[Internazionale] Catalogna: è legittimo tutto quello che va nella direzione degli interessi delle masse popolari, anche se illegale

Il referendum che si è svolto domenica 1 ottobre in Catalogna è la manifestazione dello sgretolamento dei regimi politici dei paesi imperialista. Ma ancora di più è la manifestazione che le masse popolari possono e devono conquistarsi quanto loro è legittimo anche se illegale. Per quanto riguarda il dibattito su “e’ giusto o no” il referendum, se sia legale o legittimo, citiamo la Tesi n.47 approvata dal nostro III Congresso e proponiamo il testo pubblicato su Rapporti Sociali n.34 del Gennaio 2004, utili ad illustrare bene la concezione della società e la linea di noi comunisti italiani rispetto alle lotte per l’autodeterinazione delle piccole nazioni nei paesi imperialisti: “Noi sosteniamo la lotta per l’autodeterminazione delle nazioni senza Stato presenti nel territorio dello Stato italiano (come nel caso della Sardegna). Ogni popolo deve avere il diritto di decidere autonomamente e liberamente il cammino da intraprendere, l’ordinamento economico, politico e sociale di cui dotarsi, le relazioni da instaurare con gli altri paesi. L’autodeterminazione nazionale (che comprende anche il diritto alla secessione e a costituirsi come Stato indipendente: si tratta dunque di una cosa differente dalla “semplice” autonomia locale) fa parte dei diritti democratici delle masse popolari. I comunisti delle nazioni dominanti devono sostenere la lotta per l’autodeterminazione nazionale, convogliandola, come avvenuto durante la prima ondata della rivoluzione proletaria sotto la direzione dell’Internazionale Comunista, nella lotta per l’abbattimento del capitalismo e l’instaurazione del socialismo. I comunisti delle nazioni senza Stato devono invece mettersi alla testa delle masse popolari per il loro diritto all’autodeterminazione: con la loro direzione, devono far sì che gli indipendentisti non guardino all’indietro, ma siano proiettati in avanti ossia verso la costruzione di nuovi e superiori rapporti sociali; se i comunisti delle nazioni senza Stato non fanno questo, lasciano il campo libero ai gruppi reazionari, razzisti e xenofobi.”

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RAPPORTI SOCIALI

Rivista di dibattito e propaganda per il comunismo

Via Tanaro, 7 – 20128 Milano e-mail resistenza@carc.it

Supplemento al n. 34, gennaio 2004

 

 La redazione di Rapporti Sociali ha ricevuto questo interessante contributo al dibattito sulla questione del diritto all’autodeterminazione dei popoli che non è stato possibile pubblicare sul numero 34 della rivista per problemi di spazio. La redazione ha deciso di farlo circolare come supplemento, sollecita organismi e singoli compagni a sviluppare il dibattito intorno alle questioni che l’articolo pone e si impegna a darne spazio sui prossimi numeri della rivista.

La lotta per il diritto all’autodeterminazione nazionale nei paesi imperialisti

di Giuseppe Maj

Nell’articolo “La tête de mort” (vedi Combat breton n. 206, marzo 2003), Jean-Pierre Le Mat esorta i compagni di Emgann (il movimento della sinistra indipendentista della Bretagna) a inquadrare la loro lotta nel tempo (nella storia) e nello spazio (nell’attuale contesto sociale e politico), quindi a definire l’obiettivo della loro lotta: a dire quello che vogliono e non solo contro chi combattono. In altri termini, Jean-Pierre Le Mat li sprona a non restare un semplice partito di sovversione ma trasformarsi in un partito rivoluzionario.

