[Roma] Almaviva: il giochino delle parti

E’ di questi giorni la notizia della chiusura senza se e senza ma della sede di Roma di Almaviva, call center con oltre 13000 dipendenti in tutta Italia, che destina alla disoccupazione 1666 lavoratori.

Nel marasma generato si appresta la corsa allo scarica barile: come di consueto arrivano le lacrime di coccodrillo del viceministro del MISE Teresa Bellanova, non poteva mancare la discolpa dei vertici sindacali che addebbitano ai lavoratori e ai delegati sindacali la responsabilità di non aver firmato la proposta di accordo del 22 Dicembre. La decisione dell’azienda di licenziare viene rafforzata dalla sentenza della cassazione del 7 Dicembre che attesta, in sostanza, che per profitto è legale, da parte dell’azienda, il licenziamento. A dimostrazione della violazione aperta che la classe dominante fa, nel nostro paese, della Costituzione.

Il destino dei lavoratori Almaviva è il destino di migliaia, decine di migliaia di lavoratori ogni anno: il licenziamento in nome di razionalizzazione delle spese, delocalizzazioni, redditività, produttività. Tutte parole che escono dalla bocca dei padroni e dei loro complici e avvallate dai piagnistei del governo e dei sindacati padronali.

Oggi in Italia è legale che Marchionne decide cosa fa la FCA e Colaninno cosa fa la Piaggio, che il padrone di una immobiliare caccia di casa una famiglia, che il padrone di un’azienda licenzia un lavoratore o chiude l’azienda” è quanto ci scrive Ulisse, segretario generale del CC del (n)PCI, nell’intervista del nostro giornale Resistenza del mese di Novembre/Dicembre. Sono queste le regole in cui viene confinata la lotta, affidata alle istituzioni della Repubblica Pontificia e ai sindacati di regime, che confina la lotta per la difesa dei diritti sul terreno del padrone.


La vicenda Almaviva dimostra che non è sufficiente affidarsi al giochino delle parti (governo, padroni, sindacati di regime), alle promesse da marinaio, ai referendum truffa a cui sono sottoposti i lavoratori (così come è stato per il rinnovo del CCNL). L’unica alternativa vincente al baratro in cui la borghesia ci conduce è rendere ogni azienda un campo di battaglia, organizzazione, lotta per accumulare forze per la costituzione di un governo di emergenza popolare, passaggio per far avanzare la rivoluzione socialista. La vicenda Almaviva e così come il rinnovo del CCNL sono lo spunto per mobilitare forze e formare organismi operai in ogni azienda, decisi non solo a tenere aperte le aziende, a farle funzionare, ma anche a legarsi con il resto del movimento che nel paese esiste per costruire un governo d’emergenza, un Governo di Blocco Popolare, disposto a mettere in campo ogni soluzione per garantire un lavoro utile e dignitoso per tutti, un governo deciso ad utilizzare i 20 Miliardi destinati a pagare i debiti finanziari della Banca Monte dei Paschi per garantire posti di lavoro. E’ decisivo quindi fare il gioco, e gli interessi, della classe operaia.

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Almaviva, non c’è accordo azienda-sindacati: chiude la sede di Roma, licenziati 1.666 dipendenti

Fumata nera per il salvataggio della sede romana. Il viceministro Bellanova: “I lavoratori dovevano essere ascoltati prima”. Il riferimento è al referendum interno convocato a cinque giorni dal mancato accordo.

#Almaviva, profonda amarezza. Nonostante l’ultimo tentativo su Roma non si revocano licenziamenti. I lavoratori dovevano essere ascoltati prima”. A 4 ore dall’inizio dell’incontro al ministero dello Sviluppo economico convocato per tentare in extremis di salvare i 1.666 dipendenti della sede romana di Almaviva Contact, il viceministro Teresa Bellanova affida a Twitter un messaggio che racchiude i fatti e la delusione per una vicenda che poteva chiudersi diversamente. Invece l’azienda di call center non ha voluto fare dietrofront rispetto a quanto dichiarato 24 ore prima. Risultato: chiusa la sede di Roma, a casa 1.666 lavoratori, con le lettere di licenziamento già inviate. “Solo chi non conoscesse la normativa o pensasse di ignorarla potrebbe ritenere di riaprire un procedimento formalmente concluso e sottoscritto dalle parti congiuntamente ai competenti rappresentanti dei Ministeri dello Sviluppo Economico e del Lavoro” scriveva ieri Almaviva. E oggi l’azienda ha puntato i piedi nonostante il tentativo del Mise di mediare. Tutto inutile.

