Ritorna Antonio Gramsci, dirigente del Partito comunista d’Italia e dell’Internazionale Comunista guidata dall’URSS e da Stalin

 

Nell’inserto Alias Domenica del manifesto del 18 giugno 2017 Giorgio Fabre recensisce l’ultimo libro di Angelo d’Orsi, una biografia su Gramsci, opera di livello basso sia intesa in se stessa, per una serie di buone ragioni che Fabre spiega, sia come espressione di un modo di intendere Gramsci destituendolo della potenza che ha, presentandolo come “un grande intellettuale”, o come “il più grande intellettuale italiano del secolo scorso”, o come “un grande intellettuale sardo”, ecc. Tutte queste lodi coprono il reale valore di Gramsci, che è stato, prima di tutto, un grande dirigente del movimento comunista internazionale. Questo lo dice anche Fabre nella sua recensione.

La recensione di Fabre ha scatenato su Facebook, (ma magari anche altrove) un grande subbuglio da parte di molti la cui professione è occuparsi di Gramsci (scriverne, presiedere istituzioni, parlarne in conferenze, ecc.) Uno di loro è Guido Liguori.

Guido Liguori, dice il (nuovo)PCI nel suo Avviso ai Naviganti 45, è uno “studioso del pensiero di Gramsci e della storia del PCI, altamente reputato in tutto il mondo accademico e nella sinistra borghese.”([1]) Liguori, dice il (nuovo)PCI nel suo Avviso ai Naviganti 46, è, tra le altre cose, uno di quelli che “dicono che l’opera con cui prima Togliatti e poi Berlinguer hanno corrotto e disgregato fino alla sua estinzione il movimento comunista del nostro paese era fondata sugli insegnamenti di Gramsci.”([2]) Gli insegnamenti di Gramsci, invece, sono quelli utili per la rinascita del  movimento comunista, per fare la rivoluzione, per fare dell’Italia un nuovo paese socialista. “La rivoluzione socialista è possibile, la rivoluzione socialista è necessaria. Per condurla dobbiamo assimilare e applicare la concezione comunista del mondo. Il pensiero di Gramsci è parte integrante di essa.”([3])

Guido Liguori dice su Facebook

Su Alias, supplemento del manifesto (ma purtroppo del tutto indipendente dalle sue pagine culturali), è stato pubblicato oggi un vero e proprio attacco ad alzo zero all’ultimo libro di Angelo d’Orsi, la biografia di Gramsci uscita per Feltrinelli, con una “recensione” a firma di Giorgio Fabre. Il tono e la gratuità dell’attacco mi fanno pensare che vi siano ragioni extrascientifiche, rancori vecchi e vendette trasversali. In ogni caso, rinnovo il mio apprezzamento per il libro e per il suo autore.[4]

Liguori  non entra affatto nel merito delle critiche di Fabre  a d’Orsi. Si comporta come fanno spesso nella sinistra borghese, come capita quando questa Commissione Gramsci o il Partito dei CARC o il (nuovo)PCI criticano i dirigenti di Rete dei Comunisti, o del PC di Rizzo: invece di rispondere alle critiche chi ne è oggetto risponde con la denigrazione. Nel caso nostro dicono che siamo “pazzi”, o “provocatori”. Nel caso di Fabre, dicono che è mosso da “ragioni extrascientifiche”.

