[Napoli] Sul corteo dell’11 Marzo: contro la denigrazione delle forme di lotta

In questi giorni è salita alla ribalta nazionale la discussione/condanna degli scontri che si sono tenuti a Napoli il giorno 11 marzo contro la conferenza tenuta da Matteo Salvini, leader della Lega Nord, presso la Mostra d’Oltremare e in generale contro la mobilitazione che in queste giornate le masse popolari della città hanno espresso contro il leghista. Sin dai primi giorni, quando ancora si procedeva all’organizzazione di queste giornate e si scrivevano i primi comunicati, lo sforzo dei media nazionali, della Lega e dei partiti di regime è stato quello di far confluire il dibattito dall’opposizione ai temi, i principi e le idee reazionarie che Matteo Salvini e la Lega Nord promuovono tra le masse popolari, verso la discussione sulla contrapposizione nord/sud che in definitiva è una riproposizione della guerra tra poveri.

La risposta che la città di Napoli ha dato a tutto questo è stata quella della partecipazione popolare e della lotta alle tendenze arretrate, reazionarie e razziste. Per comprendere questo processo non si può non tenere in considerazione del lavoro di anni e anni che le masse popolari di questa città svolgono in termini di organizzazione e coordinamento per costruire un’alternativa partecipata e dal basso rispetto al marasma in cui ci relega la borghesia imperialista; non si può non tenere conto delle iniziative di accoglienza e solidarietà rivolte agli immigrati e profughi che questa città sa esprimere e che esprime principalmente con la lotta e mobilitazione per l’ottenimento dei visti, dei permessi di soggiorno e per lo ius soli. Tutto questo ha vissuto in queste giornate di mobilitazione contro la venuta di Salvini a Napoli, una questione di lotta di classe e rilevanza nazionale, quindi, altro che scontro nord/sud, terroni/polentoni e tutta la sagra del senso comune con i suoi annessi e connessi.

L’indignazione popolare all’imposizione da parte del governo e del ministro Minniti a tenere comunque la manifestazione nonostante la presa di posizione della masse popolari della città, dell’Amministrazione Comunale e dell’Ente Mostra, è scaturita nelle forme di lotta che oggi in tanti si affannano a condannare. Non bisogna, però, cadere nell’unilateralismo, nel giudizio moralista o legalitario di quanto avvenuto a Napoli. Leggere con gli occhi della legge queste azioni vuol dire leggere la realtà con gli occhi con cui la classe dominante vorrebbe noi la leggessimo. Il legalitarismo porta in definitiva i seguenti aspetti:

  • Avere fiducia nella classe dominante e nel fatto che farà rispettare le proprie leggi;

  • Non tenere conto che la borghesia quando ne ha bisogno è disposta a violare la sua stessa legalità (es. di casi di tortura nelle caserme o di aggiro della legge per obiettivi di guadagno o sfruttamento);

  • Depotenziare la lotta, privandola di una serie di strumenti che ne hanno segnato storia e tappe d’avanzamento importanti (occupazioni di fabbrica, irruzioni ecc.);

  • Negare un importante filone dell’elevazione e sviluppo dell’esperienza pratica delle masse popolari nel contrastare la classe dominante e il suo dominio;

  • Assecondare la propria mobilitazione ai vincoli e le prassi che la classe dominante ci concede.

Da sempre la Carovana del Nuovo Partito Comunista Italiano ha fatto propria la difesa, il sostegno e la solidarietà incondizionati verso ogni forma di lotta delle masse popolari. Le forme di lotta che compongono l’attuale movimento delle masse, sono ambiti importanti per la scuola di comunismo ed elementi importanti del processo pratico della lotta rivoluzionaria per fare dell’Italia un nuovo paese socialista. In quanto tali esse vanno giudicate. Sono espressioni dell’insubordinazione delle masse popolari ai poteri forti e rappresentano una risposta pratica, seppur disordinata o comunque incompleta, alle tendenze disfattiste e attendiste che la sinistra borghese esprime e propaga tra le masse popolari del nostro paese.

