Con sempre maggiore forza si pone la questione dei migranti che arrivano nel nostro paese. A chi dice “rimandiamoli a casa” e a chi fa dell’assistenzialismo la sua bandiera, noi rispondiamo che la lotta di classe è l’unica soluzione positiva e costruttiva. L’intervista che proponiamo di seguito è stata fatta a due insegnanti di italiano a stranieri di Prato che hanno recentemente fondato un’associazione che si batte per un lavoro utile e dignitoso per tutti, immigrati e italiani, dando un senso e una prospettiva al termine “accoglienza”. Dalle loro parole emerge bene come la lotta di classe necessariamente travalichi le definizioni di autoctono e straniero. Mettendo al centro la questione del lavoro, i migranti passano dall’essere persone da respingere o da assistere a compagni della medesima lotta per la costruzione di un futuro luminoso.
Da circa due mesi state conducendo un lavoro di organizzazione e mobilitazione degli immigrati a Prato. Di cosa si tratta? Cosa vi ha spinto a mobilitarvi? Quali sono le difficoltà che incontrate?
L’esperienza è partita per due motivi.
- da un paio di anni a Prato si stanno verificando vari episodi di prove di fascismo e attacco reazionario contro gli immigrati. Abbiamo subito cercato di legarci agli esponenti locali della sinistra per fare “qualcosa”. Ma non trovavamo uno sbocco pratico.
- Insegnando italiano agli immigrati, ci siamo resi conto che era necessario rendere protagonisti gli immigrati stessi. Oggi, nei progetti istituzionali, sono tenuti come sotto una campana di vetro, quindi nel momento in cui vengono espulsi dai progetti diventano “invisibili”, merce nelle mani della criminalità organizzata (prostituzione, spaccio, ecc.) oppure forza lavoro a basso costo nelle fabbriche tessili dei cinesi.
Prima di entrare nel vivo del processo di costruzione dell’associazione, è utile fare una breve premessa.
A Prato abbiamo a che fare con circa 800 richiedenti asilo (principalmente originari dell’Africa occidentale) che sono inseriti nei progetti SPRAR (Servizio centrale del sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) e CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria). Questi progetti sono finanziati dallo stato e dall’Unione Europea. Specialmente i CAS sono di fatto parcheggi “repressivi” (zone franche) dove gli immigrati restano in attesa di un processo per ricevere il permesso di soggiorno. Nell’80% dei casi la richiesta viene respinta (dopo due anni di attesa circa) e quindi finiscono in strada. Nel periodo di permanenza al CAS gli immigrati non possono lavorare (legalmente, ma a nero nelle fabbriche tessili sì!), avere una loro abitazione, istruirsi, insomma, non possono costruirsi un progetto di vita dignitoso. Il modello di accoglienza diffusa prevede inoltre la loro dislocazione in zone lontane dal centro della città, in strutture isolate le une dalle altre. È quindi impossibile per loro creare comunità.
Dalla fine del 2016 abbiamo assistito a una accelerazione delle espulsioni dai progetti. Espulsione significa da un giorno all’altro vedersi arrivare la polizia ed essere sbattuti fuori casa, senza soldi, senza vestiti, senza una rete di solidarietà.
Da qui la necessità di iniziare a muoverci. A gennaio 2017 abbiamo assistito a un avvenimento che ha segnato l’avvio della costruzione dell’associazione. A Sesto Fiorentino è scoppiato un incendio di un capannone in cui vivevano centinaia di immigrati e che ha causato anche un morto (ne abbiamo parlato nel numero 02/17 di Resistenza). Da lì ci sono state manifestazioni a cui abbiamo partecipato con alcuni immigrati di Prato, spinti dalla necessità di creare una rete esterna ai progetti che innanzitutto faccia da “ammortizzatore” per gli espulsi ed eviti tragedie come questa.
Oggi (dopo quattro assemblee) siamo circa 30 immigrati e circa 5 italiani. Comune denominatore è la lotta per la conquista di un lavoro utile e dignitoso.
Le masse popolari immigrate sono il bersaglio principale della mobilitazione reazionaria. In che modo si manifesta nella vostra città questa tendenza? Come si esprime invece la linea positiva della solidarietà, dell’organizzazione e della lotta?