Qui Liguori si contraddice rispetto a una comunicazione in posta elettronica che inviò a Paolo Babini, membro di questa Commissione Gramsci, nell’estate del 2014, quando gli scrisse: “Gramsci non considerava il marxismo una “scienza”. Bensì una filosofia (della praxis)-ideologia-politica, cioè quasi tutto meno che una scienza… Il suo marxismo è totalmente ascientifico, mi pare. Non pretendo ovviamente di avere la verità in tasca. però ti dico sinceramente che non troverai molti studiosi di Gramsci che affermano il contrario. Io addirittura non ne conosco nessuno…” Può essere che da allora abbia cambiato idea, il che sarebbe un bene. Dal punto di vista morale, però, non è nobile che invochi l’intervento repressivo della sezione culturale del manifesto su quella di Alias. Soprattutto non è bello che faccia allusioni a ragioni inconfessate che avrebbero mosso Fabre. Questo è un modo di fare pretesco, quello per cui uno lancia il sasso e nasconde la mano, e per cui un altro può pensare tutto e nulla. Perché Fabre sarebbe rancoroso? Forse non gli hanno dato una cattedra all’università? Può essere: Luciano Canfora il 20 ottobre del 2015 sul Corriere della Sera scrive di questo “storico italiano tra i più esperti di ricerche in archivio, Giorgio Fabre, curiosamente escluso dal mondo universitario, ad opera di docenti non di rado quasi digiuni della ricerca archivistica. D’altra parte è noto che ormai molte forze intellettuali valide non si trovano dentro l’istituzione universitaria, ma fuori.”[5]

Lo scontro descritto, al di là di molti dettagli utili a conoscere l’universo intellettuale “di sinistra”, è però prima di tutto di contenuto. Fabre parla di Gramsci come capo anche duro e spregiudicato di un partito che aveva armi ed era militarizzato. Parla della relazione tra Gramsci, Stalin e l’URSS, che fu sempre ben solida, come tra l’altro è testimoniato dal libro fittissimo di dati, scritto da Fabre.[6] Sono tutte descrizioni del dirigente del PCI che contrastano con chi lo dipinge come filosofo, pedagogo, antistalinista, magari “quasi trotzkista”, profeta della rivoluzione ma “con amore”, con “mezzi pacifici”, con “la convinzione” (provate a convincere i massacratori della Scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto al G8 di Genova). Contrastano con chi lo dipinge come “uno buono”, destinato ad essere travolto da quello che lui stesso definì “mondo grande e terribile”. Contrastano con la sua immagine dietro quegli occhialini tondi alla John Lennon, di uno destinato al martirio, a finire male, come canta di lui Claudio Lolli, uno dei più depressi e deprimenti cantautori degli anni ’70. Contrastano con chi insiste a descriverlo come uno che fosse vissuto ai tempi nostri sarebbe stato un eminente studioso, uno dei tanti che stanno a descrivere il mondo, magari a dirci quanto è brutto, cosa che le masse popolari dell’intera penisola vedono benissimo da sé, con la differenza che lui sarebbe stato pagato per farlo.

Gramsci non fu nulla di tutto questo. Se filosofo fu lo fu nel solo senso in cui da duecento anni a questa parte si può esserlo, e come lo fu Lenin, la cui più grande opera “metafisica”, disse Gramsci, fu la Rivoluzione d’Ottobre. Filosofi sono quelli che cambiano il mondo, non quelli che lo descrivono. Siccome poi nessuno può cambiare il mondo da solo, un filosofo sarà tale se sarà in un partito, e in un partito comunista, l’unico organismo collettivo che ha dimostrato nel corso di quasi due secoli di essere in grado di cambiare il mondo al di là delle aspettative. Nel partito, poi, non solo lui, ma tutti i membri sono, in qualche misura filosofi, in qualche misura intellettuali, dice Gramsci, e in ciò stanno la sua potenza costruttiva, la sua creatività e tanto altro che andiamo scoprendo.

È una magnificenza, è una altezza morale e intellettuale, a fronte della quale la descrizione di D’Orsi è effettivamente una copia molto scarsa. Ciò che Fabre scopre e dice, effettivamente, è quindi interessante e onesto, ed è un buon inizio.

Commissione Gramsci del P.CARC

Firenze, 27 giugno 2017

***

Gramsci il rivoluzionario ridotto a pedagogo 

Casi critici. Il rapporto con l’Urss, l’eliminazione di Bordiga dalla segreteria del Pci, Torino e la fase armata del partito… Angelo d’Orsi (da Feltrinelli) tratteggia un «Gramsci» ancorato a un’idea «intellettuale» del capo comunista: superata

Giorgio Fabre 

L’ultima «fatica» di Angelo d’Orsi s’intitola Gramsci Una nuova biografia (Feltrinelli «Storie», pp. 387, euro 22,00). Il «nuova» del titolo si riferisce al fatto che ne esiste una «vecchia», quella gloriosa e godibilissima di Giuseppe Fiori, che risale a cinquant’anni fa; rispetto a quella, questa ha rinnovato la bibliografia (con qualche lacuna). Mentre non contiene documenti o dati nuovi.

