27 ottobre e 10 novembre: sciopero generale

La classe operaia prenda la testa di tutte le mobilitazioni popolari contro gli effetti della crisi

Quando affermiamo che la rivoluzione socialista è possibile e che nel nostro paese è già in corso troviamo scetticismo e obiezioni espresse da molte compagne e molti compagni che pure sono attivi nel movimento popolare, nelle organizzazioni e nei partiti che si definiscono comunisti, nei sindacati combattivi e di base. Molto spesso su Resistenza abbiamo trattato e argomentato due aspetti decisivi nella comprensione di ciò che significa che la “rivoluzione socialista è in corso”: abbiamo ripreso la definizione che aveva dato Lenin della situazione rivoluzionaria in sviluppo e l’abbiamo rielaborata ai giorni nostri; abbiamo ripreso gli insegnamenti della Rivoluzione d’Ottobre e della prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale soffermandoci su uno dei principali: la rivoluzione socialista inizia quando un gruppo di comunisti, anche piccolo, costituisce il partito comunista che si pone l’obiettivo di costruirla e si dà i mezzi per farla.

Per il marxista non v’è dubbio che la rivoluzione non sia possibile senza una situazione rivoluzionaria e che non tutte le situazioni rivoluzionarie sbocchino nella rivoluzione. Quali sono, in generale, i segni di una situazione rivoluzionaria? Siamo sicuri di non sbagliare a indicare questi tre segni come i segni principali:
1 – Le classi dominanti non riescono più a conservare il loro potere senza modificarne la forma; una crisi negli «strati superiori», una crisi nel sistema politico della classe dominante, che apre una fessura nella quale si incuneano il malcontento e l’indignazione delle classi oppresse. Per lo scoppio della rivoluzione non basta ordinariamente che “gli strati inferiori non vogliano più” continuare a vivere come prima, ma occorre anche che «gli strati superiori non possano più» vivere come per il passato.

2 – Un aggravamento, maggiore del solito, dell’oppressione e della miseria delle classi oppresse.

3 – In forza delle cause suddette, un rilevante aumento dell’attività delle masse, le quali in un periodo “pacifico” si lasciano depredare tranquillamente, ma in periodi burrascosi sono spinte, sia da tutto l’insieme della crisi, che dagli stessi “strati superiori”, ad un’azione storica indipendente.
Senza questi cambiamenti oggettivi [grassetto nostro], indipendenti dalla volontà non soltanto di singoli gruppi e partiti, ma anche di singole classi, la rivoluzione – di regola – è impossibile. L’insieme di tutti questi cambiamenti oggettivi si chiama situazione rivoluzionaria. Una tale situazione si presentò nel 1905 in Russia e in tutte le epoche rivoluzionarie in Europa occidentale; ma essa si presentò anche nel 1860 in Germania e nel 1859-1861 e 1879-1880 in Russia, sebbene in questi casi non vi sia stata alcuna rivoluzione. Perché? Perché la rivoluzione non nasce da ogni situazione rivoluzionaria, ma solo nei casi in cui, alle trasformazioni oggettive sopra indicate, si aggiunge una trasformazione soggettiva, cioè la capacità della classe rivoluzionaria di compiere azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti da spezzare (o almeno incrinare) il vecchio governo, il quale, anche in un periodo di crisi, non “cadrà” mai se non lo “si fa cadere”.

Da Il fallimento della II Internazionale, Lenin, maggio – giugno 1915.