Io sono un rappresentante del movimento comunista italiano, sono uno dei comunisti che lottano per ricostruire un vero partito comunista in Italia. Più precisamente sono membro della Commissione Preparatoria del congresso di fondazione del (nuovo)Partito comunista italiano. La borghesia imperialista italiana ha più o meno gli stessi problemi della borghesia degli altri paesi europei. La crisi generale del capitalismo avanza e la borghesia deve eliminare i diritti e le conquiste di civiltà e di benessere che le masse popolari le hanno strappato nel corso dei primi settanta anni del ventesimo secolo durante la prima ondata della rivoluzione proletaria. Le masse popolari si oppongono a questa eliminazione e la borghesia imperialista paese per paese impiega tutti i mezzi che la situazione politica concreta del paese le permette d’impiegare per impedire la formazione di centri d’aggregazione, di promozione, d’orientamento, d’organizzazione e di direzione della resistenza delle masse popolari. Il movimento comunista e il (nuovo) Partito comunista italiano sono dunque colpiti da campagne di repressione che si succedono l’una dopo l’altra. In seguito alla collaborazione tra le autorità francesi e italiane, io sono prigioniero dal 23 giugno alla Santé di Parigi, mentre un altro membro della Commissione Preparatoria è incarcerato a Fleury Mérogis. Alla Santé ho incontrato prigionieri politici: bretoni, corsi, baschi e oriundi dai paesi arabi e musulmani. In particolare ho potuto conoscere meglio il movimento indipendentista della sinistra bretone. Storicamente la prigione è una scuola per noi comunisti e per i rivoluzionari e la repressione porta a sviluppare la lotta contro la repressione. Quindi, anche se la borghesia non lo vuole, la controrivoluzione aiuta lo sviluppo della rivoluzione. Proprio come diceva Marx: “È solamente facendo sorgere una controrivoluzione compatta, potente, creando un avversario e combattendolo che il partito della sovversione ha potuto alla fine diventare un vero partito rivoluzionario” (Lotte di classe in Francia, 1848-1850). Noi comunisti italiani sosteniamo le lotte per il diritto all’autodeterminazione nazionale anche nei paesi imperialisti. Perché? Rispondendo a questa domanda si toccano implicitamente i contenuti proposti da Jean-Pierre Le Mat. A mio avviso la risposta può interessare gli indipendentisti bretoni ed i comunisti francesi. Il diritto all’autodeterminazione nazionale (che ovviamente comprende il diritto alla secessione ed a costituire uno Stato indipendente: si tratta dunque di una cosa ben distinta dall’autonomia locale) è uno dei diritti democratici delle masse popolari. Ebbene, la difesa e l’allargamento dei diritti democratici delle masse popolari nei paesi imperialisti costituiscono un aspetto irrinunciabile della nostra lotta per creare dei nuovi paesi socialisti e per avanzare verso il comunismo sotto le bandiere del socialismo.

Durante il suo sviluppo e la costruzione del suo sistema sociale nell’Europa occidentale, vale a dire nel periodo che si estende dal XII al XIX secolo, la borghesia ha creato i suoi Stati nazionali. Spinta dai bisogni dei suoi affari e dei suoi scambi, la borghesia ha cercato di creare dei mercati e dei campi d’azione sempre più larghi e di trasformarli secondo i suoi bisogni. Essa ha sfruttato l’eredità culturale e politica che la storia le trasmetteva per eliminare le barriere tra i popoli e fra le regioni. Dove ereditava un’unità politica, ha sfruttato questa unità già esistente per unificare le popolazioni di grandi territori anche sul terreno dell’attività economica, della lingua, del diritto civile e penale, della cultura e in tutte le relazioni che formano la “società civile”. Dove non c’era ancora unità politica, ha cercato di crearla su scala più larga possibile, mirando a comprendervi tutte le popolazioni che rientravano nella sfera della sua attività economica. In un modo o in un altro ha obbligato delle popolazioni fra loro diverse a formare una sola nazione. È innegabile che le nazioni attuali dell’Europa occidentale sono formazioni economico-sociali costruite nel corso del periodo compreso fra il XII e il XIX secolo. Questo deve essere detto di fronte a chi pensa che le nazioni attuali siano basate su un legame di sangue (come una volta i nobili che pensavano che la nobiltà fosse costituita da persone di “sangue blu”) o su altre caratteristiche naturali, psicologiche, fisiche, mistiche che affonderebbero le loro radici in un passato lontano.

In generale, le attuali nazioni dell’Europa occidentale non sono state formate per aggregazione, federazione o fusione di diverse popolazioni. Al contrario, si è trattato di un processo di conquista, di sottomissione, d’annessione, d’assimilazione, fino a cancellare la lingua, le abitudini, i costumi e a dissolvere le reti di relazione locali di ogni tipo che differenziavano la popolazione di una regione rispetto alla popolazione a cui apparteneva la borghesia che dirigeva il processo. Questo metodo rispecchia bene la natura del capitale: il capitale più forte sottomette e assorbe i capitali più deboli. Esso annette i loro elementi costitutivi (operai, mezzi di produzione, risorse naturali) e li trasforma secondo i suoi bisogni. La natura del capitale ha riverberato la sua luce sulla formazione delle nazioni attuali dell’Europa occidentale come su tutti i processi sociali diretti dalla borghesia. In più, da questo punto di vista, la nuova classe dirigente rispecchiava bene la tradizione feudale di conquiste e di annessioni, la favoriva e allargava il suo raggio d’azione. Non è un caso che fino alla Prima Guerra Mondiale (1914-18) gli interessi dinastici delle famiglie reali europee hanno giocato un ruolo così importante nell’azione degli stati borghesi (questo è un importante punto di differenziazione tra la borghesia europea e quella degli USA). La creazione del sistema coloniale e le guerre fra Stati nazionali europei che hanno insanguinato l’Europa e il mondo sono state le espressioni più elevate ed estreme di questo processo di conquista, di espansione, di sottomissione, di assimilazione che ha creato gli Stati nazionali dell’Europa occidentale e che ha cancellato molte delle varietà sociali che esistevano in  Europa all’inizio del XII secolo.

