Industria 4.0 e rivoluzione socialista

Lo scorso luglio è uscito il numero 56 de La Voce del (nuovo)PCI. Per presentarne i contenuti ci concentriamo su un articolo, utile a comprendere il movimento oggettivo della società capitalista verso il comunismo: Piano nazionale Industria 4.0 e sinistra borghese (pag.42) e ne riportiamo degli stralci.

 

“Alla metà del 2016 il governo di Matteo Renzi ha lanciato con grande clamore il suo “Piano nazionale Industria 4.0”(…). Il clamore è tanto, i suoi promotori e propagandisti la chiamano “quarta rivoluzione industriale” e proclamano che cambierà tutti gli aspetti del processo produttivo. Fanno persino balenare l’idea che sia l’uscita dalla crisi. (…)

Il “piano” apre la via alla corsa dei capitalisti, con relativo retroterra di favori, corruzioni e intimidazioni, all’acquisizione di benefici fiscali (per il periodo 2018-2024 prevede 13 miliardi di euro di sconti fiscali) e finanziamenti pubblici (altri 10 miliardi per lo stesso periodo), ognuno per aumentare il suo capitale. Per beneficiarne, ogni impresa dovrà mostrare di fare investimenti nella ricerca, lo sviluppo e la messa in opera di nuove tecnologie capaci di migliorare i processi produttivi in termini di aumento della produttività per lavoratore impiegato direttamente  nell’impresa, di riduzione dei costi di produzione per l’impresa, di flessibilità della produzione e di miglioramento della qualità dei prodotti: il tutto misurato in denaro.

(…) Tutte le innovazioni produttive previste nel piano sono tecnicamente fattibili. (…) La ricerca scientifica e tecnologica e in generale il complessivo bagaglio di conoscenze che l’umanità ha accumulato (e che attualmente è in mano alla borghesia) permettono certamente un salto qualitativo della capacità produttiva. Con Industria 4.0 e la “nuova rivoluzione industriale” vi sarebbe una superiore e più avanzata applicazione alla produzione del patrimonio di conoscenze generali acquisito dall’umanità. (…)

Questi progressi delle forze produttive nelle mani dei capitalisti hanno però effetti di tutt’altro genere rispetto a quelli che avranno nel socialismo e nel comunismo. (…) Il capitalismo ha grandemente sviluppato il carattere collettivo assunto dalle forze produttive. Ma resta sempre un sistema basato sulla valorizzazione del capitale del singolo capitalista o della singola azienda o gruppo di aziende, l’una contro l’altra e sull’esclusione della massa dei lavoratori dalle attività specificamente umane. Il tempo libero che lo sviluppo delle forze produttive crea, la borghesia lo trasforma in disoccupazione, esuberi, licenziamenti.

È la contraddizione che come un cancro corrode il capitalismo, la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, quindi tra lo sviluppo di forze produttive sempre più collettive e la proprietà individuale dei mezzi di produzione e della forza-lavoro stessa. (…) Questo rapporto antagonista è la ragione per cui oggi la borghesia può solo continuare a devastare interi territori con l’inquinamento, il saccheggio delle risorse e la guerra; è la ragione per cui milioni di persone sono costrette a emigrare, decine di migliaia di esse affogano nel Mediterraneo, nel Golfo del Messico e nei mari dell’Asia; è la ragione dei campi di concentramento in cui vengono confinati i migranti di ogni angolo del mondo e dell’abbrutimento morale e intellettuale, dello sbandamento di milioni di elementi delle masse popolari nei paesi imperialisti come l’Italia, delle aziende delocalizzate e chiuse e delle case abbandonate, dei territori lasciati al degrado e all’abbandono, delle tonnellate di merci prodotte e mandate al macero nelle discariche e negli inceneritori, ecc. L’unico modo con cui la borghesia può affrontare le contraddizioni che crea questo rapporto antagonista è in definitiva la guerra, attraverso la quale distruggerà ingenti quantità di uomini, ricchezze e forze produttive oggi “improduttivi”: infrastrutture, schiere di disoccupati, intere città e fabbriche, ecc. La crisi è la manifestazione di questo antagonismo che necessita di essere superato.

 

(…) Di fronte al marasma attuale e al futuro disumano e di guerra verso il quale la borghesia spinge le masse popolari, la sinistra borghese è impotente perché non vede oltre l’orizzonte del capitalismo. L’approccio di questi signori è favorito dalla loro collocazione di classe, ma l’elemento unificante della cultura che guida la loro condotta è la concezione della Scuola di Francoforte che la borghesia ha largamente diffuso nei paesi imperialisti durante il periodo del capitalismo dal volto umano (1945-1975) per occupare lo spazio che non poteva essere occupato dalle concezioni clericali del mondo.

