La classe operaia “vola alto” – Sul NO dei lavoratori Alitalia

Riportiamo di seguito la notizia del NO del 67% dei lavoratori Alitalia. La notizia ha suscitato le ire dei giornalisti e politicanti vari che riempiono gli schermi televisivi del nostro Paese.

Nel numero 4 di Resistenza parlavamo già di Alitalia, riproponiamo l’articolare per alimentare il dibattito sul “che fare”. Come garantiamo i 12 mila posti di lavoro?

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Da La repubblica

Alitalia, i dipendenti bocciano l’accordo: 67% di No. Ora lo spettro del commissariamento

ll voto certifica una clamorosa protesta affidata alle urne. A Palazzo Chigi incontro a sorpresa tra il premier Gentiloni, Padoan, Delrio e Calenda: “Rammarico e sconcerto”. I sindacati: “Cercare sino all’ultimo ogni soluzione possibile”

di LUCIO CILLIS

ROMA – I lavoratori di Alitalia hanno bocciato con il 67% dei No l’accordo stipulato da azienda e sindacati sul tavolo del governo che avrebbe dato il via a un piano quinquennale fatto di tagli agli stipendi per chi vola (fino a sfiorare il 20%, con una media dell’8%), tagli ai permessi (102 annui), cigs e nuovi assunti con contratto d’ingresso a livello low cost.

In realtà, un progetto che avrebbe puntato a mettere in sicurezza i conti nei prossimi tre anni prima della cessione della compagnia ristrutturata a Lufthansa. Sottoposto a referendum a Roma, Milano e sedi periferiche, l’accordo è stato sonoramente rispedito al mittente dai dipendenti. Con un’affluenza altissima alle urne Alitalia: oltre il 90 per cento degli aventi diritto è andato a votare, per 10.101 dipendenti sugli oltre 11mila. I no sono 6816.


Una chiamata cui ha risposto dunque la quasi totalità del personale viaggiante (1.500 piloti e 3mila assistenti di volo) oltre agli 8mila impiegati e addetti di terra. A Milano (circa 700 no contro poco oltre 150 voti favorevoli, a Malpensa 278 no e 39 sì, a Linate 698 no e 153 sì) e Napoli il “no” ha prevalso nettamente. All’aeroporto di Torino Caselle sui 18 aventi diritto hanno votato in 16, dividendosi tra 9 sì e 7 no. A Roma il colpo finale, con il il no che ha superato la soglia decisiva delle 5.140 schede, ovvero il 50%.

A scrutinio ancora in corso, i sindacati avevano visto profilarsi l’esito negativo. Per Filt-Cgil, Fit-Cisl, UilTrasporti e Ugl Trasporto aereo “l’indicazione che arriva va nettamente verso la bocciatura dell’esito del confronto con governo e azienda. Quello che si evince è che la votazione è stata una votazione sofferta, ma decisa contro un’azienda che poco ha fatto finora per risollevare le proprie sorti. Per il momento – hanno spiegato – è il personale di volo quello che ha scelto nettamente il no. Attendiamo le valutazioni e decisioni degli azionisti e del governo, nella consapevolezza di cercare sino all’ultimo ogni soluzione possibile per evitare decisioni che sarebbero traumatiche e non più modificabili”.

Anche il governo si è mosso. Nel pomeriggio l’esecutivo si è riunito alla presenza del premier Gentiloni e i ministri Delrio, Padoan, Calenda che hanno concordato e ribadito che con la vittoria del “no”, il futuro della linea aerea è segnato, o quasi. “Rammarico e sconcerto per l’esito del referendum Alitalia che mette a rischio il piano di ricapitalizzazione della compagnia”, hanno dichiarato in un comunicato congiunto  il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, il ministro delle Infrastrutture e Trasporti Graziano Delrio ed il ministro del Lavoro Giuliano Poletti:  “A questo punto l’obiettivo del Governo, in attesa di capire cosa decideranno gli attuali soci di Alitalia, sarà quello di ridurre al minimo i costi per i cittadini italiani e per i viaggiatori”.

L’unica soluzione al momento è l’arrivo di un commissario e la successiva liquidazione nel giro di sei mesi. Anche se non tutti la pensano allo stesso modo: “Ma come si fa a pensare che una compagnia che trasporta 24 milioni di persone con 120 aerei possa essere messa in liquidazione?” Si chiede Francesco Staccioli dell’Usb, una delle poche voci del sindacato assieme all’Associazione nazionale piloti a dichiararsi apertamente contraria all’accordo sul piano, “noi crediamo che Alitalia possa comunque restare sul mercato, ma con una fortissima discontinuità rispetto al passato e alla dirigenza che ‘ha ridotta in questo modo”.