Per ragioni diverse ma ben determinate in ognuno dei casi, anche nei territori sottomessi ai più grandi Stati nazionali europei (o derivati da essi come gli USA, l’Australia, il Canada, gli Stati dell’America Latina) ci sono tuttavia delle piccole nazioni che in qualche misura sono sopravvissute a questo processo di cancellazione della loro identità. Esse sono sopravvissute abbastanza a lungo perché la loro resistenza arrivasse a congiungersi e fondersi con la lotta che le masse popolari delle grandi nazioni europee e derivate, delle colonie e delle semicolonie sviluppavano su scala via via più larga contro l’ordine sociale borghese e contro il sistema imperialista nel quale l’ordine sociale borghese è sfociato.

Questa lotta in continuo sviluppo è ciò che si chiama movimento comunista. È la denominazione che Marx ed Engels hanno dato in L’ideologia tedesca (1845-46) al movimento pratico che trasforma e supera l’ordine sociale borghese e porta verso il comunismo. Essi hanno fondato la coscienza di questo movimento pratico: il movimento comunista come movimento cosciente e organizzato. Il movimento comunista per sua natura ha bisogno di avere quell’espressione cosciente e quel motore cosciente che sono i partiti comunisti. Non può realizzarsi in altro modo. Il movimento comunista ha condotto le grandi masse popolari a compiere, per la prima volta in tutta la storia del genere umano, un’azione politica autonoma dalle classi dominanti: nel caso specifico autonoma dalla borghesia e dalle altre classi reazionarie. Di conseguenza ha dato un nuovo impulso anche alla resistenza delle piccole nazioni che non erano ancora state cancellate dal rullo compressore dello sviluppo della borghesia. A partire da questa congiunzione, la resistenza delle piccole nazioni all’azione assimilatrice della borghesia è diventata una lotta per l’autodeterminazione nazionale, mentre prima era una lotta per ritornare al passato o per perpetuarlo. Essa ha acquisito una nuova natura creata dal contesto diverso nel quale s’inquadra (che è un fatto oggettivo, reale anche se i suoi protagonisti non ne sono coscienti), dalle influenze reciproche che si sono comunque realizzate e si realizzano tra i diversi fronti di lotta contro l’ordine sociale borghese, dalle relazioni anche di tipo organizzativo e ideologico che si sono allacciate fra le lotte delle piccole nazioni e le altre lotte che formano il movimento comunista. Non è un caso che le piccole nazioni di cui parliamo si aprirono ad una nuova vita tra la metà del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, quando iniziò l’epoca delle rivoluzioni proletarie. Non è un caso che la lotta di queste piccole nazioni per la loro sopravvivenza ha cessato allora di essere una lotta diretta dal clero, dalla piccola nobiltà locale e da altre classi e da strati reazionari e ha cessato di avere come programma la conservazione o la restaurazione di un mondo passato ed è diventata una lotta sempre più posta sotto la direzione della borghesia nazionale, dei lavoratori autonomi (contadini e artigiani) e degli operai la cui aspirazione anche soggettiva è più o meno chiaramente volta alla creazione di una nuova società, necessariamente superiore alla società borghese. Il movimento di queste piccole nazioni sopravvissute alle tempeste borghesi quindi fa ormai parte del movimento comunista in quanto movimento pratico di sovversione e di superamento della società borghese.

Quando è che il movimento comunista (inteso come movimento cosciente ed organizzato, vale a dire inteso come partiti e Internazionale comunisti) ha compreso che la lotta per l’autodeterminazione nazionale delle piccole nazioni dei paesi imperialisti aveva acquisito questa nuova natura e che era diventato parte di se stesso? Suppergiù all’inizio dell’epoca imperialista, quando comincia l’epoca delle rivoluzioni proletarie e la classe operaia assume il ruolo di dirigere tutte le altre classi delle masse popolari dei paesi imperialisti (anzitutto la parte più numerosa dei lavoratori autonomi, i contadini) e le guida ad abbattere lo Stato borghese, crea dei paesi socialisti e comincia in quanto paese socialista a camminare verso il comunismo. E’ nello stesso periodo che il movimento comunista assume come componente di se stesso anche la lotta dei popoli delle colonie e semicolonie per abbattere il sistema coloniale, la lotta delle donne per la loro emancipazione, la lotta contro la discriminazione razziale, ecc… Tutto questo fa parte del leninismo, quindi del marxismo-leninismo, la seconda tappa del pensiero comunista.