Le teorie francofortesi alla base dell’analisi della società attuale, invece della contrapposizione, del rapporto dialettico e antagonista tra forze produttive e rapporti di produzione, pongono la “sussunzione”  dei rapporti di produzione nelle forze produttive: “la classe operaia è integrata nel sistema”, predicavano Toni Negri e i suoi padri operaisti (Raniero Panzieri, Asor Rosa, Sergio Bologna e soci). Secondo questa teoria la società capitalista (nella sua fase imperialista) è un sistema in cui le parti sono organicamente funzionali tra di loro e “i mali della società” non derivano dai rapporti di produzione, ma dalle forze di produzione sociali, collettive, “moderne”: la disoccupazione futura sarà il frutto dell’Industria 4.0 e non del fatto che la proprietà dei mezzi di produzione è nelle mani dei capitalisti. Posta quella base, le soluzioni che ne derivano non superano l’orizzonte della società borghese: o distruzione delle macchine e non utilizzo della tecnologia (una visione neo-luddista che la sinistra borghese si guarda però bene dall’affermare in maniera decisa e pratica) o una radicalizzazione delle lotte, che cambia referenti (un vago “blocco sociale” o altri soggetti rivoluzionari al posto della classe operaia) e  metodi, ma non supera l’orizzonte della società borghese. Da questa stessa matrice, ovvero dall’illusione che in definitiva si possa convivere pacificamente coi capitalisti, vengono le teorie della “decrescita felice” e le baggianate che vi orbitano intorno.

In conclusione, una parte degli esponenti della sinistra borghese non fa altro che lamentarsi, dimenarsi e dibattersi in denunce della cattiveria dei padroni e della brutalità del loro sistema. Tutti veri “i mali del mondo” che essi denunciano, ma dato che non promuovono la soluzione che la classe operaia e le masse popolari oggi devono costruire e dato che quelli di essi che si proclamano comunisti rifuggono dallo svolgere il ruolo di promotori della rivoluzione socialista che è proprio dei comunisti, con la denuncia a lungo andare aprono la strada a sfiducia, disfattismo, rassegnazione, disperazione e all’abbrutimento dell’“ognuno si salvi come può”, a meno che noi comunisti ci gioviamo anche della loro denuncia per mobilitare una parte crescente delle masse popolari nella rivoluzione socialista.

Un’altra parte degli esponenti della sinistra borghese fantastica di nicchie virtuose per eletti e promuove gruppi di volonterosi che si rifugiano in comunità, a praticare la decrescita felice ai margini della società borghese da cui attingono quello che l’economia a km zero e la produzione con mezzi primitivi non danno.

Una terza parte approfitta anche delle trasformazioni del contenuto del processo lavorativo impliciti nell’Industria 4.0 per proclamare che la borghesia con l’innovazione tecnologica e la globalizzazione ha creato un nuovo modo di produzione, che non ha niente a che vedere con il modo di produzione capitalista descritto da Marx, i suoi antagonismi e le sue classi. Sarebbe un mondo tutto nuovo: “la situazione è completamente diversa” è il loro ritornello. E gli esponenti della sinistra borghese vi sguazzano sottolineando unilateralmente, da empiristi, un aspetto o l’altro. L’importante è che non si parli dei paesi socialisti, del socialismo del XX secolo, della rivoluzione socialista, della prima ondata della rivoluzione proletaria e dei suoi insegnamenti.

 

(…) L’Industria 4.0 conferma la tendenza oggettiva della società capitalista ad andare verso il comunismo. Ma questo salto in avanti non può avvenire spontaneamente, aspettandolo, supponendo che è qualcosa che avverrà e che ai comunisti sta il compito di “cogliere l’occasione” quando si presenterà. Il salto in avanti, epocale, è la direzione della storia che la carovana del (nuovo) PCI ha assunto come suo compito storico: la costruzione della rivoluzione socialista e l’instaurazione del socialismo in Italia. (…) Oggi abbiamo già (nei paesi imperialisti) le basi economiche e strutturali della futura società: costruire una società socialista vuol dire adeguare i rapporti di produzione e le istituzioni della società al carattere sociale, collettivo, delle forze produttive già esistenti. Chi afferma che bisogna “tornare indietro” o che bisogna continuare in una imperitura lotta per il miglioramento delle condizioni di vita, è un illuso o un imbroglione. La società borghese già offre le possibilità economiche di garantire a tutti condizioni di vita dignitose, adeguate al livello di civiltà raggiunto e compatibili con la natura e l’ambiente: la discriminante è la contraddizione tra classe dominante e classe operaia. L’antagonismo di queste due classi è quello che la sinistra borghese cerca di nascondere, non volendo assumersi l’onere di contribuire al superamento del capitalismo.

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