A maggio l’ISTAT ha pubblicato il suo Rapporto Annuale, ripreso dai media di regime per affermare a gran voce che “la classe operaia non esiste più”, stravolgendo il contenuto del rapporto che si concentra, invece, sull’aumento delle disuguaglianze sociali. Vari i commenti da sinistra al Rapporto e alle interpretazioni mediatiche: Contropiano, PC di Marco Rizzo, Sinistra Anticapitalista ognuno dei quali pone come questione principale la mancanza di coscienza di una classe che, lungi dallo sparire, cresce costantemente (i dati ISTAT degli impiegati in agricoltura, industria e servizi con contratto da operaio parlano di un aumento da 7.506.000 nel 2003 a 8.159.000 nel 2012).
Affrontiamo qui, brevemente, tre questioni necessarie a comprendere l’importanza della discussione sui dati e sulla loro interpretazione ai fini della rivoluzione socialista.
La classe operaia è la classe dirigente della rivoluzione e della società socialista. Diceva Gramsci, ma il discorso ha solo trovato conferme nei quasi 100 anni passati dalla pubblicazione dell’articolo – “L’operaio di fabbrica” in L’Ordine Nuovo 21 febbraio 1919 [Einaudi 1975, pagg. 324-327]): “La classe operaia si è identificata con la fabbrica, si è identificata con la produzione: il proletario non può vivere senza lavorare, e senza lavorare metodicamente e ordinatamente. La divisione del lavoro ha creato l’unità psicologica della classe proletaria, ha creato nel mondo proletario quel corpo di sentimenti, di istinti, di pensieri, di costumi, di abitudini, di affetti che si riassumono nell’espressione: solidarietà di classe. Nella fabbrica ogni proletario è condotto a concepire sé stesso come inseparabile dai suoi compagni di lavoro: potrebbe la materia informe accatastata nei magazzini circolare nel mondo come oggetto utile alla vita degli uomini in società, se un solo anello mancasse al sistema di lavoro nella produzione industriale? Quanto più il proletario si specializza in un gesto professionale, tanto più sente l’indispensabilità dei compagni, tanto più sente di essere la cellula di un corpo organizzato, di un corpo intimamente unificato e coeso; tanto più sente la necessità dell’ordine, del metodo, della precisione, tanto più sente la necessità che tutto il mondo sia come una sola immensa fabbrica, organizzata con la stessa precisione, lo stesso metodo, lo stesso ordine che egli verifica essere vitali nella fabbrica dove lavora; tanto più sente la necessità che l’ordine, la precisione, il metodo che vivificano la fabbrica siano proiettati nel sistema di rapporti che lega una fabbrica a un’altra, una città a un’altra, una nazione a un’altra nazione.
Per questa sua originale psicologia, per questa sua particolare concezione del mondo l’operaio di fabbrica, il proletario della grande industria urbana, è il campione del comunismo, è la forza rivoluzionaria che incarna la missione di rigenerare la società degli uomini, è un fondatore di nuovi Stati. In questo senso (e non in quello balordissimamente contraffatto dagli scrittori della Stampa) abbiamo affermato che Torino è la fucina della rivoluzione comunista: perché la classe lavoratrice dì Torino è in maggioranza costituita di proletari, di operai di fabbrica, di rivoluzionari del tipo previsto da Carlo Marx, non di rivoluzionari piccolo-borghesi, quarantottardi, del tipo caro ai democratici e agli arruffoni dell’anarchismo”.
Chi sono oggi gli operai. A quasi 100 anni dalla pubblicazione dell’articolo di Gramsci, il discorso ha trovato conferma nonostante alcune cose siano cambiate. “L’operaio di fabbrica, il proletario della grande industria urbana” che Gramsci indica come “ il campione del comunismo” non esiste più come esisteva a Torino nel 1919, sono cambiate le forme in cui esiste la classe operaia, ma non è cambiata la sostanza del suo ruolo nella società.