C’è un terzo aspetto che emerge dalle obiezioni che abbiamo raccolto: “ma dove la vedete voi, la mobilitazione rivoluzionaria della classe operaia e della masse popolari?”. Certo, non basta rispondere che una situazione rivoluzionaria in sviluppo non si caratterizza come tale perché le larghe masse compiono attività rivoluzionarie, questa risposta non basta sia perché sembra alludere a un rinvio all’infinito della rivoluzione socialista (a quando le masse popolari si mobiliteranno in senso rivoluzionario – attendismo), sia perché non aiuta chi solleva la questione a vedere la situazione concreta, il movimento reale in atto (i cambiamenti oggettivi di cui parla Lenin nel 1915) nella società e nel nostro paese (e questa è la base del disfattismo: “la rivoluzione non è possibile”). “Non è di slanci isterici che abbiamo bisogno, ma dei passi misurati dei ferrei battaglioni del proletariato” scriveva ancora Lenin nel 1918 per sintetizzare i compiti fondamentali della rivoluzione socialista russa. Bench siamo oggi in un contesto molto diverso (e in una diversa fase: Lenin scrisse il concetto come sintesi conclusiva di “I compiti immediati del potere sovietico”, alcuni mesi dopo la presa del Palazzo d’Inverno), il principio è comunque molto importante per tutti coloro che vogliono farla finita con il capitalismo, è uno strumento di analisi e un orientamento dell’attività pratica, è una conferma che la rivoluzione non scoppia (non è uno slancio eroico), ma il partito comunista la costruisce aggregando, formando, educando e organizzando i battaglioni della classe operaia e delle masse popolari. Si tratta di una guerra (popolare, rivoluzionaria e di lunga durata), composta da campagne e battaglie combattendo le quali l’esercito politico della classe operaia e delle masse popolari si forma, si forgia, si ingrossa, si emancipa alla scuola del partito comunista, seleziona i suoi dirigenti e quadri e vince. Nella situazione rivoluzionaria in sviluppo di oggi nel nostro paese, questo esercito non c’è ancora, ma c’è il partito comunista, l’ingrediente essenziale perché si formi. L’esercito politico può quindi formarsi e si formerà se il partito comunista è capace di condurre la guerra, le campagne e le battaglie con una giusta concezione del mondo, una giusta strategia e una giusta tattica. Giusta nel senso che è coerente con il corso oggettivo delle cose e in grado di far avanzare la rivoluzione socialista nel nostro paese. La giustezza di una linea in definitiva viene verificata nella pratica.

Questa lunga premessa era necessaria per mettere in fila e in dialettica tra loro i tre aspetti che qualificano la trasformazione di una situazione rivoluzionaria in sviluppo in rivoluzione socialista in corso: la crisi generale e irreversibile, l’esistenza del partito comunista adeguato ai compiti storici, la mobilitazione rivoluzionaria della classe operaia e delle masse popolari.

La politica rivoluzionaria per la classe operaia e per le masse popolari
Stanti le condizioni internazionali dettate dal corso della crisi generale del capitalismo, stanti le loro ripercussioni sul nostro paese e le specifiche caratteristiche del nostro paese, l’obiettivo della guerra popolare rivoluzionaria si sostanzia in questa fase nell’obiettivo tattico di costituire (e imporre ai vertici della Repubblica Pontificia) un governo di emergenza delle organizzazioni operaie e delle organizzazioni popolari, il Governo di Blocco Popolare. Questo obiettivo a sua volta si articola in campagne e battaglie in ogni ambito, forma e contesto in cui si presenta la lotta di classe: la lotta politica promossa dalla borghesia, le lotte rivendicative (per strappare aumenti salariali e miglioramento delle condizioni economiche e di vita ai padroni e alle autorità della Repubblica Pontificia) e le lotte di riappropriazione, occupazioni, espropri di beni e servizi necessari per una vita dignitosa, la lotta contro la repressione e la solidarietà di classe, quella per la difesa dei diritti politici e civili (difendere ed estendere quelli esistenti e conquistarne di nuovi), la mobilitazione in campo culturale. In ogni ambito di mobilitazione portiamo la linea di lavorare per costruire organizzazioni operaie e organizzazioni popolari, rafforzare quelle che già esistono, sviluppare il loro coordinamento e fare assumere a tutte il ruolo di nuove autorità pubbliche non colluse con le vecchie autorità borghesi (istituzioni, partiti, fondazioni) e con i vertici della Repubblica Pontificia. Nuove autorità pubbliche che individuano i problemi più urgenti causati dalla crisi azienda per azienda e zona per zona, indicano le misure per affrontarli, mobilitano le masse popolari per affrontarli, intervengono in settori via via crescenti della vita economica e sociale. Le organizzazioni operaie e le organizzazioni popolari sono la spina dorsale del Governo di Blocco Popolare e della mobilitazione rivoluzionaria delle larghe masse.