Il movimento comunista era stato sin dalla sua origine sensibile alla rivendicazione dell’indipendenza da parte di certe nazioni oppresse. La prima Internazionale fu fondata nel 1864 durante un’assemblea di sostegno all’indipendenza della Polonia. Marx ed Engels appoggiarono sempre attivamente la lotta degli irlandesi per la loro indipendenza dall’Inghilterra. Ma fino all’inizio dell’epoca imperialista, il movimento comunista appoggiava queste lotte nel senso che il movimento comunista faceva parte esso stesso del movimento democratico. In effetti, il suo compito principale allora era di costituire la classe operaia come classe distinta di fronte alle altre classi di lavoratori, di sottolineare la differenza fra la lotta della classe operaia per la sua emancipazione collettiva dalla borghesia e la lotta per il superamento del capitalismo da una parte e dall’altra le lotte più o meno reazionarie delle altre classi di lavoratori che si opponevano all’avanzata del capitalismo, di dotare la classe operaia di una sua concezione del mondo e di una sua organizzazione: in sintesi, di consolidare le premesse necessarie affinché la classe operaia potesse prendere la direzione di tutto il movimento popolare contro la borghesia per costruire dei paesi socialisti. È solo quando il movimento comunista ha raggiunto la sua maturità che esso si è fatto carico di tutte le lotte contro l’ordine sociale borghese, le quali, a partire da questo momento e in questo nuovo contesto, divennero delle lotte progressiste: non cercavano più di fermare o far tornare indietro la storia, ma contribuivano a portare gli uomini verso il comunismo: lo sbocco necessario, il solo sbocco possibile della società borghese. Nel frattempo la borghesia a sua volta era diventata la classe dominante a livello mondiale, il suo ordine sociale era divenuto la base principale comune sulla quale si appoggiavano per la loro sopravvivenza tutte le vecchie istituzioni e tutti i vecchi istituti: l’oppressione nazionale, la discriminazione razziale, l’oppressione di donne e bambini, l’oppressione coloniale, l’oscurantismo clericale, tutte le forze, le istituzioni  e le idee reazionarie (dal Vaticano al regno wahabita dell’Arabia, al Dalai Lama).

Col leninismo, il movimento comunista ha acquisto la piena comprensione del fatto che la lotta per il diritto all’autodeterminazione nazionale delle piccole nazioni non  assimilate nei paesi imperialisti (fino alla secessione e alla costituzione di uno Stato indipendente) è parte della rivoluzione proletaria, così come lo è la lotta per eliminare il sistema coloniale e semicoloniale, la lotta per l’emancipazione delle donne e dei bambini, la lotta per mettere fine alla discriminazione razziale, la lotta per l’autonomia delle comunità di base a tutti i livelli, tutte le lotte per realizzare in concreto i diritti democratici delle masse popolari, per allargarli e per spingere in avanti la loro partecipazione alla gestione della società. Nel suo scritto del luglio 1916, Bilancio di una discussione sul diritto delle nazioni a disporre di loro stesse, Lenin riassume: “La rivoluzione in Europa non può essere altro che l’esplosione della lotta delle masse degli oppressi e degli scontenti d’ogni genere. Ad essa parteciperanno inevitabilmente gli elementi della piccola borghesia e degli operai arretrati. Senza la loro partecipazione la lotta di massa non è possibile, nessuna rivoluzione è possibile. Altrettanto inevitabilmente essi porteranno nel movimento i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma obiettivamente essi attaccheranno il capitale e l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato, che esprimerà questa verità obiettiva di una lotta di massa disparata, discordante, variegata, a prima vista senza unità, potrà unirla e orientarla, conquistare il potere, impadronirsi delle banche, espropriare i trust odiati da tutti (sebbene per ragioni diverse) e realizzare altre misure dittatoriali il cui insieme avrà per risultato il rovesciamento della borghesia e la vittoria del socialismo, il quale non si libererà in un sol colpo dalle scorie della piccola borghesia”. 

A partire da questo momento, nel movimento comunista e in suo nome ci sono state ancora delle prese di posizione contrarie al diritto d’autodeterminazione delle piccole nazioni dei paesi imperialisti così come ci sono state delle prese di posizione a sostegno dell’oppressione coloniale (per esempio i trozkisti negli anni trenta sostennero l’occupazione della Cina da parte del Giappone, il PCF fino al 1960 s’oppose alla guerra di liberazione nazionale d’Algeria, ecc.). Ma si trattò sempre di passi indietro che sul piano teorico facevano parte di una più larga opposizione al leninismo e sul piano pratico di una deviazione dal corso principale del movimento comunista (revisionismo moderno, trozkismo, bordighismo, ecc.). Non si ricorderà mai abbastanza che il PCF degli anni trenta (quando era ancora un partito rivoluzionario) sostenne attivamente il diritto all’autodeterminazione e i diritti linguistici delle nazioni sottomesse allo Stato francese, al punto da difendere su l’Humanité i nazionalisti bretoni del Gwenn ha Du che lottavano collocando bombe. La sua regressione fino allo sciovinismo francese è un chiaro indizio della vittoria della linea borghese al suo interno. I fautori di questi passi indietro li hanno giustificati in nome dello sviluppo delle forze produttive: l’oppressione delle nazioni imperialiste sarebbe stata la condizione necessaria allo sviluppo economico delle nazioni arretrate. Questa giustificazione si basa su un’interpretazione del marxismo che Lenin aveva già dimostrato essere “una caricatura del marxismo” e una specie di “economicismo imperialista”.

