In una sua poesia Mao Tse tung scrive
Guardati dall’inquietudine traboccante che spezza il cuore,
getta uno sguardo lungimirante sulle cose del mondo.
Lungimiranza e serenità sono i risultati della riforma intellettuale e morale che spetta ai comunisti e alle comuniste fare, per diventare capaci di fare dell’Italia un nuovo paese socialista. Il Centro di Formazione del P.CARC contribuisce allo scopo in alcuni modi, il più esteso dei quali è la conduzione dei corsi sul Manifesto Programma del (nuovo)PCI, come dico più oltre.
Un altro modo è distinguere la concezione comunista del mondo dalle altre concezioni, nessuna delle quali consente lungimiranza, intesa come scienza delle attività con cui gli esseri umani fanno la loro storia, né serenità, intesa come sicurezza che la rivoluzione socialista è possibile e determinazione a portarla fino in fondo.
Esaminiamo allo scopo due soggetti, uno dei quali faceva parte delle Brigate Rosse e un altro è un esponente di rilievo della sinistra borghese, che, se non sbaglio, negli anni ’70 dello scorso secolo fu in Lotta Continua.
I curatori del libro Il proletariato non si è pentito,[1] che il Centro di Formazione del P.CARC ha presentato il 24 aprile 2017 assieme alla sezione del Partito di Napoli Est, a Ponticelli (NA) riportano quello che scrisse Valerio Morucci, quando si stava dissociando dalle Brigate Rosse, il 10 novembre 1982, nel Manifesto:
“Nel movimento italiano a metà degli anni 70 subentra una frattura, una discontinuità forte. L’orizzonte non è più la presa del potere, ma l’affermazione diretta di sé come società alternativa. Il potere è visto come una realtà estranea e nemica, dalla quale ci si deve difendere, che non serve né conquistare né abbattere, ma solo ridurre, tenere lontano.”[2]
Il P.CARC ha condotto parecchi corsi sul Manifesto Programma del (nuovo)PCI (penso che ci stiamo avvicinando a cento) e di questi io ne ho tenuti 25, e, quando si trattava della produzione mercantile e dell’elenco storico dei modi di produzione ogni volta gli studenti ponevano una domanda: “Che cos’è il modo di produzione asiatico?” Io penso che il modo di produzione asiatico è quello cui sognava di tornare Valerio Morucci, un modo di produzione il più possibile lontano dal suo 1982: è il modo di produzione di chi si trova il suo orticello e al suo interno cerca di istituire un mondo speciale, senza differenze di classe e quindi senza sfruttamento né ingiustizie, dove tutti sono uguali, uno spazio alternativo rispetto a un mondo intero da tenere il più possibile alla larga, magari versando un tributo.
Questi spazi alternativi sono quelli che sogna la sinistra borghese, dove la concezione del mondo non è quella cristiana né quella borghese, ma quella del misticismo e delle religioni indiane. Un teorico che propaganda questo modo di pensare, secondo il quale è possibile che ciascuno si faccia il suo orto e che tutti gli orti si combineranno insieme in modo spontaneo, è Guido Viale. Ne parla la La Voce del (nuovo)PCI.
“La borghesia imperialista, il suo clero, la sinistra borghese, le altre forze ausiliarie e complementari della borghesia imperialista mettono in atto ogni mezzo per far credere che non c’è alternativa; che è impossibile cambiare il corso delle cose, che il mondo è complesso, che il corso attuale delle cose è una caratteristica delle forze produttive che l’umanità ha costruito (“i rapporti capitalisti di produzione sono incarnati nella attuali forze produttive” hanno insegnato per decenni gli intellettuali “operaisti” della scuola di Francoforte; “per sfuggire alla furia distruttrice del capitalismo bisogna ritornare alla piccola economia di un tempo”, insegnano ancora Guido Viale e i suoi seguaci); che la globalizzazione e la mondializzazione della storia da cui è sorto create su sua misura dal sistema imperialista mondiale sono irreversibili; che il caos è inevitabile, che non è il dominio della borghesia che crea il caos, ma l’economia che per diventare efficace è diventata caotica; che la finanziarizzazione dell’economia reale è inevitabile; che al massimo è possibile cercare di migliorare un po’ le cose e di farle andare un po’ meno male, di mettere qualche pezza qua e la, di essere pietosi e caritatevoli: le banalità in cui eccellono papa Bergoglio con i preti e i laici che lo seguono e Susanna Camusso con i suoi complici della destra della CGIL. Papa Bergoglio e Maurizio Bersani piagnucolano ed esortano a fare un po’ meglio, ad essere compassionevoli e misericordiosi, a fare la carità. I pagliacci alla Matteo Renzi cercano addirittura di convincere che le cose vanno bene così come vanno e che andranno sempre meglio, quello che faceva Silvio Berlusconi prima di lui.” [3]
Quale economia di quale tempo? Per tornare al modello sognato da Viale non basta ritornare all’epoca feudale, e tantomeno il suo sogno trova riscontro nell’economia schiavistica. Quello che sogna è appunto il modo di produzione asiatico, dove la divisione del lavoro è minima, dove quello che succede al di là dei confini della comunità non interessa, dove il riferimento allo Stato è labile.