La mobilitazione spontanea delle masse popolari in Italia
Da quando è iniziata (2008) la fase acuta e irreversibile della seconda crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale (in corso dal 1975) le condizioni complessive di vita e di lavoro delle masse popolari sono peggiorate senza posa (anche se, ovviamente, ogni capo del governo che si è succeduto ha avuto la faccia tosta di ripetere il ritornello che “la crisi è alle spalle, si vede una ripresa”). Ma i fatti hanno la testa dura: non solo sono cresciute e crescono la disoccupazione e la precarietà, la necessità di valorizzare capitale ad ogni costo ha portato alla situazione, apparentemente paradossale per cui per chi lavora è stata alzata l’età pensionabile e aumentati gli orari di lavoro, mentre milioni di giovani sono disoccupati e quando lavorano fanno lavori precari, sottopagati o non retribuiti (stage, alternanza scuola lavoro), sono aumentati gli infortuni e i morti sul lavoro; i negozi sono strapieni di prodotti di ogni genere e milioni di proletari vivono in condizioni di indigenza; la speculazione sul territorio e sull’ambiente ha creato una situazione di degrado disastrosa e il paese intero è devastato da continue frane e alluvioni, ogni emergenza, dai terremoti ai lavori di bonifica alle le ricostruzioni, oltre che essere fonte di speculazione e corruzione, genera ulteriori disastri e devastazioni. La direzione della borghesia e della sua Chiesa (la classe dominante) rompe la coesione sociale, alimenta abbrutimento e degrado, si moltiplicano i femminicidi (donne uccise perché donne) e le violenze di genere, le discriminazioni razziali, religiose o sessuali. La classe dominante si ingrassa sulla disperazione che essa stessa genera. Si arricchisce e gozzoviglia sulla “fabbrica della morte e del dolore” e alimenta la mobilitazione reazionaria (guerra tra poveri) per coprire la sua gestione criminale della società.

Di fronte a questo marasma, ben più grave per effetti distruttivi di qualunque calamità naturale, le masse popolari, spontaneamente, si mobilitano, resistono agli effetti della crisi. La parte più avanzata e determinata cerca una strada per invertire il corso disastroso delle cose. Noi non siamo ottimisti per partito preso, ma non siamo neanche disfattisti (le masse popolari sono rassegnate e sottomesse, non ci resta che piangere e deprecare) né spontaneisti (le masse popolari possono combattere e vincere senza direzione). Valutiamo la condotta spontanea delle masse popolari con il metodo scientifico del materialismo dialettico sulla base della situazione storica concreta: rinascita del movimento comunista cosciente e organizzato ancora ai suoi inizi, mancanza di un centro di mobilitazione delle masse popolari altro dal partito comunista, ma largamente riconosciuto, sfiducia in se stesse generata dall’esaurimento della prima ondata della rivoluzione proletaria, capillare sistema di controrivoluzione preventiva messo in opera dalla borghesia su larga scala. In un contesto come questo, ogni forma di organizzazione e mobilitazione spontanea delle masse popolari, ogni forma di resistenza alla crisi che rifiuta l’intruppamento sotto la direzione dei vertici della Repubblica Pontificia, che rifiuta e contrasta la guerra fra poveri e la guerra fra Stati verso cui la Comunità Internazionale degli imperialisti sta trascinando il mondo, che promuove la solidarietà di classe, che indica la strada del protagonismo dal basso, che si batte per difendere, praticandoli, i diritti conquistati grazie alla vittoria della Resistenza sul nazifascismo e grazie alle lotte dei decenni passati, ognuna di quelle forme di organizzazione e mobilitazione è quanto di più avanzato il campo delle masse popolari possa oggi esprimere. Facciamo degli esempi, consapevoli che l’elenco sarà per forza di cose parziale, tuttavia rende bene l’idea di ciò che intendiamo.