Non ci si sofferma qui sulla recensione impietosa del libro fatta da Nunzio Dell’Erba e pubblicata nel suo blog sull’Avanti! l’8 maggio scorso con il titolo Gli studi e gli scritti su Gramsci, tra fanatismo e pregiudizi storici. Dell’Erba ha rilevato diversi svarioni contenuti nelle sole prime pagine del libro: notizie presentate per nuove che invece non sono tali (clamoroso che a p. 24 d’Orsi scriva che «solo in tempi recenti» si sia arrivati alla conclusione che Gramsci era affetto dal morbo di Pott, diagnosticato dal professor Arcangeli nel 1933 – come segnala peraltro lo stesso d’Orsi a p. 345), errori nei riferimenti bibliografici, fonti a stampa usate ma non citate e così via. La recensione è perfino troppo impietosa, ma le osservazioni valgono un po’ per tutto il libro.

Questa «nuova» biografia non è neppure leggibilissima ed è tirata via, forse al fine di cogliere la scadenza dell’anniversario della morte. Inoltre, si sofferma a lungo su dettagli pruriginosi ma non certo fondamentali e perfino problematici come le vicende à trois o addirittura à quatre del grande sardo con le sorelle Schucht (chissà se è tutto vero). O dedica pagine e pagine che ribadiscono la ragione «pedagogica» (addirittura «ossessione pedagogica», a p. 315) che avrebbe sospinto fin da giovane il leader comunista.

Comunque sia, la vita di Gramsci continua a essere rilevantissima e poi, richiede ancora di essere esplorata. Magari anche attraverso questo libro. Interessante è ad esempio che d’Orsi discuta come «filo-mussoliniano» un controverso articolo di Gramsci del 1914; ma occorre ancora lavorarci.

Segnalo poi in particolare un punto non secondario: quanto Gramsci fu effettivamente un concreto rivoluzionario e un capo rivoluzionario? Per d’Orsi fu soprattutto uno studioso di lingue e un filosofo. Sottolinea ad esempio che a Torino nel 1920-’21, nel momento più delicato della sollevazione operaia, «mancava un Lenin» (p. 118). È un punto ancora in gran parte da chiarire. La storiografia del Pci del dopoguerra, tutta proiettata a costruire l’immagine di un partito «di governo», ha avuto difficoltà a fare i conti con quella fase rivoluzionaria – e militarizzata – della propria storia. E invece le officine torinesi nel 1920 ma anche parecchi anni dopo, erano armate fino ai denti. Si veda in proposito il bel saggio di Roberto Gremmo La militarizzazione degli operai torinesi, uscito su «Storia ribelle» nell’autunno 2005 (Gremmo ha in uscita, per settembre-ottobre, un intero volume di documenti). E il partito era anche militarizzato.

Su questo occorre rimeditare con attenzione i testi gramsciani, come quello anonimo, ma attribuito a Gramsci da Renzo Martinelli (con il quale concordo): intitolato I nostri compiti militari, uscì alla macchia nel giugno 1925 e parla senza mezzi termini di «azione armata e violenta». Se non si analizza Gramsci a 360 gradi si finisce per trasformarlo in un «capo» verboso o, appunto, «pedagogo», mentre fu un autentico capo rivoluzionario, anche duro e spregiudicato: si pensi a come fece fuori Bordiga da segretario del partito, questione qui praticamente ignorata. Questa durezza di Gramsci, insieme alla sua lucidità e acuta intelligenza, sono aspetti che stanno emergendo ancora meglio dall’Edizione nazionale delle sue opere pubblicata dall’Enciclopedia Italiana. Segnalo ad esempio l’ultimo volume degli Scritti, con i testi gramsciani del 1917. Forse, prima di riscrivere una biografia di Gramsci sarebbe meglio aspettare che quell’Edizione giunga quanto meno a buon punto, mentre al suo completamento mancano ancora molti volumi.