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Governi occupanti? L’esempio di Alitalia

Ciò che intendiamo quando affermiamo che i governi della Repubblica Pontificia (di destra o “sinistra” non fa alcuna differenza) operano come una forza occupante con l’unico obiettivo di spolpare le masse popolari e saccheggiare il paese è ben rappresentato dalla vicenda Alitalia, in questi giorni tornata alla ribalta per la mobilitazione con cui i lavoratori si oppongono all’annuncio di 3000 licenziamenti fra dipendenti e indotto. La compagnia di volo di bandiera, azienda pubblica, è diventata una carcassa in preda agli sciacalli della speculazione internazionale che annunciano “esuberi”, ma contemporaneamente impongono il colore delle mutande che le hostess devono indossare in servizio (non è una battuta: “I dirigenti della compagnia, di nuovo sull’orlo del crac, hanno inviato ai dipendenti una mail con allegata una guida di 50 pagine con prescrizioni minuziose su comportamento, uniformi, accessori consentiti, trucco, acconciature e perfino caratteristiche delle mutande. Anche se è difficile che qualcuno possa intravederle sotto le spesse calze verdi gradite all’azionista arabo Etihad “ – Il Fatto Quotidiano on line, 24 marzo 2017).

Come è accaduto? La vicenda è un intrigo di manovre, colpi di mano, annunci e smentite e non la ricostruiamo per intero per motivi di spazio e perché, anche, l’aspetto saliente non è la cronaca, ma il contenuto: nel 2006 il governo Prodi decide la privatizzazione dell’azienda che ha 20 mila dipendenti e trova l’appoggio entusiasta di Berlusconi (che propone a Prodi di stanziare 300 milioni di euro per dare ossigeno ai conti in rosso ricevendo soddisfazione alla richiesta, motivo per cui viene aperto un procedimento dall’Unione Europea). Ma Berlusconi ha altre mire rispetto alla cessione ad Air France, che aveva fatto una proposta di acquisto, manda all’aria l’accordo e a raccoglie attorno a una società creata all’occorrenza (CAI) i “capitani coraggiosi” che rileveranno di Alitalia solo la parte in attivo, dopo la divisione dell’azienda in due tronconi di cui quello con i debiti rimane sulla groppa dello Stato.

Ai Riva, Colaninno, Marcegaglia, Benetton, Toto, Gavio, Ligresti, Pirelli e Intesa San Paolo (la crema del capitalismo nostrano, gli esperti della rapina a danni dello stato, dei lavoratori e delle masse popolari), i cosiddetti capitani coraggiosi, gli utili, alle casse pubbliche i debiti e i costi: a conti fatti la privatizzazione di Alitalia è stata uno scambio di favori e un gioco delle parti costato alle casse pubbliche 1700 milioni (per la mancata vendita ad Air France), 1200 milioni di debiti rimasti al 2012 della “bad company”, 300 milioni elargiti dal governo Prodi che il successivo governo Berlusconi ha trasformato in “patrimonio netto per la società”; sono stati bruciati 10 mila posti di lavoro dal 2008 al 2014. Ma la “brillante operazione” non è finita qui: nel 2015 Alitalia diventa Spa per consentire l’ingresso di Ethiad (Emirati Arabi) con il 49% delle azioni. Arriviamo ai giorni nostri: “prescrizioni minuziose su comportamento, uniformi, accessori consentiti, trucco, acconciature e perfino caratteristiche delle mutande”, 3000 licenziamenti in vista e conti in profondo rosso.

Alitalia è una, su più di 800, fra le aziende pubbliche e private che i governi della Repubblica Pontificia hanno messo sul mercato (o hanno consentito che vi fossero messe senza colpo ferire) a danno dei lavoratori (ristrutturazioni, licenziamenti, delocalizzazioni) e a danno dell’intero apparato produttivo del paese: Telecom, Wind, Ansaldo (Breda, STS, Energia), Barilla, Plasmon, Algida, Parmalat e moltissime aziende alimentari, Pirelli, Lucchini, Ducati, oltre a moltissimi marchi della moda. Combinata con la costruzione di opere inutili e dannose (TAV, TAP) la devastazione del territori e la repressione di chi vi si oppone, il carattere irresponsabile e predatorio dei vertici della Repubblica Pontificia è chiaro quanto è chiara la funzione dei loro governi.

Invertire la rotta. Mentre i lavoratori si mobilitano contro i licenziamenti, il governo Gentiloni si chiama fuori, “perchè è una trattativa di un’azienda privata” e si fa strada fra i sindacati di base (anche il PC di Rizzo è su questa posizione) la parola d’ordine della nazionalizzazione. Nazionalizzare è una strada possibile a determinate condizioni: che ci sia un governo deciso a farlo e che ci sia un controllo popolare su governo e istituzioni che impediscano che la nazionalizzazione sia una manovra speculativa che trasforma l’azienda in un “buco nero” a gestione di amici e amici degli amici (come la gestione dissennata e parassitaria del patrimonio dell’IRI, per intenderci). Entrambe queste condizioni sono strettamente connesse con la lotta per liberare il paese dai governi che operano per conto delle forze occupanti e costituire un governo di emergenza delle organizzazioni operaie e popolari, una mobilitazione di cui i lavoratori Alitalia devono essere diretti protagonisti per dare le gambe alla resistenza contro lo smantellamento dell’azienda e i licenziamenti. In quest’opera i loro alleati principali sono gli operai delle aziende private e i lavoratori delle aziende pubbliche, tutti in mobilitazione per il medesimo obiettivo, tutti interessati a dare una svolta al corso delle cose.

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