LA FUMATA NERA – Non si torna indietro rispetto alla notte del 22 dicembre scorso quando al termine di un tavolo di confronto tra Almaviva Contact e le Rsu degli stabilimenti del gruppo, i 13 delegati della Rsu della sede di Roma non hanno firmato la proposta di mediazione. E proprio i fatti di quella notte, almeno formalmente, hanno impedito oggi a governo, sindacati e azienda di trovare l’accordo che invece era stato sottoscritto il 22 dicembre dalla sede napoletana di Almaviva al termine di una lunga trattativa. Era ottobre quando la società di call center ha annunciato l’apertura di una procedura di riduzione del personale all’interno di un nuovo piano di riorganizzazione del personale. Una trattativa proseguita anche dopo che, in piena bufera post referendum, Almaviva ha ritirato la proposta di accordo, parlando di “indisponibilità al confronto” dei sindacati. E poi c’è stato lo sciopero del 19 dicembre, dopo che l’azienda “ha espresso la propria indisponibilità all’utilizzo della Cigs e ribadito il taglio secco del salario contrattuale dei lavoratori su tutte le sedi di Almaviva in Italia come unica soluzione alternativa ai licenziamenti”.

L’ULTIMO TENTATIVO – A nulla è valso l’esito del referendum interno fissato da Rsu e strutture regionali di Slc e Cgil per il 27 dicembre, attraverso il quale con 590 voti favorevoli e 473 contrari, i dipendenti hanno detto ‘sì’ all’intesa anche per la sede di Roma. Una bocciatura alla decisione presa dai sindacati, che ha reso inutile anche l’incontro riconvocato ieri sera dal viceministro Bellanova. Le lettere di licenziamento sono già partite e lo stesso viceministro non ha potuto evitare di sottolineare che sarebbe stato il caso di ascoltare i lavoratori prima di chiudere il dialogo. Invece “le Rsu hanno ritenuto quell’accordo inaccettabile e quindi hanno determinato la perdita di lavoro di oltre 1.600 persone” ha dichiarato ai microfoni di RaiNews24, sottolineando che “non si è voluto prendere tempo” nonostante la proposta del governo fosse stata giudicata positiva dai segretari generali dei sindacati.

ASSIST ALL’AZIENDA. CHE PUNTA I PIEDI – Di fatto la società è stata messa nelle condizioni di poter mettere la parola fine alla trattativa. E Almaviva l’ha fatto. “L’azienda – ha continuato Bellanova – ha avanzato difficoltà anche dal punto di vista della tenuta della procedura e quindi ha ribadito il mantenimento dell’accordo dei lavoratori di Napoli e il mancato accordo con Roma che non ha firmato”. Tra le prime reazioni, quella di Stefano Pedica del Pd: “La chiusura della sede di Roma del call center Almaviva è l’ennesima sconfitta per la città di Roma. La capitale è sempre più povera e abbandonata a se stessa”.

SINDACATI: “LA SITUAZIONE ADESSO E’ DRAMMATICA” – “La situazione adesso è drammatica, una pagina nera su cui come sindacato proveremo a trovare qualsiasi possibile soluzione”. Questo il commento di Salvo Ugliarolo, segretario generale Uilcom, dopo la fumata nera e l’annunciata chiusura della sede romana di Almaviva. “Purtroppo i fatti hanno confermato quello che già pensavamo – ha sottolineato il sindacalista – ossia che era stata fatta una scelta sbagliata da parte dei delegati aziendali di Roma che hanno rifiutato l’accordo dello scorso 22 dicembre”. “Oggi abbiamo fatto un tentativo, forti della raccolta firme con cui oltre 700 lavoratori hanno chiesto alle segreterie di poter accedere allo stesso accordo firmato per la sede di Napoli – ha sottolineato il segretario della Uilcom – ma purtroppo abbiamo riscontrato la chiusura da parte dell’azienda perché tecnicamente essendo ormai chiusa la procedura, non c’erano più margini per riportare questi lavoratori all’interno dell’accordo“.