Le leggi economiche del capitalismo spingono la borghesia a calpestare i diritti democratici delle masse popolari. Secondo i partigiani dell’“economicismo imperialista” non bisogna mobilitare le masse popolari contro questa tendenza della borghesia imperialista perché si tratterebbe in ogni caso di una lotta senza possibilità di successo (vedere Lenin A proposito di una caricatura del marxismo e A proposito dell’opuscolo di Junius, 1915). Ovviamente la direzione borghese della società rende le relazioni internazionali sempre più ostili all’indipendenza e all’autodeterminazione delle nazioni così come rosicchia e cancella i diritti democratici nelle relazioni sociali interne d’ogni paese. Ma questo non significa che sia assolutamente impossibile conquistare delle vittorie in questi due campi pur restando nell’ambito della società borghese: sarà sempre più difficile ma non impossibile. Ciò significa ancor meno che le lotte delle masse popolari in questi campi non sono efficaci per coinvolgere le masse popolari in un movimento pratico che le mobiliti e le educhi alla lotta rivoluzionaria sotto la direzione della classe operaia e del suo partito comunista.

Ovviamente noi andiamo verso una fusione a livello mondiale di tutte le nazioni e di tutte le razze in un solo organismo sociale. Ci sono però due maniere ben distinte per andare da qui verso la futura fusione (così come ci sono due maniere differenti per passare dalla situazione presente alla futura sparizione degli artigiani, dei coltivatori diretti, dei piccoli commercianti, ecc.).

Prima: la maniera borghese. La sua essenza è la sottomissione delle nazioni e dei popoli più deboli, la loro oppressione e la loro cancellazione. Ipocriti e imbroglioni giustificano e accettano questa maniera perché il risultato sarebbe ineluttabile e vomitano veleno contro quelli che si oppongono a questa maniera borghese (spesso prendendo come pretesto le forme di lotta disperate sebbene eroiche impiegate da combattenti che non vedono altra via d’uscita).

Seconda: la maniera proletaria. La sua essenza è la mobilitazione a tutti i livelli d’ogni strato delle masse popolari per allargare i suoi diritti e le sue pratiche democratiche e risolvere i problemi del suo sviluppo civile collaborando con le masse popolari di tutte le nazioni per costruire insieme una società mondiale più avanzata.

La maniera proletaria di avanzare oggi non è più solamente un’ipotesi ragionevole e auspicabile. Durante la prima grande ondata della rivoluzione proletaria (nei primi settanta anni del ventesimo secolo), il movimento comunista ha dimostrato e dispiegato praticamente e su larga scala questa maniera. La costruzione dei paesi socialisti, l’eliminazione del sistema coloniale, le rivoluzioni di nuova democrazia, le ripetute dimostrazioni della potenza della linea di massa(1) come metodo di trasformazione e di direzione della società in tutti i campi permettono di capire cosa sia la maniera proletaria di avanzare. Ovviamente i nemici del comunismo e gli abbrutiti che ne subiscono l’influenza cercano di cancellare questa dimostrazione pratica e su larga scala urlando le centinaia di “fatti” che la contraddicono. Ma questi “fatti” anche quando sono reali (e sicuramente ce ne sono) sono semplicemente tracce residue della vecchia società borghese che la rivoluzione non cancella da un giorno all’altro, difficoltà reali ma ovvie della trasformazione, errori dei rivoluzionari che si liberano a poco a poco dal lordume e dall’abbrutimento in cui la borghesia e le altre classi dominanti hanno da sempre educato le masse popolari, limiti della comprensione da parte dei comunisti delle condizioni e dei metodi nuovi con cui si sviluppa la nuova fase della storia degli uomini. Gli empiristi(2) hanno buon gioco in tutti i campi dell’esperienza a trovare dei “fatti” che contraddicono il corso principale delle cose descritto dalla scienza, le sue leggi, le sue regole. Ma le cose vanno lo stesso nella loro direzione a gran discapito degli empiristi! Dopo la restaurazione dei nobili e del clero nel 1815, quanta gente intelligente, compresi grandi intellettuali come Hegel, giuravano che le forze borghesi erano state spacciate per sempre?(3) Il movimento comunista ha dimostrato anche nella pratica che esso cammina verso la fusione delle nazioni proprio realizzando universalmente il diritto all’autodeterminazione nazionale e più in generale tutti i diritti democratici, l’iniziativa e la liberazione delle masse popolari.