A Prato la via della reazione è sicuramente sostenuta dalle iniziative di gruppuscoli neofascisti (“Etruria 14”, Lega Nord, ecc.). Chi però vive la città si accorge che l’Amministrazione PD è la principale promotrice di tale mobilitazione. Infatti ha prima tagliato ogni servizio agli immigrati residenti (a Prato vive la seconda comunità cinese più grande d’Italia) e poi ha concentrato tutti i suoi sforzi sui progetti finanziati dallo stato e dall’UE (SPRAR e CAS, appunto). A farne profitto sono le COOP legate al PD e contemporaneamente, stiamo scoprendo, le fabbriche del tessile che fanno di questi immigrati carne da macello. Molti di loro lavorano dodici ore al giorno, sette giorni su sette, per due euro all’ora. I padroni di queste fabbriche, per la maggior parte cinesi che lavorano per le grandi griffe (Dolce&Gabbana, Armani, ecc.), li vanno a prendere nei progetti! Il punto è che oggi la mobilitazione reazionaria ha la sua principale fonte nella mancata individuazione del nemico principale: il PD con il suo monopolio di interessi personificato dalle COOP e le grandi griffe legate alle industrie tessili cinesi.
Oggi a Prato tutte le iniziative di solidarietà operano forme di assistenzialismo verso gli immigrati e ciò crea ancor più divisione tra loro e gli autoctoni. Mancano organizzazioni che uniscano immigrati e italiani a partire dalla condizione di classe ed è quello che vogliamo fare noi, mettendo al centro il lavoro.
Unire immigrati e italiani in base all’appartenenza di classe. Dall’esperienza che state facendo avete tratto elementi di riflessione e insegnamento utili a sviluppare questa unità possibile?
Innanzitutto bisogna dire che la nostra è un’esperienza nata da poco e che le prossime settimane saranno importanti perché promuoveremo la prima iniziativa pubblica di lotta. Detto questo, possiamo già affermare che la difficoltà principale sta nel fatto che la maggior parte degli immigrati sono nei progetti SPRAR e CAS e sono completamente estranei alle dinamiche sociali del nostro Paese: dobbiamo innanzitutto far vedere loro che anche molti italiani vivono un’emergenza – lavoro.
Altra difficoltà è che gli immigrati che sono nei progetti non parlano di lavoro (lavorano, ma a nero e non ne parlano) perché hanno paura di essere espulsi. Il primo passo che abbiamo fatto in questo senso è stato quello di dividere gli immigrati tra chi è dentro i progetti ministeriali e chi no. Per gli appartenenti ai progetti SPRAR e CAS si tratta di intercettare e coordinare gli altri immigrati interni e di creare una rete informale di sostegno reciproco, mentre quelli fuori dal progetto si concentreranno sulla lotta per il lavoro.
Per superare questi scogli stiamo sperimentando forme di lotta per il lavoro. Stiamo ragionando sulla promozione di scioperi al contrario per il recupero di zone degradate della città e contemporaneamente vogliamo avviare un’inchiesta sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche cinesi.
Con gli italiani il processo è speculare: tramite la pratica degli scioperi al rovescio ed eventualmente di altre forme di lotta per il lavoro cerchiamo di indirizzare “l’odio” verso i veri responsabili della situazione generale di crisi, di disoccupazione e di precarietà: PD, COOP legate al PD, grandi griffe della moda.
Secondo voi che tipo di legame c’è tra la vostra esperienza e la costruzione del Governo di Blocco Popolare?
Se, come abbiamo capito, il Governo di Blocco Popolare è uno strumento di lotta per il socialismo, questo potrebbe essere effettivamente il mezzo con il quale potremmo gestire l’accoglienza (su scala nazionale) in modo tale da renderla strumento di organizzazione e mobilitazione degli immigrati. Infatti parliamo di centinaia di migliaia di proletari che oggi arrivano nel nostro Paese e sono deportati nei Centri di Accoglienza dove sono “marchiati” per poi essere sfruttati come manodopera a basso costo e dove sono tenuti divisi dagli autoctoni; in questo sta la loro debolezza, nell’isolamento. Oggi questo sistema di accoglienza è fatto apposta per contrapporre autoctoni e immigrati. Il GBP dovrà allora risolvere questa contraddizione e dovrà necessariamente metterli a lavorare, passando dalla rete dal basso delle organizzazioni degli immigrati del nostro Paese. In questo contesto dovremo formarli, educarli alla vita sociale. È cosi che anche gli immigrati diventeranno protagonisti di quello che voi chiamate Governo di Blocco Popolare.