L’impressione è che d’Orsi sia rimasto ancorato a una vecchia idea tutta «intellettuale» del capo comunista. Idea che invece, ormai da diversi anni, è stata messa in discussione, per far emergere un Gramsci non solo molto più concreto, ma anche fornito di uno sguardo sul mondo internazionale più solido e perfino più vasto e articolato di quanto si potesse immaginare. Anche su questo il libro è carente. Penso per esempio alle interessanti pagine dei Quaderni sul Mein Kampf e naturalmente al suo rapporto con l’Unione sovietica, temi ultimamente sviluppati da vari studiosi e con i quali d’Orsi ha poca dimestichezza. D’Orsi ignora del tutto il fondamentale saggio di Silvio Pons su «Studi storici» del 2004, da cui sono emersi documenti centrali sul rapporto di Gramsci con l’Urss, un paese (il paese di Stalin) su cui si appoggiò seriamente durante la prigionia, ma anche prima, con buona pace della vulgata antisovietica che si è voluta imporre nel dopoguerra. E poco spazio, su questo punto, d’Orsi lascia persino al libro di Giuseppe Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci e alle pagine, talvolta discutibili ma rilevanti che esso contiene sui rapporti tra Gramsci e Mosca .

Talvolta viene il sospetto che le questioni sovietiche non gli interessino. Succede così anche, forse non a caso, che (p. 262) Anatolij Lunacarskij, il celebre ministro della Pubblica istruzione amico di Lenin e uno dei veri «motori» della rivoluzione, divenga «ambasciatore russo a Roma», il che Lunacarskij non è mai stato. D’Orsi deve aver forse ricavato la notizia da un’infelice voce della Treccani online (http://www.treccani.it/enciclopedia/anatolij-vasilevic-lunacarskij/).

Altro esempio. D’Orsi si sofferma a lungo sulla famosa lettera del 14 ottobre 1926, quella che Togliatti fermò a Mosca perché Gramsci vi aveva espresso dei dubbi sul conflitto in corso tra Stalin e Trotzki. Ma poi ignora completamente la lettera che proprio Pons ha trovato nell’archivio di Stalin, scritta dall’ambasciatore Keržencev (era lui l’ambasciatore a Roma, non Lunacarskij) al capo sovietico. Era del 6 ottobre e annunciava quella del 14, come Gramsci gli aveva chiesto di riferire. Il segretario del Pcd’I aveva indicato all’ambasciatore «tutto il danno» causato dai trotzkisti all’estero, anche al partito italiano. Il vero Gramsci era un politico che conosceva benissimo i rapporti di potere, anche in Unione Sovietica e colloquiava direttamente con Stalin. Negli ultimi anni Gramsci si è rivelato figura ancora più grande di quella forgiata nel dopoguerra da Togliatti. Mentre qui siamo rimasti a una sua immagine solo nazionale, ideologica e filosofica.

[1] http://www.nuovopci.it/dfa/avvnav45/avvnav45.html.

[2] http://www.nuovopci.it/dfa/avvnav46/avvnav46.html.

[3] (nuovo)PCI, Avviso ai naviganti n. 45, 28 luglio 2014, cit.

[4]https://www.facebook.com/photo.php?fbid=1931562097092238&set=a.1386801454901641.1073741827.100007153989458&type=3&theater.

[5] Vedi in Togliatti non uccise Gramsci ma impedì a Stalin di salvarlo. Canfora sul libro di Fabre. In http://materialismostorico.blogspot.it/2015/10/togliatti-non-uccise-gramsci-ma-impedi.html.

[6] Giorgio Fabre, Lo scambio, Sellerio, Palermo. 2015. Qui si dimostra carte alla mano come tra i vari soggetti impegnati nei vari tentativi di liberazione di Gramsci, e cioè Gramsci stesso, l’URSS e il PCI, quello che si mosse con maggiore attenzione, continuità e intelligenza fu proprio l’URSS.

 

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