Ancora sulla relazione fra Industria 4.0 e il socialismo

Abbiamo trattato di Industria 4.0 su Resistenza n. 9/2017 riportando ampi stralci dell’articolo “Piano nazionale Industria 4.0 e sinistra borghese” pubblicato sul n. 56 de La Voce del (n)PCI. L’argomento è largamente dibattuto: non solo fra esponenti politici e sindacali, ma anche fra operai e lavoratori, l’approccio più diffuso è la preoccupazione rispetto alla diminuzione di posti di lavoro a fronte dello sviluppo dell’automazione nella produzione capitalista di beni e servizi.

Un approccio alla questione contemplativo e disfattista lo sintetizza l’articolo a firma F. Piccioni pubblicato sul sito Contropiano “Agricoltura 4.0, il tunnel in fondo alla luce”. L’autore denuncia la ricaduta della “quarta rivoluzione industriale” soffermandosi proprio sulla contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e forza lavoro (nella fattispecie dell’articolo nell’agricoltura), senza però spiegare, né accennare, che tale contraddizione esiste solo in ragione della proprietà privata dei mezzi di produzione e fintanto che tale rapporto di produzione sussiste nella società.
La posizione di F. Piccioni (comune a tanti sindacalisti sia di base che non e a tanti altri esponenti della sinistra borghese) è pertanto unilaterale e porta a una sola conclusione: lo sviluppo delle forze produttive è negativo per la classe operaia e per le masse popolari. Tale tesi non considera un aspetto essenziale, la tendenza allo sviluppo delle forze produttive agisce nel capitalismo con la forza cieca di una legge naturale, si fa valere per ogni capitalista come costrizione esterna a lui dettata dalla legge della concorrenza: i capitalisti che per primi riescono ad aumentare la produttività del lavoro possono contare su maggiori profitti, espellendo i concorrenti dal mercato o costringendoli ad adeguarsi allo sviluppo tecnologico. Quindi ogni azienda o investe per adeguarsi alle nuove tecnologie che permettono di aumentare la produttività del lavoro, o alla lunga dovrà soccombere, schiacciata dalla concorrenza. In entrambi i casi per le masse popolari ciò significa disoccupazione, maggiore precarietà e maggiore sfruttamento. In sintesi il problema di fondo non è Industria 4.0, ma il capitalismo; la soluzione non è respingere o resistere a Industria 4.0, ma avanzare nella rivoluzione socialista e instaurare la dittatura del proletariato. Senza questa conclusione, la sola denuncia non è utile, anzi alla lunga è nociva, perché spalanca le porte al disfattismo (“non c’è alcuna soluzione”).

Posizione diversa è stata espressa da Roberta Fantozzi della Segreteria Nazionale del PRC all’iniziativa che si è svolta a Milano il 15 settembre scorso, nell’ambito della festa provinciale di quel partito. Ha affermato che ci sono due ordini di problemi da affrontare, per approcciarsi in modo critico all’innovazione in corso: il primo è ragionare su come si possano identificare socialmente – che ruolo avranno nella società – quei lavoratori che in ragione degli sviluppi dell’Industria 4.0 saranno altamente intercambiabili, senza specifica professionalità che non sia il controllo delle macchine, espropriati della loro identità sociale; il secondo è ragionare su come governare il processo per evitare o limitare la portata distruttiva sui livelli occupazionali.
Le questioni poste da R. Fantozzi consentono di superare il catastrofico disfattismo di F. Piccioni e guardare oltre e più in profondità.

Lungi dall’esaurire gli argomenti, gli spunti, la ricerca e il dibattito (che anzi vogliamo alimentare e sviluppare, chiediamo ai nostri lettori di intervenire ed esporre i loro ragionamenti e le loro riflessioni), partiamo da un punto fermo: usiamo il Centenario della Rivoluzione d’Ottobre non per “celebrare una festa comandata”, ma come lente per analizzare alla luce della concezione comunista del mondo il presente, valorizzare gli insegnamenti in funzione dei passi che dobbiamo compiere e per intravedere il futuro che dobbiamo conquistare. Trattiamo in quest’ottica due aspetti particolari del legame fra industria 4.0 e rivoluzione socialista nel nostro paese.