Ci sono le campagne di Eurostop contro UE, Euro e NATO, che toccano anche il nervo scoperto delle manovre repressive dei vertici della Repubblica Pontificia declinate, con il Decreto Minniti-Orlando, in guerra aperta e conclamata contro i poveri e gli immigrati, dai lager per migranti in Libia ai DASPO urbani. Il 23 settembre a Bologna si è svolto il convegno nazionale “Stop Minniti: ordine pubblico o giustizia sociale?” per ragionare collettivamente e trovare ambiti di iniziativa comune per rompere il tentativo di assedio poliziesco in atto. Il convegno ha illustrato la repressione, ma così facendo ha dato la misura della resistenza diffusa nel paese. Citiamo dall’intervento introduttivo della giornata (vedi www.eurostop.info): “Dal 2011, l’anno in cui è diventato operativo il “pilota automatico” cioè il commissariamento della BCE e delle istituzioni europee sul nostro paese, il numero di attivisti sociali, sindacali, politici, lavoratori, occupanti di case colpiti da provvedimenti repressivi, ha subito una impressionante escalation. Questi sono i dati tra il 2011 e la prima metà del 2017: in manifestazioni, picchetti, resistenza a sfratti e sgomberi, azioni di protesta, blocchi stradali, ci sono stati 852 arresti; 15.602 denunce; 385 fogli di via; 221 decreti di sorveglianza speciale; 139 obblighi di firma; 71 obblighi di dimora. Sui decreti di condanna penale, praticamente senza processo, i dati della sola prima metà del 2017 parlano di 46 attivisti condannati. Tra gli attivisti colpiti troviamo soprattutto molti disoccupati organizzati napoletani, attivisti del movimento No Tav, lavoratori dei servizi e della logistica, occupanti di case, attivisti No Border, attivisti del No Muos e antimilitaristi sardi”.

C’è lo sviluppo del progetto dei compagni e delle compagne dell’Ex-OPG di Napoli che a seguito della festa di Je so pazzo (7 – 10 settembre) hanno lanciato a livello nazionale Potere al Popolo “una piattaforma aperta a tutti che (…) mette in comune le nostre risorse (le informazioni, le capacità che abbiamo maturato, le casse di resistenza, gli avvocati, i medici…), dando anche ai gruppi più piccoli che si vogliano attivare sostegno e cassette degli attrezzi, cercando di stimolare il dibattito a livello nazionale e di rilanciare iniziative di mobilitazione. Praticando il controllo popolare sulle istituzioni, sulle amministrazioni, sugli enti pubblici, sulle aziende, sui fondi che troppo spesso vengono dirottati nelle tasche dei privati senza alcun beneficio per noi. Mentre tutto si frammenta e si individualizza, mentre tutti si scindono, noi abbiamo deciso di legare. Di mettere insieme cose che prima non si conoscevano, di aprire vie alla comunicazione” (dalla pagina Facebook).

Ci sono le Brigate di Solidarietà Attiva che portano soccorso e sostegno alle popolazioni colpite dai cataclismi e che in pochi anni sono diventate un punto di riferimento praticamente in ogni zona in cui esiste un’emergenza, hanno conquistato capacità, credibilità, fiducia e perizia dall’Aquila a Livorno (caso in cui hanno dovuto sospendere l’afflusso di volontari perché la spinta alla solidarietà è andata ben oltre le esigenze della situazione).

Ci sono le reti e i comitati, formali e informali, che hanno operato per la vittoria per il NO al referendum del 4 dicembre 2016, disseminati in tutto il paese e che hanno assunto, in molti casi, la parola d’ordine di mobilitarsi per attuare dal basso la Costituzione (ed è nato anche un aggregato che opera con continuità con questo obiettivo – vedi articolo “L’assemblea di Napoli…” a pag. 5).

Ci sono le reti antirazziste che si oppongono materialmente alle conseguenze delle politiche persecutorie contro gli immigrati; la rete NO Border a Ventimiglia, raccogliendo volontari e attivisti da tutta Italia, duramente repressa, ne è solo un esempio; le 5 mila persone che hanno partecipato a fine agosto al corteo di Roma, contro lo sgombero dell’accampamento dei rifugiati, sono tutt’altro che poche e si è trattato di una mobilitazione tutt’altro che isolata.

Ci sono le lotte dei lavoratori: frammentate, disseminate in tutto il paese, spesso dirette da organismi dediti alla mobilitazione, ma all’ombra di concezioni del sindacato di riferimento del tutto inadeguate alla fase attuale (un esempio: contro i licenziamenti e le chiusure, se non esiste una spinta significativa dalle RSU e dagli operai stessi, la FIOM promuove la lotta per concordare la migliore buonuscita possibile, la monetizzazione del licenziamento, la durata degli ammortizzatori sociali). Tuttavia è in questo ambito che si trovano le esperienze anche più innovative e di rottura: dalla mobilitazione per l’autogestione delle aziende (come la Rational di Massa) alla promozione di coordinamenti di settori strategici (come quello della siderurgia promosso dagli operai Ex-Lucchini di Piombino), dai blocchi e picchetti nella logistica, alle mille forme di resistenza all’infame CCNL firmato dalla FIOM.

