Chi ha paura di Trump?

Fin dalle primarie del Partito Repubblicano, nella primavera del 2016, la sinistra borghese ha terrorizzato le masse popolari evocando scenari catastrofici se fosse stato eletto Trump a Presidente degli USA.

Trump è in effetti il personaggio gretto che la parte reazionaria, moralmente più arretrata, arrivista e individualista degli imperialisti USA riesce ad esprimere, è un campione di quei “valori americani” per cui la ricchezza individuale viene prima di tutto e ad ogni costo, intriso di sessismo e razzismo. Ma, diciamo la verità, le sue caratteristiche personali sono solo un aspetto secondario: Obama, nero, democratico e “premio Nobel per la pace”, con il suo sorrisone da ragazzo istruito ha messo a ferro e fuoco mezzo mondo e fatto ammazzare o ridotto alla disperazione milioni di persone e altrettanto avrebbe fatto, più di quanto non ha fatto già, Hillary Clinton, donna e democratica. Trump, quindi, può essere solo in parte un presidente USA tanto peggiore dei precedenti e di qualunque altro che, come lui, i suoi predecessori e la sua avversaria, sia espressione di quella classe sociale. Scenari nefasti hanno accompagnato la parabola politica di Trump, ma quanto più veniva dipinto a tinte fosche, tanto più avanzava verso la vittoria.

Chi ha paura di Trump? L’apparato amministrativo e gli ingranaggi del sistema politico ed economico. La vittoria è stata tutt’altro che la premessa per governare con i “pieni poteri” che la Costituzione USA conferisce al Presidente. In verità, al netto delle massicce proteste popolari che hanno accompagnato la sua candidatura e che sono esplose con maggiore forza il giorno del suo insediamento (milioni di persone in piazza, scontri, blocchi, arresti, ecc.), trova un’opposizione incalzante nell’apparato amministrativo e negli ingranaggi del sistema politico ed economico statunitense. Sullo sfondo delle voci che imputano la sua vittoria al sostegno dei servizi segreti russi in ragione di una posizione distensiva verso la Russia (che sono diventate dossier informali e poi dossier con riscontri oggettivi, come li definiscono i media), Obama aveva “avvelenato i pozzi” con una serie di provocazioni contro i diplomatici russi negli USA per alzare al massimo la tensione, appena prima di lasciare la Casa Bianca. Successivamente, una vera e propria ribellione di apparati statali ha bloccato il decreto contro l’immigrazione da alcuni paesi musulmani: le amministrazioni di importanti città e 14 Stati hanno sporto denuncia alla corte di appello di San Francisco; 900 diplomatici si sono schierati per il ritiro del decreto, 4 giudici ne hanno bloccato l’attuazione e Trump ha licenziato un Procuratore Generale reggente (Sally Yates) che aveva annunciato il rifiuto di contestare il reato di immigrazione clandestina durante i processi che sarebbero seguiti agli arresti di immigrati. Il tutto mentre 100 fra le più importanti multinazionali (fra cui Apple, Facebook, Netflix, Levi’s, Microsoft) si sono apertamente schierate contro il decreto (“che nuoce gravemente all’economia”) e gli aeroporti in cui venivano bloccati gli stranieri, trasformati in sportelli legali improvvisati dagli avvocati che prestavano servizio volontario per assisterli, erano assediati da migliaia di persone che protestavano. La mobilitazione, senza precedenti, ha costretto Trump a riformare il decreto. All’affaire del decreto razzista bisogna aggiungere la guerra fra Trump e le principali testate giornalistiche (CNN, New York Times, Los Angeles Times, Associated Press e molte altre del filone democratico) che in un vortice di insulti da una parte e notizie – scandalo dall’altra, è culminato con la loro esclusione dalle conferenze stampa che il Presidente degli USA tiene settimanalmente. L’amministrazione è persino intervenuta direttamente (anche qui rompendo con la prassi che certe cose si fanno, ma non si dicono) per ordinare al FBI di smentire le voci sull’inchiesta delle relazioni fra Trump e i servizi segreti russi e per negare informative alle agenzie di stampa, ricevendo in cambio un plateale rifiuto.

A livello internazionale, fra il colpo di spugna a più di 40 anni di politica USA in medio Oriente (“fra Israele e Palestina non mi interessa se si metteranno d’accordo per uno o due stati, mi interessa che facciano la pace”, mentre la posizione USA è sempre stata “due popoli e due stati”) e le reazioni del Parlamento russo alla notizia che gli USA aumenteranno le spese per il riarmo nucleare, le gaffe sugli attentati in Svezia (in verità l’attentato era in Pakistan, Trump ha sbagliato a leggere…) danno l’immagine di un personaggio autoritario, confuso e imbranato.

Governo, potere e crisi politica. A differenza di Obama e di H. Clinton (e di ogni altro politicante democratico o repubblicano), Trump è uno che appartiene a pieno titolo a quel sistema economico che decide le politiche degli USA e le detta ai presidenti e alle amministrazioni. In un paese in cui la politica è, più apertamente e direttamente che in Europa e in Italia, al servizio dell’economia, la sua candidatura è stata fin da subito una rottura. E a maggior ragione la sua elezione ha sconvolto le prassi del sistema politico e affaristico degli USA, perché conferisce alle fazioni di capitale di cui è parte e che rappresenta la forza di un’arma, la presidenza degli USA, incomparabilmente superiore rispetto alle armi (ricatti, lobbismo, corruzione) in mano ai suoi concorrenti. Quelle politiche che se promosse da altri sarebbero state al massimo criticate, sono per l’apparato statale plasmato da 8 anni di Obama, il pretesto per dichiarare guerra a Trump e legargli le mani. Anche questa è una manifestazione, trasposta agli USA, della differenza fra governo del paese e potere (vedi articolo a pag. 1) e della debolezza degli imperialisti USA che, immersi nella melma della crisi generale, si ritrovano pure a fronteggiare una situazione in cui uno di loro si è impossessato del governo del paese per condurre la lotta di potere contro gli altri.

Campo minato, una situazione rivoluzionaria. Trump non farà nulla di diverso da ciò che ogni altra amministrazione USA avrebbe fatto, ma con due criteri, quelli si, diversi: il primo è che lo fa in modo aperto, rivendicando il razzismo statale, lo stesso che è costato la vita a centinaia di afroamericani uccisi dalla polizia durante i due mandati di Obama, ad esempio, o rivendicando la costruzione di un muro al confine con il Messico iniziato da B. Clinton. Il secondo è che tutto ciò che fa, lo fa prima di tutto a beneficio suo e di quella fazione di capitale di cui è funzionario.

La crisi politica negli USA è molto meno fosca e tragica per le masse popolari di quanto vogliono far apparire le anime belle della sinistra borghese. Il marasma, il caos, le guerre istituzionali sono manifestazione di una situazione rivoluzionaria il cui esito, come in ogni situazione rivoluzionaria, ha due sbocchi possibili, la rivoluzione o la reazione. L’ago della bilancia sono l’organizzazione, la mobilitazione e la forza delle masse popolari, il fattore decisivo è la rinascita del movimento comunista cosciente e organizzato.

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