[Italia] Su un articolo di Contropiano: tra fumo negli occhi il mito della “quarta rivoluzione industriale”

 Abbiamo trattato a più riprese di Industria 4.0 anche riportando l’articolo “Piano nazionale Industria 4.0 e sinistra borghese” pubblicato sul n. 56 de La Voce del (n)PCI. L’argomento è largamente dibattuto: non solo fra esponenti politici e sindacali, ma anche fra operai e lavoratori, l’approccio più diffuso è la preoccupazione rispetto alla diminuzione di posti di lavoro a fronte dello sviluppo dell’automazione nella produzione capitalista di beni e servizi.

La pubblicazione di un articolo sulla rivista Contropiano, a questo tema collegato, ci permette di inserire altri elementi in questa discussione. In questo scritto si denuncia la ricaduta della “quarta rivoluzione industriale” soffermandosi proprio sulla contraddizione fra sviluppo della tecnologia, la digitalizzazione della finanzia e la progressiva finanziarizzazione dell’economia con la forza lavoro. Al di là dell’analisi posta, il limite principale, come vedremo, sta nel fatto di non indicare la causa reale del fenomeno, la proprietà privata dei mezzi di produzione e che tale contraddizione non sarà superata fintanto che non si abbatterà il capitalismo e si instaurerà il socialismo.

Nel testo che segue, il processo di informatizzazione delle banche e del mercato finanziario viene, come sempre, sbandierato come uno stravolgimento totale del mondo conosciuto fino ad oggi, come una “nuova rivoluzione industriale” capace di mettere in sinergia nei processi produttivi ad un livello superiore all’attuale 1. l’informatizzazione (ossia la connessione informatica tra siti produttivi, fornitori – produttori – distributori, una superiore elaborazione di dati analitici e statistici e altro), 2. la robotizzazione (il miglioramento delle macchine industriali per renderle più efficienti e autonome dall’intervento diretto dell’uomo) e 3. la digitalizzazione (conversione di processi ora analogici [cioè fatti con l’intervento di lavoratori] come l’avvio di macchinari, la loro manutenzione, la valutazione della qualità dei prodotti e altri, in processi digitali: lo stato delle cose viene rilevato da macchine che passano i risultati a calcolatori che li trattano secondo un programma informatico e alla conclusione indicano a una macchina cosa fare).

Stabilendo questo bisogna affermare che è positivo che l’umanità progredisca e si impadronisca di strumenti sempre più avanzati per l’organizzazione della società. Oggi gli uomini fabbricano macchine che rilevano (radiografia, ecc.) e registrano quello che un uomo a occhio nudo non vede, calcolatori e programmi informatici che trattano i dati ed elaborano decisioni a una velocità superiore a quella che un uomo raggiunge, robot che operano con una precisione e continuità superiori a quelle che gli uomini raggiungono operando con le loro mani.

Tutto questo una volta nelle mani dei lavoratori organizzati, nel socialismo, ridurrà enormemente la fatica e il tempo che oggi gran parte dell’umanità, i lavoratori, dedica ancora alla produzione, oltre che comportare risparmi di materie prime e di energia, riduzione degli scarti, miglioramento della qualità e un gran numero di altri benefici. È proprio questo il limite principale di tutto lo scritto di Contropiano, non è nella nazionalizzazione delle reti di comunicazione che si salvano i risparmiatori dalle speculazioni dei pescecani della finanza.

Nella crisi del 1929 le azioni cominciarono a valere poco più che un foglio di carta igienica, a Wall Street gli agenti di borsa si lanciarono dalle finestre e centinaia di migliaia di famiglie rimasero coi piedi per aria lo stesso, anche senza il livello di informatizzazione di oggi. Il nocciolo della questione è la proprietà privata dei mezzi di produzione e la soluzione è la rivoluzione socialista. In tal senso è utile studiare a fondo il funzionamento della società borghese e le sue origini, per evitare di procedere alla cieca.

