[Italia] L’ennesimo frutto della guerra senza armi…

 

Ecco l’ennesimo giovane che si toglie la vita, l’ennesimo frutto della guerra “senza armi” che si combatte nel nostro paese, l’ennesimo “sangue del nostro sangue”. E chi cerca di spiegarlo come “fatto individuale” rifletta un attimo, che forse è il caso. Ma chi invece capisce bene chi e cosa ha ucciso un giovane precario – con tutta la vita davanti- o almeno inizia a volerne capire di più, si faccia avanti a rifare grande il movimento comunista,dove esuberi non ce ne sono. Il socialismo è necessario!

La sensazione che la propria vita non ha senso, che non ha scopo, è una questione esistenziale che nei paesi imperialisti in particolare è già ampiamente visibile nel comportamento e nello stato d’animo di decine di milioni di persone, che decine di milioni di persone devono risolvere oggi in generale ognuno per sé, che decine di milioni di persone risolvono a qualche modo facendo ricorso alle mille diverse risorse del mondo virtuale ivi comprese le tradizioni del tempo antico, le religioni. Ma a differenza che nel mondo antico, ora è una risposta fittizia, che non ha riscontro nella collocazione sociale. Quindi è fragile, instabile. Entra in crisi a ogni passo.

È una questione esistenziale che solo il movimento comunista e la partecipazione al movimento comunista risolvono stabilmente, costruttivamente e in modo sano: alla persona che si aggira in tondo alla ricerca di cosa fare, indica la strada di un fare costruttivo, che lo unisce agli altri, che corrisponde alle condizioni esterne con cui ogni individuo fa i conti, che lo unisce agli altri in un’associazione in cui il libero sviluppo di ogni individuo è la condizione del libero sviluppo di tutti…” Perché vivo, che senso ha la mia vita? Che senso dai alla tua vita? – La Voce n. 52

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Udine, la lettera di un trentenne suicida: “Appartengo a una generazione senza futuro”

L’ultima lettera di Michele pubblicata per volontà dei genitori sul quotidiano regionale

«Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene». Aveva trent’anni Michele. Ha deciso di farla finita l’ultimo giorno di gennaio. Prima, però, ha scritto una lettera. Un j’accuse che è stato pubblicato ieri, per volontà dei genitori, sulle pagine del Messaggero Veneto , il quotidiano regionale del Friuli.

«Ho vissuto (male) per trent’anni. Qualcuno dirà che è troppo poco», scrive come incipit Michele. Non erano pochi per lui che racconta di essere «stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili». Parole stanche, ma lucide. Capaci di entrare nel dramma della precarietà, quella fotografata dall’Istat con l’indice di disoccupazione che tra i più giovani (15-24 anni) ha toccato il 40,1%. Quasi uno su due non lavora. «È una realtà sbagliata – spiega Michele – una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni e insulta i sogni».

Non è solo male di vivere, quello che emerge dalle ultime parole di Michele. C’è dell’altro. La sua intende essere un’accusa di un’intera generazione. «Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato», ragiona. «Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto. Di “no” come risposta non si vive, di “no” si muore». Ecco perché l’ultimo suo atto, il suicidio, è rivolto a questa società che, scrive Michele, «si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come dovrebbe fare». Un gesto che chiede confronto: «Siete voi che fate i conti con me». E ancora: «Questa è un’accusa di alto tradimento al contesto». In chiusura chiede scusa ai suoi cari e cita in un post scriptum il ministro del Lavoro («Complimenti a Poletti. Lui sì che valorizza noi stronzi»). E poi la resa: «Ho resistito finché ho potuto».

«Emerge un forte senso di ingiustizia incompresa», commenta Paolo Baiocchi, medico psichiatra e psicoterapeuta . E spiega: «Del resto sono tutte le statistiche nazionali che fanno emergere come i giovani siano quelli che hanno meno speranza in questo periodo storico. Se parte una spirale emozionale negativa il rischio può essere anche quello di sfogare la rabbia su se stessi», spiega il direttore dell’Istituto Gestalt di Trieste che, proprio in Friuli Venezia Giulia, ha lanciato un progetto sociale gratuito rivolto ai disoccupati. «Il nostro metodo – aggiunge – si basa proprio sulla condivisione in gruppo delle sfide: la forza dello stare insieme in questi casi è fondamentale».

Più dura l’analisi di Massimiliano Santarossa, scrittore friulano e narratore realista delle periferie italiane e degli esclusi. «La colpa non è dell’economia in sé, ma di chi ha fatto dell’economia un Dio», dice. «In Friuli, come in Veneto, con la crisi economica e la globalizzazione è crollato un intero sistema di valori che era incentrato solo sul lavoro». C’è un’altra faccia dietro al mito del Nord-Est produttivo, insomma. «Certo che c’è: è la storia di chi ne è rimasto escluso, come questo ragazzo, o come dei tanti che ritrovi al bar ogni giorno, senza più speranze né sogni».

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