Trentasei anni fa il terremoto in Irpinia, masse popolari contro squadre, compassi e uomini d’onore
Trentasei anni fa, il 23 novembre del 1980, in Campania la terra trema. Un sisma della durata di circa novanta secondi rade al suolo un’intera regione. L’ipocentro è nell’avellinese ma a farne le spese sono tutti i territori della regione. Il disastro non è quantificabile. Novanta secondi e tutto andò giù con un grosso boato, seguito da un silenzio irreale al termine del quale pianti ed urla intonarono un coro disperato, destinato a non essere ascoltato. La regione non era certo nuova a episodi di questo genere. Essa è infatti terra vulcanica e montuosa, terra di eruzioni e terremoti, del bradisismo flegreo e delle vibrazioni sismiche tipiche degli Appennini italiani. Novanta secondi e tanta parte delle cose che l’uomo aveva nei secoli costruito in questa zona venne giù. Già all’indomani della fatidica scossa era possibile leggere – su giornali locali e nazionali – esortazioni di ogni genere per un intervento rapido e risolutivo del dramma, quando della tragedia neanche se ne conosceva la gravità effettiva.
Era facile leggere sulla prima pagina del “Mattino” di Napoli – giornale più letto nella regione – titoli a caratteri cubitali di disperazione e di esortazione all’intervento. Celebre il titolone “Fate presto”, nel cui articolo si proponevano cifre nettamente più alte di quelle effettive (si parlava di 10.000 morti) e disperatamente si sottolineava la lentezza dei soccorsi. Quel “Fate presto” che finì per trasformarsi in un invito a padroni, politici nazionali, pretacci e criminalità organizzata a fiondarsi su calcinacci, vittime e feriti. Dall’altro lato tra i container, le strutture mobili e i campi tende c’erano loro: i terremotati. Terremotati. Una parola che nella vulgata comune ha un che di denigratorio o comunque accezione negativa. In quelle tende, invece, tra i rottami dei casolari, delle chiese e dei palazzi, in poco tempo quel “Fate presto” diventò prima un indice d’accusa verso le deportazioni di proletari e le speculazioni crescenti, trasformandosi poi in mobilitazione, rottura della delega: dal “Fate presto” al “Facciamo presto”‘.
A Laviano, Comune dell’ecatombe, fu issato un cartello che recitava: «Ascoltate i nostri bisogni». Era quello il luogo designato per il coordinamento dei comitati popolari. Ciascuna tendopoli era rappresentata da un comitato, formato per lo più da giovani di Sinistra «ed era un segno di novità che infastidiva, un elemento di disordine nel mondo antico, contadino, democristiano. Il capofamiglia custodiva i voti e li consegnava al partito, al prete o al sindaco o al medico condotto, se non sapeva leggere, o al suo deputato di riferimento, se sapeva leggere ed era anche un po’ intraprendente». Questo era la struttura sociale predominante in Campania, specie in Irpinia zona maggiormente colpita dal sisma. Erano queste le terre in cui non c’era campagna elettorale in cui Ciriaco De Mita, uomo di spicco della Dc nazionale, non passasse villaggio per villaggio per appuntarsi voto a voto il proprio consenso elettorale.
Gli invasori vestiti da soccorritori andavano però combattuti. Va bene un popolo che piange o che sbraita, ma un popolo pensante è un pericolo da stroncare sul nascere. Già nei primi mesi si cominciò a protestare, a discutere, ad entrare nel merito delle questioni, a informarsi e fare i conti in tasca a imprese e imprenditori e ad indicare altre soluzioni. Nel giro di poche settimane l’ondata partecipativa s’incrementò. Giunsero, infatti, gli attivisti del movimento federativo democratico, immaginando per davvero un’ondata partecipativa e democratica dal basso. In quei mesi nacquero quaranta difensori civici, figura oggi regolamentata negli statuti comunali, che fu riconosciuta all’epoca dal commissario di Governo. Questo e il ridimensionamento cospicuo del “piano di arretramento” (piano che prevedeva che un certo numero di sfollati accettasse il trasferimento sulla costa, per limitare la tensione abitativa; i locali ovviamente preferivano stare in una tenda e seguire da vicino cosa si stava facendo della propria terra) furono risultati impressionanti e inimmaginabili per il popolo di “contadini e pastori ignoranti” descritto dai media. Si organizzò addirittura un’indagine popolare sul rischio sismico, la cui competenza fu trasferita dal commissario alle prefetture.
Questi giovani volontari erano quindi molto amati dalla parte più recettiva della popolazione e altrettanto contestati, anche apertamente, dagli amministratori locali, preoccupati di vedere ridimensionato il controllo sociale e il potere di clientelizzare gli aiuti del dopo sisma. Non a caso in Comuni come Colliano e San Gregorio Magno, i sindaci fecero vere e proprie opere di delegittimazione verso alcuni volontari, nascondendo, specie nel secondo caso, l’intenzione di evitare che le perizie sui danni del sisma fossero compilate da ingegneri e architetti non di fiducia, ma da “tecnici” locali. Le manifestazioni, gli striscioni, le intrusioni nelle filodiffusioni dei campi, le occupazioni a scopo abitativo, il sequestro Cirillo e l’uccisione di Siani (che indagava sugli interessi post terremoto), sono tutti prodotto di una mobilitazione generale e collettiva che si ergeva tra le macerie e che fece tremare i padroni tanto che il blocco DC, Vaticano, P2, Nuova Camorra Organizzata e Servizi Segrete dovette muoversi in blocco per contrastare i mille rivoli che la mobilitazione popolare aveva prodotto.
Quella devastazione e al contempo quel NO collettivo e partecipato sono prezioso insegnamento e metafora del nostro paese oggi. L’Italia è un paese distrutto, la classe dominante lo ha ridotto nelle condizioni che vediamo. Ancora una volta ci troviamo davanti alla necessità di non delegare più, rimboccarsi le maniche e metterci in gioco in prima persona. Organizzarsi in comitati, collettivi e gruppi di ogni genere nelle aziende pubbliche e private, nelle scuole, sui territori e nei quartieri è quanto oggi necessario per cominciare a decidere quale debba essere il futuro della propria azienda, scuola o territorio. Coordinarsi con tutti organismi che faranno lo stesso e spingere a ché se ne creino di nuovi. Solo così saremo noi i protagonisti della nostra storia individuale e collettiva, disobbedendo alle autorità e prendere il controllo di parti crescenti della società che le autorità costituite lasciano cadere, formando delle nuove autorità, partecipate e dal basso, che si impongano come Nuove Autorità Pubbliche in un processo che avanzerà fino alla costruzione di un nuovo governo del paese che poggi su queste gambe e che non passi dalle istituzioni e autorità del governo e gli apparti di potere dei padroni, il Governo di Blocco Popolare.
È così che anche oggi quel “Fate presto” potrà diventare il “Facciamo presto”.