Per avere chiare le origini e l’analisi scientifica del funzionamento della società borghese, occorre, rispetto all’argomento di cui scrive Contropiano, definire più precisamente cosa siano il capitale produttivo, il capitale finanziario e il capitale speculativo, quale sia il ruolo che questi assumono nella produzione e quale il rapporto tra i tre all’interno della produzione.

Per questo consigliamo la lettura della nota n. 42 del Manifesto Programma del (nuovo) Partito Comunista Italiano dal titolo Capitale produttivo, capitale finanziario e capitale speculativo.

 

Capitale produttivo, capitale finanziario, capitale speculativo

Queste tre forme del capitale costituiscono sia una successione storica delle forme dominanti (dirigenti) che epoca dopo epoca ha assunto il capitale, sia tre figure diverse di capitalisti operanti contemporaneamente, sia tre anime diverse dello stesso capitalista. Bisogna quindi considerare sia ognuna di esse nella sua forma pura, sia la genesi storica di una forma dall’altra, sia la combinazione delle varie forme tra loro.

Il capitale produttivo è il capitale che si accresce percorrendo e ripercorrendo il processo Denaro – Merci (mezzi di produzione, materie prime, forza-lavoro degli operai) – Lavorazione – Nuove Merci – Più Denaro (D – M – L – M’ – D’). Questo processo è la base del modo di produzione capitalista, su cui poggia la società capitalista. Le forme dominanti successive del capitale nascono e si sviluppano come escrescenze di questa base, sono sia uno degli sfoghi salutari, ausiliari e necessari di essa, sia una sovrastruttura che la soffoca. Questa base riemerge ogni volta che la sovrastruttura si sgretola, come argomentò in modo conclusivo Lenin nel 1919, all’ottavo congresso del Partito comunista (bolscevico) russo, contro Bukharin e altri che sostenevano che l’imperialismo costituiva un nuovo modo di produzione, anziché una sovrastruttura del capitalismo (vedere nota 73). Il suo ambiente è la produzione, detta anche economia reale.

Il capitalista impegnato nella produzione (l’imprenditore) opera in un’economia mercantile. Egli compera con denaro le costruzioni, i macchinari e gli impianti della sua azienda, gli operai, le materie prime e ausiliarie. Egli quindi immobilizza denaro in “capitale fisso” (impianti fissi e macchinari) e in “capitale circolante” (materie prime e ausiliarie, merci in corso di vendita e salari). Il denaro gli ritorna solo un po’ alla volta tramite la vendita delle merci prodotte. Inoltre egli alle scadenze pattuite paga rendite ai proprietari della terra e delle altre condizioni naturali della produzione (miniere, foreste, ecc.) e periodicamente versa imposte allo Stato e alle altre pubbliche Autorità. Egli ha quindi bisogno di denaro sia come mezzo di scambio sia come mezzo di pagamento.

A parte il denaro che possiede egli stesso, il capitalista imprenditore ricorre al prestito (banche, ricchi, risparmiatori individuali) e paga il relativo interesse, oltre che restituire il prestito alla scadenza. Fin dall’inizio del modo di produzione capitalista, i capitalisti imprenditori hanno preso in prestito denaro dalle banche. Queste prestavano denaro proprio e contemporaneamente agivano come intermediarie tra proprietari di denaro e imprenditori. Questi con il denaro preso in prestito costituivano parte o tutto il loro capitale produttivo. Con la circolazione del denaro, nacque il denaro fiduciario: denaro non più costituito da una merce avente un valore intrinseco (oro, argento, ecc.), ma da un impegno scritto (cartamoneta, lettera di deposito, cambiale, lettera di credito, ecc.) assunto da persona o istituzione che riscuote fiducia, a trasformare su richiesta la carta in una quantità definita di denaro a valore intrinseco. Con la nascita del denaro fiduciario, la massa del denaro in circolazione non fu più soggetta ai limiti propri dell’industria mineraria e metallurgica e della zecca. Essa era regolata dalle banche (dal sistema creditizio) nelle forme e nella misura dettate dalle sue proprie leggi e dalle leggi dello Stato. Il denaro fiduciario moltiplicò i mezzi a disposizione delle banche e il loro ruolo sociale. Il suo sviluppo fu quindi di grande aiuto al capitale produttivo.