Cosa significa “governare il processo” dello sviluppo delle forze produttive? Togliamo ogni dubbio possibile: chi per “governare il processo” si riferisce alla possibilità di imporre ai capitalisti la riduzione dell’orario lavorativo a parità di salario (lavorare meno per lavorare tutti) senza porsi e perseguire l’obiettivo del socialismo, sta prendendo un granchio, chi addirittura propone quella strada per uscire dalla crisi sta vendendo fumo (rimandiamo all’articolo sulla situazione internazionale a pagina 1 per rispondere a obiezioni del tipo: “Ma in Germania e in Francia lo hanno fatto”). Chi si appella ai contratti di solidarietà (lavorare meno, percependo meno salario) per fare fronte al calo dell’occupazione pretende che i lavoratori si spartiscano la miseria che i padroni lasciano loro, come briciole dei loro profitti. La verità è che non esiste un modo per “limitare”, “mitigare”, “smussare” le conseguenze dello sviluppo delle forze produttive che prescinde dalla lotta politica rivoluzionaria. E’ vero che esistono già oggi le condizioni per garantire a ogni adulto un lavoro utile e dignitoso di durata giornaliera e settimanale di gran lunga inferiore ai turni massacranti e ai carichi a cui sono sottoposti “i fortunati” che un posto di lavoro ce l’hanno, ma non è confidando nella concessione dei padroni che è possibile ottenerlo. Solo attraverso l’azione del Governo di Blocco Popolare che le organizzazioni operaie e le organizzazioni popolari, con le buone o con le cattive, dovranno tradurre e far rispettare zona per zona e azienda per azienda, lo consente. Una tale situazione non è ancora “la direzione operaia e popolare del processo di sviluppo delle forze produttive”: quello presuppone l’instaurazione del socialismo e la dittatura del proletariato, cioè il regime politico in cui la classe operaia e le masse popolari governano l’intera società secondo i loro interessi. La lotta politica rivoluzionaria, che si riassume oggi nell’obiettivo di costituire il Governo di Blocco Popolare, è il passo concreto, realistico e possibile che abbiamo di fronte per avanzare in quella direzione.

Cosa saranno la classe operaia e le masse popolari nella società liberata dal lavoro salariato? L’esperienza della costruzione del socialismo in Russia (1917 – 1953) dimostra che, liberata la società dal lavoro salariato, la classe operaia e le masse popolari hanno la possibilità (più precisamente sono educate, formate, spinte e tenute a farlo) di dedicarsi alle attività specificamente umane, in particolare alla direzione collettiva della società. Un esempio chiarissimo di cosa si intende è costituito dal semplice raffronto fra quali e quanti sono i sacrifici che deve fare oggi, in un paese imperialista come il nostro, un lavoratore per dedicarsi all’attività politica, sindacale o sociale, al funzionamento di un comitato anche piccolo di cittadini, di un’associazione culturale o sportiva, di un collettivo di gestione di un circolo. Sacrifici che comunque entrano per forza di cose in contraddizione con la cura della famiglia, degli amici e degli affetti. Ma ci sono esempi anche più pratici e di immediato riscontro: la conquista dei milioni di proletari, prima della Rivoluzione bolscevica ridotti alla miseria e all’ignoranza, della cultura, l’arte, le scienze umane e naturali e lo sport, che prendiamo qui come aspetto emblematico. In Unione Sovietica fu istituito un sistema di educazione fisica universale e ordinario (nelle scuole di ogni grado, nelle fabbriche, nell’esercito) che rendeva possibile l’allenamento in qualunque disciplina, al livello tale che in pochi decenni moltissimi atleti russi, tutti appartenenti alla classe operaia, sono arrivati a primeggiare a livello internazionale. E’ proprio in uno dei circoli di paracadutismo, pratica molto diffusa fra gli operai russi, che Valentina Tereshkova maturò, fin da giovanissima, l’interesse che poi la portò a formarsi per intraprendere il primo viaggio di una donna nello spazio nel 1963 (vedi Resistenza n. 6/2017). Nonostante il senso comune spinga a soffermarsi sulle caratteristiche individuali e personali dell’autrice dell’impresa, il dato storico è che ne ha avuto la possibilità, ha avuto dalla società, dallo stato, dalla classe operaia, dalle masse popolari il sostegno, la formazione tecnica e scientifica e gli strumenti pratici. Come milioni di altri proletari li hanno avuti per diventare, pur lavorando ordinariamente in fabbrica o nel settore produttivo a loro assegnato, ingegneri, educatori, artisti, medici, scienziati contribuendo ognuno, con tutti gli altri, alla direzione della società, alla costruzione del socialismo, all’avanzamento verso il comunismo. Se questo è stato possibile nella Russia arretrata, assediata dalle guerre degli imperialisti, sabotata dalle quinte colonne, tutto questo sarà possibile a maggior ragione in una società in cui i mezzi di produzione sono già ampiamente sviluppati, in cui i lavoratori tutti, anche grazie al livello di automazione raggiunto, dovranno lavorare lo stretto indispensabile e dedicarsi con le loro migliori energie, intelligenze ed entusiasmi alle attività specificamente umane.

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