Riferimenti al riguardo sono in Marx, che si riferisce a
“quelle piccole comunità indiane antichissime, che in parte continuano ancora ad esistere, poggiano sul possesso in comune del suolo, sul collegamento diretto fra agricoltura e mestiere artigiano e su una divisione fissa del lavoro, che serve come piano e modello dato quando si formano nuove comunità. Esse costituiscono complessi produttivi autosufficienti il cui territorio produttivo varia da cento acri a qualche migliaio. La massa principale dei prodotti viene prodotta per il fabbisogno immediato della comunità stessa, non come merce; quindi la produzione stessa è indipendente dalla divisione del lavoro mediata dallo scambio delle merci nel complesso generale della società indiana. Solo l’eccedenza dei prodotti si trasforma in merce e in parte anche questo avviene, a sua volta, soltanto nelle mani dello Stato, al quale da tempi immemorabili affluisce una quantità determinata, come censo in natura. Le differenti parti dell’India hanno differenti forme di comunità. Nella forma più semplice, la comunità coltiva la terra in comune e ne divide i prodotti fra i membri della comunità stessa; e ogni famiglia cura la filatura e la tessitura ecc. come mestiere domestico secondario. Accanto a questa massa occupata omogeneamente troviamo « l’abitante principale », che è giudice, poliziotto ed esattore in una sola persona; il contabile, che tiene i conti del lavoro agricolo e segna nel catasto e registra tutto quel che riguarda tale attività; un terzo funzionario che persegue i delinquenti e protegge i viaggiatori forestieri e li accompagna da un villaggio all’altro; l’uomo del confine, che fa la guardia ai confini della comunità contro le comunità vicine; l’ispettore delle acque, che distribuisce l’acqua dai serbatoi comuni per fini agricoli; il bramino, che compie le funzioni del culto religioso; il maestro, che insegna ai bambini della comunità a leggere e a scrivere, sulla sabbia; il bramino del calendario, un astrologo che indica i tempi della semina e del raccolto e le ore fauste e infauste per ogni parti colare lavoro agricolo; il fabbro e il falegname, che fanno e riparano tutti gli strumenti agricoli; il vasaio, che fa tutto il vasellame per il villaggio; il barbiere, il lavandaio per la pulitura delle vesti; l’argentiere e qua e là il poeta, che in alcune comunità sostituisce l’argentiere e in altre il maestro. Questa dozzina di persone vien mantenuta a spese di tutta la comunità. Se la popolazione cresce, viene impiantata in terreno vergine una nuova comunità che segue il modello dell’antica. Il meccanismo della comunità ci mostra che c’è una divisione del lavoro secondo un piano; ma vi sarebbe impossibile una divisione del lavoro di tipo manifatturiero, perchè il mercato del fabbro, del falegname, ecc., rimane inalterato, e tutt’al più, a seconda delle differenze di grandezza dei villaggi, ci sono due o tre fabbri, vasai, ecc. invece di uno . «Qui la legge che regola la divisione del lavoro della comunità opera con l’inviolabile autorità d’una legge naturale, e ogni particolare artigiano, come il fabbro, ecc., compie tutte le operazioni pertinenti alla sua arte secondo i modi tramandati, ma indipendentemente e senza riconoscere nessuna qualsiasi autorità entro la sua officina. L’organismo produttivo semplice di queste comunità autosufficienti che si riproducono costantemente nella stessa forma e, quando per caso sono distrutte, si ricostruiscono nello stesso luogo e con lo stesso nome, ci dà la chiave per capire il segreto dell’immutabilità delle società asiatiche, che fa un contrasto così forte con la costante dissoluzione e il costante riformarsi degli Stati asiatici e con l’incessante cambiare delle dinastie. La struttura degli elementi fondamentali economici della società non viene toccata dalle tempeste della regione delle nubi della politica.”[4]
Tutto questo esercita fascino nella sinistra borghese che per quanto si rifiuta di guardare al futuro, cioè al comunismo, tanto più guarda al passato (e tanto meno guarda al proprio paese, tanto più guarda lontano, magari all’opposto del pianeta). Da qui i viaggi in India e il tuffo nelle filosofie orientali. Da qui anche il rifiutarsi di avere una visione globale, ma limitare il proprio sguardo a quello che sta dentro al confine, come fa, tra tutti, anche Guido Viale e come faceva Valerio Morucci.
Si comprende come la visuale dei due è molto misera, oltre che vecchissima, e tanto di più siamo spinti a comprenderlo quanto più il nuovo preme per nascere. Il Centro di Formazione del P.CARC ha la funzione di favorire questa comprensione, e soprattutto di favorire la diffusione della scienza che ci consente non solo e non tanto di vedere oltre il presente e oltre il nostro orto, ma di costruire il futuro, di fare dell’Italia un (nuovo)paese socialista.
Tanto meglio e tanto prima lo farà quanto più troverà partecipazione e sostegno da parte dei lavoratori e degli elementi avanzati delle masse popolari e di tutti quelli che hanno a cuore il progresso del nostro paese.
Paolo Babini
Centro di Formazione del P.CARC
6 maggio 2017
[1] Il proletariato non si è pentito, Autori vari, a cura di Adriana Chiaia, ed Rapporti Sociali, 2016 (2° ed.), vedi in http://www.carc.it/2016/11/10/il-proletariato-non-si-e-pentito-autori-vari-a-cura-di-ariana-chiaia/
[2] Il proletariato non si è pentito, cit. p. 362.
[3] La Voce del (nuovo)PCI, n. 52, marzo 2016, pp. 3-4.
[4] Marx, Il Capitale, Libro I°, cap. 12. §4, La divisione del lavoro.