Un altro modo con cui fin dall’inizio del modo di produzione capitalista gli imprenditori si procuravano denaro, era cedere ad altri possessori di denaro una partecipazione al profitto che l’azienda avrebbe prodotto o persino una partecipazione alla proprietà (ed eventualmente anche alla gestione) dell’azienda. Nacquero così i titoli finanziari a reddito variabile (titoli di partecipazione agli eventuali utili e titoli di proprietà delle aziende) e le società per azioni.

In questo contesto nacquero e si svilupparono anche i titoli finanziari a reddito fisso (obbligazioni, cambiali, altri titoli di credito), il mercato dei titoli finanziari, il corso dei titoli finanziari (ogni titolo finanziario viene venduto e comperato a un prezzo diverso dal suo valore nominale, un prezzo che varia a secondo del profitto che si presume renderà), le borse dei titoli finanziari (organismi per il commercio di titoli finanziari). Le borse nacquero come istituzioni in cui i capitalisti combinavano il loro denaro per fare affari in comune. Nel corso del tempo le borse divennero istituzioni che direttamente, o indirettamente tramite le banche e altre istituzioni finanziarie, assorbivano i risparmi e la ricchezza in denaro di tutte le classi e li mettevano come capitale nelle mani dei maggiori imprenditori e dei pescicani della finanza.

Il mercato dei titoli finanziari e le borse fino alla metà del secolo XIX si erano sviluppati come ausiliari del capitale produttivo. Essi procuravano denaro ai capitalisti impegnati nella produzione e rendevano più liquido (più facilmente e rapidamente trasformabile in denaro) il loro stesso capitale immobilizzato in merci, mezzi di produzione, aziende. Costituivano una massa di capitale non impiegato direttamente nella produzione, ma al servizio del capitale produttivo.

In questo contesto sorsero e si svilupparono anche le borse merci (organismi per il commercio di titoli di proprietà di partite di merci già in stoccaggio di riserva o ancora da produrre) e il mercato speculativo delle merci, il mercato delle  valute, le borse valute e la speculazione sulle valute. In questi mercati e nel mercato dei titoli finanziari i singoli capitalisti e altri ricchi lottano tra loro ognuno per aumentare la propria ricchezza. Questi mercati hanno caratteristiche e funzionano secondo leggi diverse da quelle dei mercati in cui i produttori scambiano tra loro merci (nella produzione mercantile semplice o nel mercato tra capitalisti imprenditori).

Nel corso della seconda metà del secolo XIX la combinazione tra il capitale bancario, le borse, i mercati sopra indicati e il capitale produttivo divenne così stretta che prese grande sviluppo una nuova forma di capitale, il capitale finanziario. Nell’epoca imperialista il capitale finanziario prese il sopravvento sul capitale produttivo. La proprietà di un’azienda si divise in due: la proprietà delle azioni che rappresentano il suo capitale e la direzione dell’azienda. La proprietà delle aziende si frantumò nelle mani degli acquirenti delle azioni che rappresentano il suo capitale. La direzione dell’azienda si separò dalla proprietà delle azioni dell’azienda. Il prezzo di acquisto di un’azienda venne a dipendere dalla combinazione del profitto e del tasso di interesse che capitalizza (attualizza) il profitto (se un’azienda rende 100 e il tasso di interesse corrente è 5%, la sua capitalizzazione è 100/0.05 = 2.000). In un secondo tempo a determinare il suo prezzo di acquisto subentrò la previsione del profitto che avrebbe reso. In un terzo tempo la previsione del corso (del prezzo di vendita) delle sue azioni. L’obiettivo dell’acquirente di azioni e di altri titoli finanziari non era più il profitto che sarebbe stato distribuito ai proprietari dei titoli, ma la plusvalenza del titolo, cioè l’incremento del prezzo (del corso) del titolo.