La concezione fin qui illustrata della natura e del ruolo storico della lotta delle piccole nazioni dei paesi imperialisti per il diritto all’autodeterminazione nazionale obbliga noi comunisti a seguire due linee differenti a seconda della nostra posizione pratica. Ma entrambe queste linee rientrano nell’internazionalismo che è parte costituente incancellabile della nostra concezione della società. I socialisti e i comunisti che hanno lasciato cadere l’internazionalismo, sono sempre e non a caso passati al servizio della borghesia imperialista. Lo si vede nella storia del fascismo italiano, del nazionalsocialismo tedesco, del sionismo, di Jaques Doriot e dei suoi seguaci in Francia e ovunque.(4)

I comunisti delle nazioni dominanti devono appoggiare senza riserve né condizioni il diritto delle piccole nazioni dei paesi imperialisti all’autodeterminazione e questo fino alla secessione e alla costituzione di uno Stato indipendente (ovviamente il diritto al divorzio non vuole dire che si è obbligati a divorziare!). In particolare per noi comunisti italiani penso alla nazione ladina, sud tirolese, della Valle d’Aosta, sarda, occitana, albanese, greca e, per i comunisti francesi, penso alle nazioni basca, bretone, corsa, occitana e alsaziana e a tutti i popoli e le nazioni dei Dipartimenti e dei Territori d’Oltre Mare (DOM-TOM). Noi dobbiamo sostenere le organizzazioni che lottano per far riconoscere questo diritto. Non dobbiamo far venire meno il nostro appoggio quali che siano le forme di lotta che esse impiegano: se sono efficaci è sicuro che la borghesia imperialista, che è sistematicamente maestra del terrore contro le masse popolari, le classificherà come “terroriste”. Noi dobbiamo tracciare la nostra prima linea di demarcazione su basi politiche. Si può dibattere circa le forme di lotta più o meno efficaci solo tra persone che si battono per lo stesso obiettivo. La borghesia al contrario vuole sempre mettere in primo piano le forme e i mezzi di lotta perché vuole conservare il monopolio della violenza e delle armi. Se si accetta questa condizione pregiudiziale o preliminare della borghesia i nostri ranghi si aprono all’azione disgregante di coloro che si oppongono ai mezzi di lotta semplicemente perché se ne fregano dell’obiettivo, della vittoria e viene così accettato il diktat della borghesia circa chi è nostro amico e chi è nostro nemico. I comunisti delle nazioni dominanti che non seguono questa linea cadono nell’economicismo(5) e nella sterilità politica anche se s’appellano al livello attuale di comprensione delle masse operaie. Ragionando così, dovremmo eliminare anche la parola d’ordine della creazione di nuovi paesi socialisti, perché oggi le masse operaie non credono più che la creazione di paesi socialisti sia possibile e forse non se la augurano nemmeno: ma i comunisti lanciano anche alcune parole d’ordine che servono proprio per educare le masse a una coscienza superiore all’attuale e chiamano “codisti” quelli che rifiutano di farlo! Io chiamo i compagni delle organizzazioni comuniste dell’Europa occidentale che si richiamano al marxismo a spiegare prima di tutto a se stessi perché appoggiano il diritto all’autodeterminazione delle nazioni autoctone degli Stati Uniti, dell’America Latina, dell’Australia, ecc., ma non riconoscono lo stesso diritto a baschi, sardi, corsi, bretoni, ecc.: vale a dire, alle piccole nazioni del proprio paese!

