era il PCI grande, ma bisogna mettere in fila le cose: come è diventato grande il PCI, perché poi si è disgregato ed è degenerato fino a partorire gente come Bertinotti da una parte e Renzi dall’altra, che relazione c’è tra lo stato delle masse e le dimensioni del PCI. Il piccolo PCI degli anni ‘30 sviluppava la combattività delle masse, dava loro indicazioni giuste, ecc. in questo modo e grazie all’adesione dei lavoratori italiani alla Rivoluzione d’Ottobre e alla costruzione del socialismo in Unione Sovietica e alla Resistenza e alle lotte che sono seguite, è diventato grande. Quando invece ha rinunciato  al compito di guidare le masse popolari a continuare la lotta per instaurare un nuovo ordinamento sociale conforme ai loro interessi (in forma ambigua nel V Congresso del 1946, con la linea del “partito nuovo” e della “democrazia progressiva” e apertamente nell’VIII Congresso del dicembre 1956, subito dopo il XX Congresso del PCUS, con la linea della “via parlamentare al socialismo” e delle “riforme di struttura”, cioè il socialismo senza rivoluzione socialista e senza dittatura del proletariato), ha via via perso il sostegno delle masse ed è decaduto. E ovviamente senza la guida di un partito comunista le masse si sono trovate in condizioni via via peggiori e hanno perso la fiducia in se stesse che avevano acquistato. Quindi, ho concluso, quello che ci occorre non è “il vecchio PCI nonostante i suoi limiti”, ma superare quei limiti a causa dei quali il vecchio PCI  ha via via liquidato la forza politica e militare che la classe operaia e le masse popolari avevano raggiunto con la lotta partigiana culminata nella Resistenza contro i nazifascisti.

“Approfitto” di Resistenza per riprendere il discorso perché sono numerosi i compagni che, come lui, di fronte al “triste presente” del Jobs Act, dell’attacco al diritto di sciopero, del sistema Marchionne guardano con rimpianto al “glorioso passato” in cui le piazze erano piene e abbiamo strappato conquiste e diritti in ogni campo, senza vedere perché da quel “glorioso passato” siamo arrivati al “triste presente” e cosa fare per risalire la china… e sperano che in un futuro ci sia un unico grande partito comunista, anziché contribuire anche loro alla rinascita del movimento comunista.

Il vecchio PCI e gli altri partiti comunisti dei paesi imperialisti si sono formati e hanno operato o come la più efficace delle organizzazioni rivendicative degli operai e degli altri lavoratori della società borghese o come il più radicale dei partiti riformatori e progressisti attori della lotta politica che si sviluppa nell’ambito della democrazia borghese, cioè all’insegna del diritto riconosciuto a ogni adulto di concorrere secondo le procedure vigenti a determinare la condotta dello Stato, ferma restando la divisione in campo economico della società tra proletari e proprietari del capitale. Si sono cioè concepiti e hanno operato come opposizione del sistema borghese, non come esercito che lotta per spazzare via il sistema borghese. È questo che in definitiva ha fatto del vecchio PCI uno dei complici nella fondazione della Repubblica Pontificia, nel tradimento della Costituzione del 1948 pur tanto rivendicata anche negli anni successivi nelle dimostrazioni di piazza, nella sostituzione del “capitalismo dal volto umano” (che inizia a formarsi dopo la guerra e a decomporsi alla fine degli anni ‘70) all’instaurazione del socialismo. Faccio due esempi per chiarire il concetto.

La ricostruzione del paese. Qual era la linea del PCI all’indomani della vittoria contro i nazifascisti?  La illustra bene un opuscolo di Emilio Sereni, dirigente del PCI a capo del CLN Lombardia (noto anche come autore de “Il capitalismo nelle campagne (1860-1900)”, scritto nel 1936-1937, ma pubblicato nel 1947, un’opera importante per capire la combinazione della borghesia con i nobili e il clero – il Vaticano – contro i contadini che determinò il carattere specifico dello Stato della borghesia italiana dalla sua creazione nel 1861): “C.N.L. Il Comitato di Liberazione Nazionale della Lombardia al lavoro – nella cospirazione, nell’insurrezione, nella ricostruzione”.