Giunti a questo punto, la produzione era diventata un’appendice e uno strumento del capitale finanziario: un’azienda è gestita, venduta e comperata in funzione del corso delle sue azioni. Quindi il capitale finanziario dettava legge alla produzione, benché si reggesse su di essa. Il capitale produttivo aveva svolto il ruolo dell’apprendista stregone. Il demone che esso aveva evocato non obbediva più ai suoi ordini e anzi lo comandava, ma nello stesso tempo non aveva vita propria: non poteva vivere che grazie all’esistenza dello stregone.

Sul capitale finanziario nel corso del tempo sono cresciuti i castelli delle società per azioni (le “scatole cinesi”), della speculazione finanziaria e del parassitismo imperialista che soffocano la produzione e danno luogo alle crisi finanziarie. La speculazione sui titoli finanziari, sulle merci, sulle valute è diventata per i capitalisti finanziari una via a sé stante per aumentare il proprio capitale. La produzione era diventata un’appendice del capitale finanziario. Questo a sua volta è diventato un’appendice del capitale speculativo.

La sovrapproduzione di capitale ha via via ampliato la massa di danaro vagante, nelle mani degli speculatori (cioè dei capitalisti che cercano di aumentare la loro ricchezza speculando sul futuro prezzo delle merci, sul futuro corso dei titoli finanziari, ecc.). Questa massa, con i suoi movimenti arbitrari e scomposti, sconvolge la produzione: le condizioni del credito, del commercio, ecc. da cui nella società capitalista dipende la produzione, che è detta anche “economia reale”.

Su questo tema il testo fondamentale è V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916), in Opere vol. 22. Vedere anche i riferimenti bibliografici della nota 41.

 

***

Banche, finanziarizzazione e tecnologia nell’orgia del capitale

Nella galassia antagonista uno tra gli argomenti d’attualità meno dibattuti riguarda i cambiamenti epocali che sta vivendo il settore bancario.

Si tratta di uno sconquassamento paragonabile alla transizione della fabbrica fordista ad alta produttività e tasso di lavoro umano a quella a produttività ancor più elevata, in cui il lavoro umano è stato quasi del tutto espunto dall’automazione.

Il riferimento visivo più lampante è quello delle catene di montaggio dell’industria automobilistica e, probabilmente – se non fossimo un paese in stato di dismissione industriale da ormai 3 decenni – il gigantismo di questo passaggio potrebbe essere compreso anche dall’uomo comune, che per altro è il candidato naturale a subirne gli effetti nefasti, come si verificò appunto negli anni della trasformazione del modello produttivo fordista.

Le intellettualità di sinistra, ai tempi, risultarono impreparate a cogliere nella giusta ottica quella metamorfosi; purtroppo a quarant’anni da quei fatti, la desertificazione di pensiero è diventata ancor più vasta, dunque l’ipotesi di trovarci completamente disarmati rispetto al dipanarsi degli eventi è quasi una certezza.

Val dunque la pena provare ad approfondire un minimo la questione, inserendola nella cornice delle trattazioni sulla “rivoluzione industriale 4.0” cui Contropiano sta riservando ampio spazio.

Anzitutto va stabilito che il modo in cui la tecnologia sta innervando il settore produttivo (materiale) non è speculare ai suo riverberi nell’ambiente finanziario. Anzi a dispetto di una base comune – la tecnologia, appunto – i due mondi sembrano instradati su una dicotomia dai risvolti laceranti, data la facoltà della finanza di “ammazzare” l’economia reale.

Se la cosiddetta “rivoluzione industriale 4.0”, infatti, si può sintetizzare come un nuovo, radicale capitolo del processo di automazione produttiva in atto dalla seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso, la tempesta che si sta abbattendo sull’universo del credito minaccia di sconvolgere completamente la percezione che ancora conserviamo di quel mondo.

Nonostante il radicale processo di privatizzazione e il contemporaneo spostamento del core business di settore dalla gestione del risparmio alla speculazione volta a generare denaro dal denaro, finanza e banche conservavano ancora una percezione, anche fisica – reti capillari di sportelli, impiegati, consulenti, ecc. – solida nell’immaginario collettivo. Percezione che ha ricevuto una prima, violenta, picconata dal fallimento Lehman del 2008 cui è seguito un vorticoso stravolgimento del settore generato dal cosiddetto shadow banking.