I comunisti delle piccole nazioni devono mettersi alla testa delle masse popolari anche nella lotta per il diritto all’autodeterminazione nazionale, così come devono mettersi alla testa delle lotte per difendere ed allargare gli altri diritti democratici delle masse popolari e delle lotte economiche. Con la loro direzione devono portare gli indipendentisti a non guardare indietro, a non cercare di trarre la giustificazione dei loro scopi dal passato, dal misticismo o dal sangue. I loro scopi sono giustificati dalle possibilità create dalle conquiste materiali, intellettuali e spirituali della società moderna, dal nuovo ruolo che le masse popolari devono assolvere nella società comunista. L’esperienza pratica della prima ondata di rivoluzione proletaria ha fatto progredire molto le masse popolari. Esse sono sempre più insofferenti di condizioni e  di azioni che prima trovavano “naturali”: la violenza contro le donne e i bambini, l’inquinamento dell’ambiente, lo sterminio delle popolazioni vinte e delle razze ritenute “inferiori”, l’onnipotenza dei ricchi e delle autorità, la sofferenza, la repressione e lo schiacciamento delle piccole nazioni, ecc. Il movimento per il diritto all’autodeterminazione nazionale è quindi divenuto anch’esso una parte del cammino degli uomini e delle donne verso il comunismo. I comunisti delle piccole nazioni che non s’impegnano nella lotta in favore del diritto all’autodeterminazione nazionale non assolvono al loro ruolo di comunisti. Non assumono la difesa di tutti i diritti democratici delle masse popolari, rinunciano alla lotta politica rivoluzionaria e vivacchiano grazie all’economicismo. Lasciano la porta aperta ai gruppi e agli Stati imperialisti che sfruttano e strumentalizzano le rivendicazioni d’autodeterminazione nazionale delle piccole nazioni sottomesse a Stati rivali come armi nelle lotte interimperialiste, come mezzi di scambio nei loro accordi. Proprio attualmente vediamo i gruppi imperialisti USA, che negano con la forza qualsiasi diritto nazionale alle nazioni indiane, agli afro-americani, ai portoricani, che offendono l’indipendenza nazionale di centinaia di nazioni, che mantengono insediamenti militari e truppe in più di 140 paesi al mondo (su circa 200 repertoriati) e sono i gendarmi dell’ordine sociale borghese in ogni angolo del mondo, ebbene li vediamo ergersi proprio loro a paladini dei diritti nazionali degli albanesi del Kosovo e dei curdi del nord dell’Iraq (ma non dei curdi della Turchia orientale, almeno finché la borghesia turca obbedisce agli ordini!).

I gruppi e gli Stati imperialisti possono sfruttare tanto più facilmente le piccole nazioni quanto più importante è ancora nel movimento indipendentista il ruolo del clero, della borghesia nazionale e dei notabili locali. Il ruolo di queste persone è inversamente proporzionale al ruolo dei comunisti, della classe operaia e degli altri lavoratori sfruttati. I gruppi e gli Stati imperialisti s’appoggiano a seconda delle circostanze ora sulla borghesia nazionale, il clero e i notabili, ora sulle masse popolari sfruttate da questi. Il movimento indipendentista può diventare un movimento veramente popolare e quindi invincibile solo se mobilita sulla base dei loro specifici interessi di classe le classi sfruttate e oppresse che formano la parte maggiore della popolazione delle piccole nazioni. I movimenti per l’autodeterminazione nazionale delle piccole nazioni sono di fronte ad un bivio. Una via è quella della direzione delle masse popolari in mano alla borghesia nazionale, al clero e ad altri notabili locali: questi a loro volte sono legati da mille interessi alla borghesia imperialista della nazione dominante o d’altri paesi. È la via che porta il movimento indipendentista a subire le manovre e gli intrighi dei gruppi e degli Stati imperialisti. L’altra via è quella della direzione della classe operaia che coinvolge il resto del proletariato e delle masse popolari ed obbliga anche la borghesia nazionale, il clero e i notabili locali a trascinarsi al seguito del movimento indipendentista per non perdere l’appoggio delle masse popolari da cui essi traggono la loro forza contrattuale di fronte alla borghesia imperialista. La direzione della classe operaia nel movimento per il diritto all’autodeterminazione implica anche una stretta relazione col movimento rivoluzionario delle masse popolari della nazione dominante. Nell’attuale situazione di debolezza del movimento comunista, essa implica anche l’aiuto dei movimenti indipendentisti allo sviluppo del movimento rivoluzionario delle masse popolari della nazione dominante: un compito che oggi quasi tutti i movimenti indipendentisti dell’Europa occidentale non svolgono ancora. In linea generale, lo sviluppo del movimento rivoluzionario delle masse popolari della nazione dominante è anche una condizione necessaria per la vittoria del movimento nazionale. In effetti, è difficile, sebbene non impossibile, che dei movimenti nazionali come quelli dei popoli basco, bretone, ecc., possano vincere contro gli Stati imperialisti francese, spagnolo, ecc. se questi non sono anche bersagli del movimento rivoluzionario delle masse popolari francesi, spagnole, ecc.