Scritto nel luglio-agosto 1945, a tre mesi dalla Liberazione, indica come via per procedere quella di “ricostruire tutti insieme l’apparato economico italiano come era prima della guerra”. Sereni proclama che l’interesse nazionale, comune a tutti, può e deve ispirare tutti. Tutti devono mettere da parte i loro “egoistici interessi” e le proprie “ristrette e grette vedute” di fronte all’interesse nazionale, comune. Ma il mondo reale è che da sempre le classi dominanti presentano, dipingono, travestono, consacrano i loro interessi come interessi generali, di tutta la società che essi dominano e sfruttano. Gli individui più arretrati e le parti più arretrate delle classi oppresse subiscono, assimilano questa mistificazione, la fanno propria (il nostro re, il nostro padrone, la nostra fabbrica, la nostra città, ecc.) salvo in certi momenti e circostanze rivoltarsi furiosamente e ciecamente. Il compito del partito rivoluzionario è quello di aprire loro gli occhi, mettere in luce agli occhi delle classi oppresse l’antagonismo dei loro interessi con quelli dei padroni, mostrare loro che i padroni non agiscono come agiscono per caso o per ignoranza, ma per interessi e a ragion veduta, organizzarli per far valere i propri interessi, per imporre un sistema sociale senza padroni. Chi sorvola sull’antagonismo di interessi non imbroglia i padroni: questi dei loro interessi hanno una coscienza ben più chiara di quella che le masse popolari hanno dei propri. Essi sono abituati a farli valere al punto che, con l’educazione, le abitudini e le condizioni in cui costringono le masse popolari a vivere, le hanno indotte a considerarli come naturali e legge divina. Chi sorvola sull’antagonismo di interessi imbroglia gli oppressi, impedisce che si armino, aggrava lo sforzo che devono fare e che già hanno difficoltà a fare, contrappone la parte più arretrata delle masse popolari alla parte più avanzata.

Nello stesso opuscolo, Sereni descrive i CLN, che erano contemporaneamente organismi interpartito a livello nazionale, regionale provinciale e locale (costituiti dai delegati di PCI, PSI, DC, Partito d’Azione, Partito Liberale, Partito Repubblicano, che in misura diversa e per motivi molto diversi avevano aderito alla Resistenza, e da alcune organizzazioni di massa unitarie) e in qualche modo anche organismi di massa aziendali, comunali, rionali, di categoria, non come soluzione provvisoria giusta finché il compito principale era vincere i nazifascisti, ma come organi della collaborazione strategica (a tempo indeterminato) delle masse popolari con quella parte della borghesia e del clero che, vista la mala parata della guerra, ha rotto con il nazifascismo che avevano coltivato fino a ieri e si è schierata con gli angloamericani. E propone i Consigli di Gestione (organismi misti tra operai e padroni) come organi della collaborazione degli operai con quei capitalisti che accettano di collaborare con gli angloamericani che avevano già mostrato chiaramente durante la guerra perché facevano la guerra. Come? Poco aiuto al movimento partigiano e bombardamenti a tappeto sulla popolazione, tentativi di sbarco (respinti) in Jugoslavia, occupazione imposta alla Grecia…

In realtà, alla ricostruzione, borghesia e clero procedo solo quando i loro interessi lo richiedono: non l’iniziativa delle masse popolari, ma il capitale USA e il suo piano Marshall sono i motori della ricostruzione, ne dettano regole e tempi. La disoccupazione raggiunge picchi più alti che durante il fascismo e centinaia di migliaia di lavoratori devono prendere la strada dell’emigrazione (nelle miniere del Belgio, nei cantieri della Svizzera e della Germania e altrove). Noi oggi siamo in grado di vedere i risultati che ha dato questa linea e dove ha portato: alla liquidazione della vittoria della Resistenza, alla creazione della Repubblica Pontifica e a una nuova epoca di sottomissione e sofferenze.

Proporsi e proporre agli operai nell’agosto 1945, a vittoria della Resistenza conquistata, di ricostruire l’apparato economico italiano come era prima della guerra era contrario agli interessi delle masse popolari. La collaborazione fra operai e padroni ha portato, e non poteva che portare, al dominio dei padroni. Era sbagliato e utopistico da parte del PCI predicare, invocare e cercare di praticare e far praticare agli operai la collaborazione come regola generale e indirizzo strategico.

Il nostro orientamento, venendo all’oggi, non è ricostruire il capitalismo dal volto umano, ma costruire un apparato economico socialista. Già il programma del Governo di Blocco Popolare (le Sei Misure Generali) pone gli interessi delle masse popolari come prioritari rispetto al profitto dei capitalisti, di cui le Sei Misure Generali non contemplano ancora l’espropriazione generalizzata: si limitano all’uso delle aziende in conformità con gli articoli 2, 3, 4, 36, 37, 41, 42, 43 della Costituzione del 1948 che la Repubblica Pontificia ha sistematicamente eluso.