Il credito ombra è un caso da manuale nell’ambito delle soluzioni interne al modo di produzione capitalista che generano più problemi di quelli che vorrebbero sanare.

Esso nasce come risposta alla stretta creditizia con cui il mercato finanziario istituzionale (ricordiamoci sempre che si parla di soggetti privati) ha cercato di tamponare le perdite derivanti dall’esplosione della bolla dei sub-prime.

Com’è risaputo, dopo anni di vacche grasse in cui il credito veniva concesso a chiunque – dal più improbabile imprenditore a stuoli di consumatori palesemente insolventi – le banche, rimpinguati i forzieri con i piani pubblici di salvataggio, decisero di attendere il passaggio della tempesta leccandosi le ferite e riducendo drasticamente i finanziamenti, più banalmente la liquidità, messa a disposizione di consumatori e aziende.

La situazione ha ovviamente falcidiato il “mercato” che, dagli anni ’80 in poi, è di fatto sopravvissuto a se stesso grazie all’accesso al credito estremamente facilitato. Gli acquisti rateali sono scolpiti nella memoria di un interno emisfero, così come, almeno in Italia, l’istantanea di un tessuto produttivo che per dimensioni degli attori che lo popolavano non poteva avere altro interlocutore che non fosse la fideiussione bancaria.

E’ a questo punto che il credito ombra entra in scena andando a colmare il vuoto lasciato dai creditori istituzionali, operazione che svolge, capitalisticamente parlando, anche con maggiore efficienza dal momento che le realtà operanti nell’ombra, non devono sottostare alle seppur blande regolamentazioni legislative in materia, perché non sono classificabili tra gli operatori istituzionali.

Questo vantaggio competitivo ha consentito allo shadow banking di generare un giro d’affari valutato in 149mila miliardi di dollari, di cui 34mila miliardi considerabili a rischio (fonte: IlSole24Ore). A fronte di numeri di questa entità, va tenuto a mente che gli operatori del credito ombra non sono tenuti nemmeno all’accantonamento di una riserva frazionaria, quindi se qualcuno di loro dovesse saltare non ci sarà nemmeno la possibilità di fare retorica pretendendo che i buchi siano coperti, seppur in minima parte date le cifre in gioco, con il contenuto dei forzieri di lor signori.

Le criticità fin qui esposte sono trattate a livello politico da un lustro scarso e per altro solo in quegli ambienti che hanno mantenuto percezione del ruolo strategico giocato dal mondo bancario nell’odierna competizione globale. Mi riferisco alla Germania, che tuttavia ha gatte da pelare probabilmente eccedenti le capacità della propria classe dirigente, e la Cina, al momento seduta su un’autentica polveriera e c’è da scommettere che l’attuale dirigenza del PCC si giocherà una larga fetta del proprio futuro sulla gestione della faccenda, oltre che sulla realizzazione della “nuova via della seta” la cui impostazione, molto probabilmente, non è estranea anche alla necessità di governare, almeno in chiave ridimensionamento, la bolla montata dal credito ombra.

Per altro l’intersezione tra bolla shadow banking, nuova via della seta e investimenti cinesi all’estero andrebbe seriamente analizzata a sinistra, non soltanto per scandagliare l’anomalia costituita dal “socialismo con caratteristiche cinesi”, ma anche per tenere i piedi ben saldi a terra ogni qual volta s’invoca l’allineamento al celeste impero per evadere dalla gabbia economica impostaci dalla UE. Scritto altrimenti, il passo dalla padella dei project financing nostrani, alla brace di quelli con “caratteristiche cinesi”, può lasciare sulla pelle di un’economia ampiamente disastrata come quella italiana, ustioni insanabili.

