Il 19 giugno del 1986, in Perù, il governo socialdemocratico di Alan Garcia soffocò nel sangue una rivolta organizzata nelle carceri del paese, facendo ammazzare dall’Esercito e dalla Marina Militare, con veri e propri bombardamenti ed esecuzioni sommarie, circa 300 compagni e compagne del Partito Comunista. Il massacro si consumò nelle carceri di El Fronton, Lurigancho ed El Callao, negli stessi giorni in cui era ospitato nel paese il Congresso dell’Internazionale Socialista. Da allora questa data è stata assunta dal Movimento Comunista Internazionale come simbolo della lotta contro la repressione e in tutto il mondo si celebra la Giornata Internazionale del Rivoluzionario Prigioniero.
Il ruolo della resistenza alla repressione, della lotta alla repressione e della solidarietà di classe nella costruzione della rivoluzione socialista. Già Marx individuava, ne Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, il ruolo della lotta alla repressione nella formazione della coscienza della classe operaia e della sua organizzazione (vedi l’articolo “E’ vero che la classe operaia non esiste più?” a pag. 4): “il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario”. Man mano che l’esperienza pratica del movimento comunista cosciente e organizzato si è sviluppata, anche la teoria rivoluzionaria si è arricchita, al punto da definire chiaramente che nella costruzione della rivoluzione socialista la lotta contro la repressione ha un valore decisivo sia per i comunisti che per le masse popolari.
Per i comunisti, il discorso attiene al fatto che nella prima fase della Guerra Popolare Rivoluzionaria i rapporti di forza fra la classe dominante e le forze rivoluzionarie sono tali per cui la prima cerca in ogni modo di annientare le seconde e le seconde devono resistere ai tentativi di annientamento con una specifica linea di condotta che permetta loro di accumulare nuove forze, di crescere. La ventennale lotta del PCI durante il regime fascista è un esempio e la clandestinità del partito è stato fattore decisivo per la sua sopravvivenza, prima (il gruppo dirigente fu più volte smantellato) e per l’assunzione del ruolo di testa nella guerra di liberazione, poi.
Per le masse popolari, il discorso attiene al fatto che a fronte degli effetti della crisi, la loro mobilitazione cresce e la repressione delle autorità borghesi diventa sempre più diffusa e su ampia scala. E’ una tendenza irreversibile: guardate a quanti e quali restringimenti delle libertà politiche e democratiche i vertici della Repubblica Pontificia ricorrono per colpire le avanguardie di lotta e in generale chi si mobilita, il Decreto Minniti è ultimo dispositivo, in violazione della Costituzione, che va in questo senso. Ebbene, fare fronte alla repressione è ambito di scuola di lotta di classe, è scuola di organizzazione, di solidarietà e in definitiva, tutti coloro che “resistono al colpo” si rafforzano.
La Carovana del (nuovo)PCI è un esempio che sintetizza il primo e il secondo aspetto, comunisti e masse popolari, e si pone come educatrice, formatrice e organizzatrice di quella mobilitazione che la casse operaia e le masse popolari esprimono già spontaneamente, spinte e costrette dal corso delle cose.
Scuola di comunismo. La Carovana del (nuovo)PCI ha le radici piantate nella resistenza alla repressione, nella lotta alla repressione e nella solidarietà di classe che nel nostro paese hanno caratterizzato il periodo a cavallo fra la fine degli anni ‘70 del secolo scorso e la prima metà degli anni ‘80 (i Comitati Contro la Repressione, il Bollettino, la lotta contro pentitismo, dissociazione, torture e arbitri polizieschi) e in quella “culla” si sono formate la redazione di Rapporti Sociali, prima, e i CARC, poi. Per 30 anni la Carovana del (nuovo)PCI è stata perseguitata (arresti, inchieste per terrorismo, perquisizioni, pedinamenti, sequestri di materiale, criminalizzazione), ma ciò non ha impedito che sviluppasse la sua opera e la sua attività, prima fra tutti la fondazione del (nuovo)PCI clandestino. Cioè, l’elaborazione teorica è stata affiancata da una pratica adeguata a resistere agli attacchi repressivi anzi ha permesso di trasformarli in occasione di rafforzamento politico e organizzativo.
Ancora oggi, alcuni nostri compagni vengono denunciati e in vari modi le autorità borghesi cercano di condannarli (vedi l’intervista a Lino a fianco e l’articolo “Sosteniamo Stefania e i diritti delle donne…” su Resistenza n.5/2017), ma queste provocazioni diventano occasione per legarci alla parte avanzata delle masse popolari che pure è colpita dalla repressione, di usare gli strumenti che nel corso del tempo abbiamo affinato e di formare altri a usarli: il processo di rottura (passare da accusati ad accusatori facendo leva sulla solidarietà popolare e sulle contraddizioni nel campo nemico); il Manuale di Autodifesa Legale (che diffondiamo, studiamo e di cui organizziamo gruppi di studio e presentazioni per dotare ogni lavoratore, ogni giovane ogni donna delle conoscenze per fare fronte alla repressione), la solidarietà ai rivoluzioni prigionieri vecchi e nuovi del nostro paese, compagni e compagne a cui invitiamo le masse popolari ad esprimere solidarietà inviando libri, abbonamenti a giornali, cartoline di saluto. Contrastiamo così, nella pratica, le condotte che derivano da concezioni arretrate della lotta alla repressione che pure hanno largo seguito nel movimento popolare (“bisogna metterla in conto e cercare di resistere come si può”, “bisogna agire senza suscitare troppo l’attenzione degli apparati repressivi” fino all’autocensura “dobbiamo fare solo quello che la legge consente”) a causa dell’influenza che la sinistra borghese ancora esercita sulle masse popolari.