La morale oggi necessaria, la morale dei comunisti, impone il contrario di quanto il senso comune afferma (dissociazione, critiche sterili, attendismo nello schierarsi ecc.). Ovunque la classe dominante opprime, è possibile trasformare l’oppressione in rivolta: ma è possibile anche che con l’oppressione la classe dominante produca una maggiore sottomissione, inculchi timore, produca un maggiore abbrutimento degli oppressi. In ogni episodio e caso di oppressione, noi comunisti dobbiamo sistematicamente, con una crescente abilità che si acquisisce con la pratica, portare gli oppressi a ribellarsi.

In ogni campo, in ogni scontro noi comunisti non dobbiamo attutire i contrasti, sminuire il contrasto, assopire, disperdere, isolare gli elementi più combattivi. Non dobbiamo dare fiato e forza ai conciliatori, ai fautori di un accordo e della conclusione dello scontro. Solo con scontri di livello superiore, più organizzati e con obiettivi più elevati, le masse popolari avanzano verso la vittoria. Non dobbiamo assopire i contrasti, ma al contrario approfondire i contrasti, far risaltare più nettamente lo scontro sociale. Dobbiamo organizzare la parte più attiva (questa è la sinistra) e trasformarla in una forza politica, sulla base di essa costruire una nuova superiore fase dello scontro (concatenazione).

Per questo ad esempio dobbiamo sempre sistematicamente esaltare e additare come esempio ogni comportamento di insubordinazione e di ribellione alla borghesia, al clero e alle autorità da essi costituite. Dobbiamo incoraggiare e promuovere l’insubordinazione, la rivolta, l’appropriazione collettive, ma non condannare quella individuale: fare il massimo di cui siamo capaci per trasformarla in collettiva. Dobbiamo incoraggiare e promuovere l’insubordinazione, la rivolta, l’appropriazione organizzate, ma non condannare quella spontanea: fare il massimo di cui siamo capaci per trasformarla in organizzata. Dobbiamo condurre ogni gruppo sociale, ad ogni livello, dai piccoli ai grandi, attraverso un processo che porti dalla sottomissione alla rivolta, dall’istintivo al progettato e consapevole, dallo spontaneo all’organizzato. Più la rivolta collettiva e organizzata si dispiegherà su larga scala, più assorbirà in sé, valorizzerà e rieducherà i comportamenti e le tendenze alla rivolta individuale ed estemporanea.

Ingovernabilità, in definitiva, vuol dire sia ribellione e disobbedienza alle misure, alle decisioni, alle leggi e alle regole delle autorità borghesi, sia mobilitazione e organizzazione delle masse popolari a gestire parti crescenti della loro vita associata (attività e relazioni, soluzioni ai problemi, ecc.) da parte di un centro autorevole diverso e contrapposto alle attuali autorità centrali e locali della borghesia. Questi gli aspetti principali della costruzione di una nuova governabilità per i territori e per l’intero paese e distruzione della vecchia e fatiscente governabilità per la borghesia, che a Napoli trova una delle sue spinte principali in tutta Italia. Non è un caso che tutto questo marasma sia accaduto lì, che il reazionario Salvini abbia lottato per andare lì e che il ministero abbia affermato che per applicare la Costituzione bisogna dare diritto di parola alla Lega a Napoli.

La piazza del 13 non ha sbagliato proprio su nulla e non c’è il minimo dubbio o il minimo cenno di arretramento sulla giustezza di quella mobilitazione e sulla legittimità da parte delle masse popolari di portare avanti azioni forti e di rottura contro la borghesia imperialista e i suoi agenti sul posto. Il proletariato non si è mai pentito. In quella piazza si è contrastata l’idea che la Costituzione quando deve sancire la libertà di espressione per un esponente della classe dominante, omofobo, razzista e reazionario viene invocata anche dai ministri, quando viene invocata da centinaia di migliaia di cittadini che richiedono una sanità pubblica gratuita e funzionante, una scuola pubblica, laica e gratuita e tutti i diritti che la Costituzione sancisce per le masse popolari, la carta costituzionale diventa carta straccia da buttare in soffitta.

“Ben lungi dall’opporsi ai cosiddetti eccessi, casi di vendetta popolare su persone odiate o su edifici pubblici, cui non si connettono altro che ricordi odiosi, non soltanto si devono tollerare quegli esempi, ma se ne deve prendere in mano la direzione”. K. Marx

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