Ci sono le lotte contro le speculazioni e la devastazione ambientale: quelle che hanno una lunga tradizione e hanno conquistato autorevolezza su tutto il movimento popolare (NO TAV) a quelle più recenti, ma egualmente significative e rappresentative a livello nazionale (NO TAP in Puglia) e le migliaia e migliaia che si sviluppano a livello territoriale in tutte le regioni.

Ci sono le proteste contro la NATO e contro le spedizioni militari delle Forze Armate italiane, in violazione dell’articolo 11 e 52 della Costituzione: ci limitiamo a ricordare il tenace movimento NO MUOS.

Anche nelle carceri, che non sono solo il posto in cui chi stupra o uccide una donna sconta la sua pena (a condizione che sia un proletario, perché se è un ricco o un prete beneficia comunque di arresti domiciliari e tutele particolari e, in ogni caso, non sconta la sua pena…), ma sono un posto pieno di poveri che hanno commesso solitamente reati contro il patrimonio (contro la proprietà privata), frodi e truffe contro i ricchi, spacciatori di piccolo taglio (a patto che non siano membri delle forze dell’ordine o loro congiunti o amici), immigrati, attivisti politici e sociali. Anche nelle carceri si moltiplicano le rivolte contro le condizioni insostenibili di detenzione e continua la resistenza dei rivoluzionari prigionieri, in alcuni casi in carcere da decenni o sepolti vivi con il 41bis come nel caso della compagna Nadia Lioce, testimoni viventi fra la stagione della lotta rivoluzionaria degli anni ‘70 del secolo scorso e la rinascita del movimento comunista in corso.

Se guardiamo a ognuno di questi movimenti, esperienze e processi, staccandoli l’uno dall’altro, è inevitabile soffermarsi sulle inadeguatezze, come se ognuno di essi, da solo, potesse essere decisivo per la trasformazione della società (ci comportiamo come quelli che vedono il singolo albero ma non la foresta che formano assieme). Ognuno di essi è invece importante insieme agli altri perché tutti raccolgono già la parte avanzata delle masse popolari, quella disposta a mobilitarsi, quella che non si rassegna alla subordinazione, quella che è, per molti altri elementi delle larghe masse, un punto di riferimento positivo: un punto di riscossa, di mobilitazione e di azione. Ognuno di essi è importante, inoltre, perché questa è lotta di classe ed è l’ambito in cui la parte avanzata delle masse popolari fa la sua scuola pratica di comunismo.

La benzina dello sciopero generale sul fuoco della mobilitazione popolare
Il 16 giugno scorso Si Cobas, SGB, CUB, USI – Ait e Slai Cobas hanno indetto uno sciopero nei settori trasporti e logistica che è andato oltre le aspettative, nel senso che ha avuto un’alta adesione anche di lavoratori iscritti ad altri sindacati e di lavoratori non iscritti ad alcun sindacato. Un successo che ha spinto governo, consulenti del lavoro come Sacconi, sindacati confederali a levare il coro “bisogna rivedere la legge sul diritto di sciopero perché un sindacatino non può bloccare il paese”. Sono cioè tornati alla carica per eliminare un diritto che finché è sulla carta non da fastidio, ma quando i lavoratori lo praticano allora va tolto e il prima possibile. In risposta, i promotori di quello sciopero ne hanno convocato un altro per il 27 ottobre, incentrato proprio sulla difesa, praticandolo, del diritto di sciopero, oltre che su una piattaforma di rivendicazioni generali: “abolire le disuguaglianze salariali, sociali, economiche, di genere e quelle nei confronti degli immigrati; forti aumenti salariali, riduzione dell’orario di lavoro e investimenti pubblici per ambiente e territorio; pensione a 60 anni o con 35 anni di contributi; contro le privatizzazioni e le liberalizzazioni; diritto universale alla salute, all’abitare, alla scuola e alla mobilità pubblica; contro l’accordo truffa del 10 gennaio 2014 sulla rappresentanza; contro ogni tipo di guerra e le spese militari”.