Superare la visione della classe operaia come le tute blu dei grandi stabilimenti industriali significa prendere atto delle trasformazioni economiche e sociali degli ultimi 40 anni. A definire chi sono gli operai oggi non sono le divise, i vestiti, il contratto, il settore di impiego, le condizioni di lavoro e il prodotto del lavoro, ma il rapporto di produzione entro il quale il lavoro si inquadra. La classe operaia è oggi più variegata rispetto al passato (la produzione capitalista di merci si è sviluppata inglobando la produzione di servizi, oltre che di beni), certamente più frammentata (non esistono più, o sono molto pochi, i grandi concentramenti operai in un unico stabilimento) e altrettanto certamente più dispersa, ma esistono ed esisteranno fino a che esisterà la società capitalista, lavoratori obbligati a vendere la propria forza lavoro (manuale o intellettuale) per vivere e dal cui lavoro il capitalista estrae plusvalore. Quindi, sinteticamente, sono operai tutti i lavoratori dipendenti di aziende capitaliste, qualunque sia la tipologia di contratto, il settore, il tempo di impiego.
Si capisce così che chi (stra)parla della fine della classe operaia, giustificandola dietro la fumosa scusa che “la società è cambiata radicalmente” non sa o vuole nascondere (quindi ignora o mente) che la base materiale del sistema economico capitalista è sempre la stessa e la classe rivoluzionaria è sempre la classe operaia. Motivo per cui cantarle “la messa a morto” è prima di tutto opera di disfattismo.
La coscienza della classe operaia. Il senso comune della sinistra borghese indica come coscienza di classe il malcontento verso il corso delle cose, l’agitazione, le lotte e le proteste che spontaneamente si manifestano. In verità malcontento, agitazione, le lotte e le proteste spontanee sono conseguenza delle contraddizioni che il sistema capitalista provoca per sua natura e dell’oppressione e degli arbitri che la classe dominante impone alla società intera.
L’aspetto decisivo della coscienza della classe operaia è la consapevolezza del proprio ruolo nella costruzione della rivoluzione socialista, prima, e nella transizione dal capitalismo al comunismo, nel socialismo, poi.
Se si omette questo, parlare di coscienza di classe non ha alcun senso pratico perché, senza la cosciente partecipazione alla lotta per il socialismo, a prevalere sulla concezione e sulla pratica della classe operaia e delle masse popolari è il senso comune corrente che, ai nostri tempi e alle nostre condizioni, è condizione di abbrutimento, individualismo, servilismo.
Del resto che tra le masse ci sia molto abbrutimento, non è strano, dato che nascono, vivono, crescono ed esistono in una società diretta dalla borghesia imperialista e dal suo clero, che in termini di abbrutimento morale e intellettuale sono i campioni. Anche in questo caso, niente di nuovo; già Lenin nel 1902 (Che fare?, Editori Riuniti, pag. 338) della Russia dice (in nota) che “è un paese in cui “il 999 per 1000 della popolazione è corrotto fino alle midolla dalla servitù politica e dalla totale incomprensione dell’onore di partito”. Lo stesso paese in cui la classe operaia e le masse popolari hanno instaurato la dittatura del proletariato 15 anni dopo, nel 1917.
Torniamo all’Italia di oggi. La sinistra borghese cerca mille vie per spiegare il progressivo indebolimento ideologico e politico della classe operaia, ma evita accuratamente di considerare (per capacità e per convenienza) che dopo decenni di revisionismo moderno di Togliatti e di Berlinguer e di controrivoluzione preventiva, con la resa al potere e il tradimento di larga parte degli esponenti delle stesse organizzazioni comuniste combattenti che della lotta al revisionismo erano state avanguardia, con le reti di potere locale PD, PRC, ecc. non è per niente strano che tra la classe operaia e le masse popolari ci sia tanto abbrutimento. Del resto la bandiera della ricostruzione del partito comunista e della rinascita del movimento comunista cosciente e organizzato è stata impugnata da un numero esiguo di uomini e donne che si sono assunti il compito di portare dall’esterno dell’esperienza pratica e diretta degli operai la coscienza di classe, la scienza comunista (Lenin, Che fare? capitoli I e II). E’ il ruolo assunto dalla Carovana del (nuovo)PCI.