Nel suo articolo di questa mattina su Il Manifesto, Enzo Scundurra, fa un esercizio importante. Ragiona su come la valorizzazione di una città come Roma non debba passare dai crismi della costruzione di città “attraenti” e “moderne” che lo sviluppo internazionale dell’amministrazione delle metropoli di tutto il mondo sta via via imponendo. Il processo di esclusione dei proletari dai centri storici delle città, la trasformazione delle città in aziende in concorrenza tra di loro e le conseguenti speculazioni infrastrutturali e finanziarie non sono altro che lo specchio della crisi generale in cui siamo immersi e delle contraddizioni in essa presenti, che oggi si fanno sempre più evidenti: la contraddizione principale tra borghesia e proletariato, le contraddizioni e la lotta per bande interna ai gruppi imperialisti, le contraddizioni in seno al popolo e la guerra tra poveri.
In questo quadro bisogna inserire sia l’analisi di ciò che non ci piace oggi, sia la definizione di come le nostre città e i nostri paesi debbano diventare. Nel suo articolo Scundurra delinea un’idea di città che si oppone all’idea di spenta metropoli vetrina. Afferma, piuttosto, l’idea di una città a misura d’uomo, che valorizza le classi popolari che in qualche modo devono esserne protagoniste, in cui si investe sul futuro e sull’integrazione. È difficile non essere d’accordo con quanto scritto in questo articolo. La domanda che sorge spontanea è la seguente: una società così descritta, che va a vantaggio delle masse popolari e a scapito di speculatori, affaristi e padroni, chi la può costruire? Di chi è interesse farlo? Per fare tutto questo occorre la rivoluzione socialista e la rivoluzione socialista possono farla solo le masse popolari organizzate attorno al Partito Comunista.
L’umanità oggi è arrivata a un punto in cui la possibilità di assicurare a tutti illimitatamente quanto serve per vivere dignitosamente provoca fame, obesità, esuberi, lavoratori spremuti all’osso, inquinamento globale: il senso della vita consiste nel far fronte a questi problemi, cioè nel partecipare alla lotta di classe. Sta alla classe operaia creare le condizioni soggettive per l’instaurazione del socialismo: un certo grado di organizzazione e un certo livello di coscienza della massa del proletariato. Per fare questo, però, fondamentali sono le istituzioni e le autorità di cui le masse popolari e la classe operaia si premuniscono: la principale è il Partito Comunista.
Il partito comunista è sia una di queste condizioni sia il promotore principale della loro creazione. È possibile creare le condizioni soggettive del socialismo solo in concomitanza delle condizioni oggettive. Ma una volta che la borghesia ha creato le condizioni oggettive, e queste nei maggiori paesi dell’Europa Occidentale esistono dalla seconda metà del secolo XIX, la creazione delle condizioni soggettive diventa il fattore decisivo dell’instaurazione del socialismo. La contraddizione fondamentale della società borghese crea condizioni favorevoli per l’elevamento della coscienza della classe operaia e per la sua organizzazione.
La sostituzione del comunismo al capitalismo è un evento inevitabile, nel senso preciso che il capitalismo, finché non sarà scomparso, spingerà e costringerà la classe operaia ad assumere il proprio ruolo. Ogni volta che essa verrà meno al suo compito storico, il capitalismo creerà le condizioni perché nel seno della classe operaia e della società sorgano nuove schiere di comunisti che riporteranno la classe operaia alla lotta per il potere e per il comunismo. È per questo che la lotta per il comunismo prosegue inarrestabile: rinasce dopo ognuna delle sconfitte che accompagnano il suo sviluppo come hanno accompagnato e accompagnano lo sviluppo di ogni grande impresa degli uomini.
In tal senso il fuoco del ragionamento non può essere cosa soggettivamente pensa le Raggi o quale progetto è scritto sulle carte con cui si è candidata a governare la città di Roma. Il punto è comprendere quali siano i passi che anche le amministrazioni a cinque stelle possono fare in quella che i marxisti indicano come direzione in cui va la storia dell’umanità, la nuova umanità. Alla Raggi sta la scelta di fare o meno dei passi nella direzione del protagonismo e sostegno alle masse popolari che combattono contro la crisi del sistema capitalista. Ma per una città, un paese e un mondo così come lo descrive il Manifesto di questa mattina non bastano le elezioni, né il fermarsi alle lotte rivendicative e non basta neanche il parlamento o il consiglio comunale. Tutto questo, piuttosto, sarà travolto dalla mobilitazione e dall’avanzata delle masse popolari del nostro paese nella quale Raggi, De Magistris e affini devono inserirsi e dare gambe, pena la scomparsa dalla scena politica e dalla storia.
***
Raggi tira dritto ma non c’è un orizzonte
Di Roma si parla ormai solo in occasioni di cronache giudiziarie, di scandali, di presunte o vere mafie, di aggressioni e stupri. Nel mentre la città affonda nelle splendide macerie della sua fantastica Storia, come nelle Carceri di Piranesi. «Siamo sereni, andiamo avanti» è il refrain della sindaca Raggi e della sua squadra, ma nessuno sa in quale direzione. Sarebbe più saggio affermare: «Fermiamoci e chiediamoci dove e in che direzione andare».