L’attuazione della Costituzione. Il PCI diretto dai revisionisti moderni con a capo Togliatti accettò di fare della Costituente e della redazione della Costituzione il terreno principale dello scontro tra le classi oppresse e le vecchie classi dominanti, che così guadagnarono tempo per consolidare le proprie posizioni di forza fino a poter disattendere le promesse e gli impegni scritti nella Costituzione (che quindi restarono lettera morta salvo quelli imposti con dure lotte dalle masse popolari). Fece persino passare sotto silenzio la  decisione della Corte di Cassazione (piena di fascisti, a partire dal suo primo presidente, Andrea Ferrara con cui era stato “molto opportunamente” sostituito Giuseppe Pagano, tornato in servizio nel 1945 dopo esserne stato dispensato per aver rifiutato la tessera del partito fascista e per non aver presentato la dichiarazione di non essere ebreo) con cui borghesia e clero fin da subito misero le basi anche giuridiche per disattendere le promesse e gli impegni scritti nella Costituzione. “La Costituzione entrò in vigore il 1° gennaio 1948, ma un mese dopo, il 7 febbraio, una sentenza delle sezioni riunite della Corte di Cassazione ne minò gravemente l’effettiva applicazione. Essa distinse infatti le norme costituzionali in ‘programmatiche’ e ‘precettizie’, negando alle prime valore normativo e stabilendo che solo le seconde avevano il potere di abolire le leggi precedenti che risultavano incompatibili con il nuovo ordinamento. Negli anni del ‘centrismo’, e nel clima generale della ‘guerra fredda’, questa sentenza fu utilizzata dai governi per rinviare sistematicamente l’attuazione dei principi costituzionali. Il ministro dell’Interno Mario Scelba affermò apertamente che la Costituzione non doveva diventare “una trappola per la libertà del popolo italiano”. Rimasero così a lungo in vigore i codici fascisti, in particolare il Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 1931, i cui articoli furono appunto utilizzati dal Ministero dell’Interno per reprimere le manifestazioni di protesta e gli scioperi. Solo nel 1956 entrò in funzione la Corte Costituzionale, che avviò la revisione delle norme e delle leggi più apertamente anticostituzionali, e occorsero altri due anni per l’istituzione del Consiglio Superiore della magistratura. Fra le norme costituzionali che trovarono più tardiva e tormentata applicazione vi sono quelle relative alla parità dei sessi e alla pienezza dei diritti politici e civili delle donne. Una prima forma di partecipazione delle donne all’amministrazione della giustizia fu introdotta nel 1956: limitata però ai tribunali dei minorenni e alle giurie popolari delle corti d’assise. Solo nel 1963 fu sancito il pieno diritto delle donne di accedere alla magistratura e agli alti uffici pubblici da cui ancora erano escluse. Fu molto lenta anche la modifica delle norme che regolano i rapporti tra i coniugi: nel 1961, per esempio, la stessa Corte Costituzionale ribadì che l’adulterio compiuto dalla donna andava considerato reato, e si dovette attendere il 1968 per una diversa pronuncia della Corte. Un diritto di famiglia degno di un paese civile fu varato, infine, solo nel 1975” (da “L’Italia Repubblicana”, Guido Crainz – Giunti Editore, 2000). Ma la lista dei principi sanciti dalla Costituzione del 1948 rimasti inattuati o apertamente traditi è parecchio più lunga.

Quindi, sia detto per inciso, attuare le parti progressiste della Costituzione non è una questione di buona volontà, ma di lotta contro i vertici della Repubblica Pontificia, cioè contro chi per precisi interessi l’ha aggirata, elusa e apertamente violata fin da subito (ricordiamoci che l’adesione alla NATO è del 1949!).

Il declino del movimento comunista è stato prodotto dai limiti dei partiti comunisti, non dal “tradimento dei capi”, dall’astuzia dei revisionisti moderni alla Togliatti o dalla forza della borghesia. Non si tratta di “ritentare sperando che questa volta vada bene”. Si tratta di superare quei limiti, e questo dipende interamente da noi, e su questa base avanzare passo dopo passo nella rivoluzione socialista. È quello che la Carovana del (nuovo)PCI  sta facendo. A questa impresa il Partito dei CARC chiama ogni compagno con la falce e martello nel cuore a partecipare e a contribuire.

Un compagno di Milano

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