Finora la questione tecnologica associata agli sconvolgimento del mondo bancario è rimasta sullo sfondo, ma soltanto nella mia esposizione. Se lo shadow banking è risultante pratica della stretta al credito, la sua crescita mostruosa, infatti, va tecnicamente imputata agli strumenti informatici che hanno consentito di strutturare e processare con rapidità crescente algoritmi finanziari sempre più complessi (banalmente, operazioni matematiche con cui gli strumenti d’investimento si impacchettano in forme diverse per essere rivenduti sul mercato), che fattivamente contribuiscono alle difficoltà di regolamentazione nella cornice del libero mercato.

Anche questo argomento è assurto al dibattito con ritardo e limitato riscontro anche tra gli addetti ai lavori. La questione tuttavia è dirimente, in particolare circa la diffusione delle cosiddette criptovalute, tra cui il Bitcoin è la più conosciuta.

Sulle pagine di Contropiano si è già trattata la logica perversa e criminale che ne determina il funzionamento; quello che in questa sede si vuole sottolineare è, ancora una volta, l’impossibilità per la tecnologia di costituire un fattore strutturalmente progressista all’interno della cornice di mercato, quindi entro logiche che intendono valorizzare esclusivamente il profitto privato.

Su queste pagine tale asserzione è stata trattata in un pezzo tradotto dal Guardian in cui l’autore, con un pizzico di provocazione, sostiene la necessità di nazionalizzare le grandi multinazionali del digitale. Il testo con grande merito rileva come queste ultime siano divenute piovre che mettono a valore ogni istante delle nostre vite compresi, soprattutto, quelli più personali. Infatti, oltre l’immateriale – con la finanziarizzazione declinata in chiave shadow banking e criptovalute – l’ultima frontiera dell’accumulazione è l’estrazione di profitto da tempo libero, gusti, inclinazioni personali dei singoli, catalogati entro big data virtualmente infiniti e sottratti a qualsiasi controllo pubblico, figuriamoci democratico.

Il prossimo passo del capitale non è ancora dato sapere quale sarà, ma forse ripassando Ghost in the shell o Matrix qualche qualche ipotesi in merito potremmo farla…

Scenari distopici a parte, a livello teorico le alternative possono essere quanto meno discusse. Ad opinione di chi scrive, nella questione il fattore dirimente può identificarsi nell’infrastruttura. Mi spiego meglio: quando parliamo di economia digitale tendiamo inconsapevolmente a considerarla come qualcosa di ineluttabile perché sottratta alla fisicità. Il motore di ricerca di Google, piuttosto che la nostra pagina Facebook, non li possiamo toccare, tuttavia ciò che osserviamo attraverso un display a cristalli liquidi fa quello che deve perché alle sue spalle c’è un’infrastruttura fisica che gli consente di operare. Sono consapevole di scrivere ovvietà, che tuttavia sono talmente scontate da essere spesso espunte dal dibattito.

Ora, per quanto i server che eseguono il codice di Google piuttosto che Facebook, Amazon, ecc. siano proprietà delle rispettive società e risiedano in altri paesi, quindi non possano essere nazionalizzati, è pur vero che senza l’infrastruttura di rete che veicola i dati da e per l’utente ai server della multinazionale digitale di turno, tutto il sistema non potrebbe funzionare. Ecco quindi che se parlare di nazionalizzazione di Google è evidentemente una boutade volta a stimolare la riflessione, decisamente più fattibile è l’ipotesi di nazionalizzare una rete di telecomunicazioni e stabilire chi può operarci e a quali condizioni.

Questo è ne più ne meno ciò che fa la Cina, a scopo censorio, con il proprio Golden Shield project. Un approccio simile, dunque, potrebbe essere tecnicamente fattibile anche nell’ottica di porre un freno, entro i confini nazionali, allo strapotere che le multinazionali digitali hanno assunto nella società odierna.

Certo prima – molto prima – bisognerebbe disintossicarsi dal cosmopolita borghese con cui le sinistre occidentali degli ultimi decenni hanno sostituito il più concreto internazionalismo proletario, ma insomma… citando Gene Wilder “sì può fare!”

 

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