Scrivere su Roma è come scommettere, alle corse, su un cavallo zoppo: inutile sprecarci inchiostro, e poi per parlare a chi? Non certo a questi amministratori afoni preoccupati solo di rispondere a un fantomatico codice etico stabilito dal loro partito o dal loro Capo, e neppure alle singole persone ormai abituate, come solo succede ai romani, ad attraversare campi minati, scavalcare fili spinati, attendere inutilmente autobus sgangherati sperando che non cedano lungo il percorso.
Si è dimenticato che una città ha bisogno di idee e progetti; i quali, però, non sono quelli che dovrebbero renderla simile a Dubai o a qualche altra fantasmagoria ultra (o post) moderna. Si è dimenticato che esistono periferie in balia di attività illegali, droga, disagio esistenziale ed economico. E si è dimenticato che esiste una città di sotto dove invisibili presenze senza nome costruiscono rifugi e rovistano tra rifiuti.
Quando le cose vanno bene, l’amministrazione si limita alla pura ragioneria contabile, strozzata dai debiti. La rassegnazione dilaga incontrastata: è già tanto che qualche autobus arrivi alla fermata e raggiunga il capolinea o che una delle due metro funzioni.
È già tanto che non ci si azzoppi una gamba durante il percorso ad ostacoli per arrivare al lavoro. E una volta arrivati si tira un sospiro di sollievo: anche questa mattina ce l’ho fatta, sono salvo! Nel mentre sciami di cavallette travestite da turisti, scendono da torpedoni a due piani, pronti a divorare tutto ciò che incontrano: dall’Altare della Patria al Mosè di Michelangelo, non distinguendo l’uno dall’altro. Centri commerciali fioriscono come funghi intorno e oltre il raccordo anulare e si leggono, sempre più spesso, cartelli di affittasi o vendesi di antichi negozi e botteghe che non ce l’hanno fatta; fioriscono nuovi Bingo, nuovi negozi di «Compro oro», o creative insegne di «Non solo pane», «Non solo pizza»: un suk di disperazioni.
C’è chi ritiene che Roma sia afflitta da un ritardo di modernizzazione, una modernizzazione mancata o incompiuta, tanto che si invoca il trasferimento della sua funzione di capitale ad altre città (la solita Milano). Ma di quale mancata modernizzazione si parla? Non quella di far funzionare gli autobus, di dare pace a una metropolitana che non sa da che parte andare né di mettere fine al problema dello smaltimento dei rifiuti o di valorizzare (anziché far chiudere) quei centri sociali e quelle associazioni dove si creano lampi di possibili comunità conviviali, nuove culture e nuovi linguaggi. Né, ancora, di accogliere i diseredati del mondo o di intervenire sul risentimento delle periferie, prima che diventino polveriere pronte ad esplodere.
Roma non è mai stata, non lo è ancora adesso, e non sarà mai moderna se a questa parola si attribuisce il significato di competere nella classifica delle città globali, o di essere luogo indiscusso della finanza mondiale, o di essere smart o brand per attirare capitali. E insistere nella necessità di modernizzarla (leggi: politica delle grandi opere), è come tentare di normalizzare il collo della giraffa per farlo diventare come quello di un cavallo.
Roma non ha bisogno di aggiunte, di imbellettamenti per diventare una star nel firmamento della globalizzazione o un’attraente prostituta in attesa di clienti. Roma ha già quanto ogni altra città desidererebbe avere; non servono le grandi opere, serve, al contrario, far funzionare e valorizzare ciò che già c’è (non era questo il programma della sindaca Virginia Raggi?). Perché allora non utilizzare questa sua «mancata modernizzazione», questo suo cronico «ritardo», per trarne un vantaggio competitivo nella scena globale, per sviluppare un modo diverso di essere moderni?
Questo potrebbe essere il progetto. Valorizzare le sue bellezze (arte, cultura, tradizioni) e perfino quella sua lentezza e pigrizia, risorsa rara in un mondo che corre troppo veloce; valorizzare la sua tradizione antirazzista (forse più per pigrizia che per merito), per creare luoghi e occasioni di accoglienza, valorizzare quell’immenso patrimonio di verde dell’Agro romano minacciato dall’urbanizzazione, valorizzare le tante esperienze di centri e comunità che producono cultura, convivenza tra diversità e quel welfare spontaneo fatto di coltivazione di orti e di pratiche di sopravvivenza.
E poi ancora impegnarsi seriamente per il Progetto Fori rendendo finalmente giustizia a Antonio Cederna. Dovremmo insomma fare tesoro di questa sua diversità anziché tentare di accorciare il collo della giraffa per renderla simile a un cavallo di razza, del quale non se ne sente alcun bisogno.