È questa concezione della società e questa linea che noi comunisti italiani seguiamo di fronte alle lotte per l’autodeterminazione delle piccole nazioni sopravvissute alla marea della borghesia che nel periodo compreso fra il XII e il XIX secolo ha cancellato molte delle varietà sociali esistenti in Europa, nelle due Americhe, in Australia. Ovviamente noi non chiediamo ai protagonisti dei movimenti nazionali di accettare a priori la direzione dei comunisti. Noi appoggiamo la loro lotta e laddove possibile giochiamo il ruolo che ci è proprio in tutte le lotte delle masse popolari contro la borghesia: il ruolo che Marx ed Engels avevano indicato all’inizio del capitolo II del Manifesto del Partito comunista (1848). Noi siamo sicuri che tutti quelli che continueranno a battersi per il diritto all’autodeterminazione della loro nazione, senza indietreggiare di fronte alle difficoltà e alla repressione e con la volontà di trarre lezioni dall’esperienza, ivi comprese le esperienze delle sconfitte, così come tutti quelli che lotteranno per difendere ed allargare gli altri diritti democratici delle masse popolari, presto o tardi riconosceranno che la via indicata dai comunisti è la sola via che conduce alla vittoria e si uniranno al fronte rivoluzionario anticapitalista delle masse popolari di cui noi comunisti di tutte le nazioni sosteniamo la creazione e la vittoria.

Giuseppe Maj (membro della Commissione Preparatoria del congresso di fondazione del (nuovo) Partito Comunista Italiano)

1° ottobre 2003 – 54° anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese.    

     

Note

  1. La linea di massa è un metodo di lavoro e di direzione politica praticata da tanto tempo dai partiti comunisti e teorizzata da Mao Tse-tung. Questo metodo può essere riassunto come segue. A) Per andare avanti il partito comunista deve ogni volta raccogliere le idee delle masse coinvolte, i loro sentimenti, le loro aspirazioni, i loro stati d’animo. Deve elaborarli alla luce della situazione oggettiva e della concezione comunista fino tradurli in obiettivi, linee e misure. Portare quindi queste alle masse in modo che esse le assimilino e le realizzino. Quindi ricominciare daccapo il processo. B) Quando il partito comunista deve adempiere un compito, esso deve in ogni strato delle masse trovare e mobilitare la sinistra affinché essa unisca a sé il centro e isoli la destra. C) In ogni situazione e in tutti i gruppi sociali ci sono sempre due tendenze: una che porta a progredire più o meno direttamente verso il socialismo, l’altra che li lega più strettamente alla borghesia. Il partito comunista deve comprendere chiaramente e concretamente le due tendenze e lavorare in modo da rafforzare la prima e indebolire la seconda. Per spiegazioni aggiuntive vedere La linea di massa in Rapporti Sociali n. 8 richiedibile alle Edizioni Rapporti Sociali, Via Tanaro 7, 20128, Milano, Italia. E-mail: resistenza@carc.it
  2. Gli empiristi isolano ogni “fatto” e non cercano di capire da dove viene, la ragione della sua nascita, le relazioni con il contesto, il suo destino: vale a dire che essi negano la scienza dei fatti. Essi isolano arbitrariamente ogni fatto mentre in realtà ogni fatto è parte di una catena genetica e il suo significato è determinato dal contesto al quale appartiene. Di conseguenza gli empiristi danno delle interpretazioni arbitrarie ad ogni fatto. Lo stesso fatto può essere impiegato per dimostrare una tesi e il suo contrario. Io do uno spintone al mio vicino: se non si considera il contesto, si può dire che lo volevo uccidere e allo stesso titolo si può dire che lo volevo salvare. Il fatto è reale ma chi lo comprende, o meglio, lo presenta in un modo sbagliato fa di ciò un falso. È proprio quello che fanno i borghesi nelle loro critiche ai primi paesi socialisti. Non è un caso, ad esempio che nelle loro critiche attuali a Cuba, essi evitano di spiegare come i fatti che essi denunciano si combinano con il fatto che Cuba è oggi il solo paese d’America dove nessuno muore di fame o di una malattia curabile, dove tutti i bambini vanno a scuola, ecc… Essi glissano e devono glissare sul contesto dei fatti che esibiscono. Al contrario, un rivoluzionario cerca di capire e di spiegare anche i fatti che più contrastano con la sua tesi.
  3. Per un’analisi scientifica, alla luce del maoismo, dell’esperienza dei paesi socialisti consiglio l’articolo L’esperienza storica di paesi socialisti in Rapporti Sociali n. 8 e l’opuscolo I primi paesi socialisti di Marco Martinengo –  Edizioni Rapporti Sociali 2003.
  4. Jacques Doriot (1898-1945), uno dei maggiori dirigenti del PCF, alla metà degli anni ’30 si staccò dall’Internazionale Comunista e si fece promotore di un movimento comunista nazionale. Finì per promuovere la collaborazione con i nazisti.
  5. Con la parola “economicismo” qui si indica la tendenza che mette in ogni caso e situazione al primo posto le lotte rivendicative contro i padroni o contro lo Stato dei padroni e ritiene che si possa andare verso la rivoluzione socialista generalizzando le lotte rivendicative o radicalizzando le forme di lotta nelle lotte rivendicative oppure avanzando degli obiettivi sempre più elevati (vedi Lenin Che fare?)

   

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