La convocazione dello sciopero generale è avvenuta con largo anticipo, a inizio luglio, e ciò ha creato una situazione particolare in cui:

– la classe operaia è tornata ad avere un ruolo di testa nelle “tradizionali” mobilitazioni di autunno;

– lo spazio per le tradizionali manifestazioni di autunno (quelle che, in tono dispregiativo, vengono definite “le passeggiate”) è stato riempito dalla mobilitazione per lo sciopero generale.

Una situazione del tutto favorevole per far confluire nel medesimo processo, nella stessa mobilitazione, in tutto il paese, tutte le forme di organizzazione e mobilitazione delle masse popolari, per far diventare lo sciopero generale l’occasione per sviluppare (in estensione e in profondità) il coordinamento fra organizzazioni operaie e organizzazioni popolari, per dare uno sbocco unitario alla mobilitazione diffusa in tutto il paese, per raccogliere lo scontento per il corso delle cose e il disprezzo per la classe dominante e orientarlo in senso positivo. Un terreno pratico per costruire un fronte di lotta e mobilitazione dei lavoratori organizzati nei sindacati promotori, in altri sindacati o senza alcuna tessera sindacale.

L’assemblea che si è svolta a Milano il 23 settembre e che avrebbe dovuto (e potuto) sancire l’allargamento della partecipazione allo sciopero ad altri pezzi del sindacalismo di base, in particolare USB e Confederazione Cobas (vedi articolo a pag. 1), è stata invece diretta e gestita in modo da sviluppare concorrenza (concorrenza fra sigle del sindacalismo di base e concorrenza con la CGIL e la FIOM) e settarismo.

I gruppi dirigenti del sindacalismo di base, nessuno escluso, hanno dimostrato di essere impreparati, ideologicamente spiazzati dalla spinta unitaria della loro stessa base e molto poco lungimiranti, anteponendo questioni di principio (la firma al Testo Unico sulla Rappresentanza da parte di USB e Confederazione Cobas è stato il pretesto ufficiale) agli interessi generali della classe operaia e dei lavoratori.

L’assemblea di Milano ha confermato lo sciopero generale del 27 ottobre, USB e Confederazione Cobas ne hanno indetto un altro per il 10 novembre. Ai comunisti, ai lavoratori avanzati, ai lavoratori più lungimiranti, generosi e combattivi il compito di superare le difficoltà oggettive poste dagli atteggiamenti delle dirigenze dei sindacati di base che hanno convocato i due scioperi e “fare di tutto perché lo sciopero sia partecipato su larga scala da tutti i lavoratori indipendentemente dal sindacato a cui sono iscritti e anche dai lavoratori non iscritti ad alcun sindacato; fare di tutto perché lo sciopero non resti un’operazione sindacale isolata dal corso generale delle cose, né un’operazione principalmente di affermazione dei sindacati alternativi e di base contro i sindacati di regime (e tanto meno di lotta tra gli stessi sindacati alternativi e di base), ma principalmente contribuisca a fare dei sindacati alternativi e di base i promotori della mobilitazione dei lavoratori aggregati nelle aziende e di quelli dispersi nel territorio, disoccupati o emarginati perché costituiscano organizzazioni operaie e popolari che prendano via via nelle proprie mani la direzione del paese e si coordinino fino a costituire un proprio governo d’emergenza, il Governo di Blocco Popolare e farlo ingoiare ai vertici della Repubblica Pontificia; fare di tutto perché lo sciopero e la sua preparazione siano una grande scuola di comunismo” – dal Comunicato del (nuovo)PCI del 17 settembre 2017.
Questo è il compito a cui tutti coloro che aspirano alla rivoluzione socialista possono e devono contribuire fin da subito.

Bando al settarismo e al legalitarismo! Facciamo dello sciopero generale una mobilitazione per rendere ingovernabile il paese ai vertici della Repubblica Pontificia e una battaglia nella lotta per imporre il Governo di Blocco Popolare!

Difendere ed estendere, applicandoli, i diritti conquistati con la Resistenza e con le lotte dei decenni passati, a partire dal diritto di sciopero!

Avanziamo nella rivoluzione socialista in corso!

 

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