Ancora più drastiche le parole di Vito Vitale, segretario generale della Fistel Cisl: “Abbiamo preso atto che ormai non ci sono altri elementi su cui poter costruire le nostre speranze. Siamo usciti dal Ministero con una vicenda ormai chiusa”. Per Vitale l’azione dei delegati sindacali aziendali di Roma che hanno rifiutato lo scorso 22 dicembre l’accordo raggiunto al ministero “è stata irresponsabile, se avessimo avuto l’ok sulla firma di quell’intesa oggi non avremmo avuto questa situazione”. A sentire il rappresentante della Fistel Cisl, quello che è accaduto oggi “era nell’aria da giorni”, perché nonostante il governo “abbia subito proposto all’azienda di integrare l’accordo fatto su Napoli, dal punto di vista amministrativo mancavano ormai le garanzie e si poteva anche mettere a repentaglio l’accordo già firmato per Napoli”.

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Lavoro, Cassazione: “Il licenziamento è legittimo anche se l’azienda lo decide solo per aumentare i profitti”

La sentenza degli ermellini stabilisce che il rapporto lavorativo può essere interrotto non solo in caso di difficoltà economiche, ma anche se il datore decide di fare a meno di una funzione per incrementare la propria redditività

Il datore di lavoro può licenziare non solo se a renderlo necessario sono le difficoltà economiche, ma anche se vuole semplicemente aumentare i profitti. Rischia di essere una sentenza (negativamente) rivoluzionaria per il mondo del lavoro quella depositata lo scorso 7 dicembre dalla Corte di Cassazione, di cui dà notizia il quotidiano Italia Oggi. Si tratta di un allargamento del campo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che potrà avvenire, secondo gli ermellini, non solo nei casi “straordinari” come una situazione economica difficile, ma anche in quelli “ordinari” in cui l’azienda semplicemente decide di fare a meno di una funzione per aumentare la redditività e quindi il profitto.

In particolare il licenziamento di un dipendente, secondo la Cassazione, potrà essere giustificato anche solo in nome della migliore e più efficiente organizzazione produttiva dell’impresa mirata a “una migliore efficienza gestionale ovvero a un incremento della redditività dell’impresa”. In altri termini, lasciare a casa i lavoratori per migliorare l’ultima riga del bilancio non dovrà più essere considerato la extrema ratio ma sarà uno dei possibili sbocchi dell’autonomia organizzativa e decisionale dell’imprenditore, in quanto tale sottratta al vaglio del giudice del lavoro. A cui spetterà unicamente di verificare in concreto l’esistenza della ragione dell’azienda e il nesso di causalità tra la ragione addotta e il licenziamento di quel particolare dipendente.

La sentenza ha accolto il ricorso di un resort di lusso della Toscana contro la decisione della Corte di Appello di Firenze che aveva giudicato illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo con il quale era stato estromesso uno dei manager al quale la corte fiorentina – diversamente dal giudice di primo grado – aveva riconosciuto il diritto ad ottenere quindici mensilità. Invece, secondo il Tribunale il licenziamento era legittimo in quanto “effettivamente motivato dall’esigenza tecnica di rendere più snella la cosiddetta catena di comando e quindi la gestione aziendale”. Un punto di vista non condiviso dalla Corte di Appello che ha ritenuto non sufficiente la dimostrazione dell’effettività della riorganizzazione in mancanza della prova, da parte del datore, dell’esigenza di fare fronte a uno stato di crisi o a spese straordinarie.

In poche parole, secondo la corte di secondo grado il licenziamento era mascherato dalla foglia di fico del riassetto di impresa ma in realtà era motivato solo “dalla riduzione dei costi e, quindi, dal mero incremento del profitto”. Questa motivazione non è stata condivisa dalla Cassazione che ha disposto l’annullamento con rinvio del verdetto che aveva stabilito che di licenziamento illegittimo si trattava con diritto a quindici mensilità. Ora la Corte di Appello dovrà rivedere la sua decisione e tenere in considerazione, anche solo per riformulare le motivazioni, i principi fissati dalla Cassazione.

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