Durante l’incontro del 18 novembre alla Festa della Riscossa Popolare della Lombardia, due esponenti del movimento NO TAV hanno spiegato molto bene i ragionamenti che hanno sostenuto la decisione, presa da alcuni militanti e attivisti di cui Nicoletta Dosio è la più conosciuta, di violare le restrizioni della libertà personale imposte dal Tribunale di Torino. Dei tanti aspetti emersi ci soffermiamo brevemente su tre di essi, di carattere generale.
Il primo riguarda “la genesi”, diciamo così, della decisione di disobbedire alle autorità in modo tanto aperto e plateale, quanto legittimo. Il movimento ha ripreso e applicato alle condizioni specifiche un’iniziativa adottata in precedenza dagli attivisti antirazzisti che per una mobilitazione contro il CIE di Torino avevano subito dal Tribunale fogli di via dalla città e altre restrizioni. Decisero di violare le disposizioni, cosa avvenuta con minore clamore e senza la “copertura mediatica” avuta dal movimento NO TAV; cosa avvenuta, anche, con una maggiore compattezza (numeri e coesione ideologica sono diversi in un movimento più circoscritto, rispetto a un movimento ampio e più popolare). La spiegazione data dai compagni NO TAV ci permette una riflessione sulla relazione fra “piccole minoranze” (avanguardie) e “movimenti di massa”: la disobbedienza degli attivisti antirazzisti non ha avuto la portata di quella del movimento NO TAV, ma senza la prima probabilmente non ci sarebbe stata la seconda, senza la sperimentazione pratica di un gruppo anche ristretto, non si sarebbe probabilmente aperta la strada a una pratica più “di massa”.
Il secondo aspetto, legato al primo, è che le violazioni promosse dal movimento NO TAV sono diventate, in virtù del riconoscimento e dell’autorevolezza che il movimento ha a livello nazionale, un esempio per un numero di gran lunga superiore di persone, di movimenti, di organismi. Ma i compagni intervenuti all’incontro hanno detto anche un’altra cosa: il movimento NO TAV non ha elaborato una linea unitaria in merito, si è comportato, come ha fatto sempre, in modo da non isolare chi ha scelto la via delle violazioni, ma non ha spinto nessuno a praticarla: “è una scelta individuale”, dicono. E’ chiaro che se oltre a spiegare le motivazioni e a rivendicare le violazioni, i “resistenti della Val Susa” chiamassero a seguire il loro esempio, il loro esempio non sarebbe più solo uno stimolo alla coscienza di coloro ai quali si rivolgono, ma una linea di condotta potenzialmente di massa: ogni “resistente”, ogni “ribelle”, avrebbe aperta una strada non più individuale, ma collettiva. Organizzare la disobbedienza e le violazioni alle leggi in modo il più collettivo possibile è passaggio di svolta in una fase e in un paese in cui esistono una miriade di iniziative di ribellione individuale, slegate fra loro. Un conto è che a “macchia di leopardo” si materializzino qua e la manifestazioni di ribellione, un altro conto è che si apra una strada per collegarle, organizzarle, concatenarle. Mentre il piccolo gruppo (il collettivo coeso ideologicamente, la Sezione o il circolo di un partito) ha possibilità di agire “come un solo uomo”, un movimento popolare non ce l’ha. Per un movimento conquistare questa possibilità equivale a fare un salto: diventare il centro autorevole della mobilitazione e dell’organizzazione delle masse popolari. Ciclicamente si presenta questa contraddizione per il movimento NO TAV che oggettivamente può fare questo salto, ma non ha ancora piena fiducia nelle sue possibilità (non è un critica, questa, ma uno stimolo a far valere la sua forza e a dispiegare pienamente le sue forze).
Il terzo aspetto è più che altro una riflessione generale che traiamo combinando quanto hanno detto i militanti NO TAV durante l’incontro alla Festa delle Riscossa Popolare con l’esito del processo (tutti assolti il 14 dicembre scorso) a carico dei compagni e delle compagne che nel 2009 promossero a Massa la mobilitazione contro le ronde razziste di Maroni e di quanti si attivarono in solidarietà con loro, contro la repressione (denunciati e rimandati a giudizio pure loro). Alla fine dei conti, l’unica cosa decisiva nella lotta contro la repressione è la capacità di legarsi con le masse popolari. Quanto più ogni attacco repressivo si trasforma da schieramento fra autorità e attivisti e militanti in schieramento fra autorità e masse popolari, tanto più le condizioni per vincere la singola battaglia e per combattere le altre diventano favorevoli.
In conclusione: i fatti dimostrano che maggiore è la decisione nell’assumere un ruolo per orientare la mobilitazione delle ampie masse, tanto maggiori sono i risultati, il seguito e la solidarietà che si raccolgono, più chiare le prospettive che si aprono e gli schieramenti che si creano.
Questo vale per le “piccole avanguardie”, questo vale su scala più ampia per i movimenti popolari.