Un esercizio mattutino per addestrarsi a gioire, in questi che da alcuni decenni sono spacciati come “tempi oscuri”, è prendere un articolo del Manifesto e leggerlo a rovescio. Proviamo. Il 20 Ottobre Tonino Perna scrive un articolo ultra deprimente. Per ciò che lo riguarda ha ragione di essere depresso: l’ultimo tentativo di aggregazione politica che tentò fu l’alleanza Lavoro Beni Comuni e Ambiente (ALBA), costruita e fallita nell’arco di un anno e mezzo, tra il 2012 e il 2013, nel modo più miserabile, senza che nessuna delle menti impegnate (Marco Revelli, Paul Ginsborg, Alfonso Gianni e altri) si sia presa la pena di chiedersi perché. Qui ci scrive che tutti si sono rassegnati, ed è implicito che tra i tutti c’è anche lui. La ragione di tanto disastro è la crisi: ha capito che la crisi economica si è trasformata in crisi politica e culturale, inducendo tutto il mondo, dall’Italia odierna al Cile di Pinochet, a un sentimento che spazza via due secoli di fiducia nel progresso inaugurata dal Manifesto di Marx ed Engels.
Rovesciamo. La scoperta che Perna illustra è quella fatta trenta anni fa dai redattori del Bollettino dei Comitati contro la Repressione, rinchiusi in carcere a Belluno: scoprivano la natura della crisi, le sue soluzioni possibili, e il fatto che questa crisi economica trapassa in crisi politica e culturale, apprestandosi così a combattere il fenomeno su tutti e tre i piani. Infatti la crisi, così come ogni altra cosa di questo mondo, è una contraddizione, e cioè quanto più pare negativa tanto più è essenzialmente positiva: induce a rinnovarsi in maniera radicale come non mai, spazza via le resistenze e tutti gli ostacoli posti alla ripresa della costruzione della rivoluzione socialista. Anche più che in altri fenomeni la contraddizione è visibile. Lo dice la parola, Tonino: viene dal greco, come il termine “critica”, cosa che pratico rispetto a quanto scrivi oggi, e spiega che sei a un bivio, che il solito tran tran è finito, che ti devi decidere. “La crisi materiale, morale, intellettuale e ambientale che affigge l’umanità intera e spaventa tante persone, sia tra le masse popolari sia nella borghesia imperialista, conferma con la sua gravità la profondità della trasformazione che l’umanità deve compiere.” (Manifesto programma del (nuovo) Partito comunista italiano, ed. Rapporti Sociali, Milano, 2008, p. 3). Capisco che il parto sia doloroso, ma non per questo gli esseri umani e non solo hanno smesso di generare e rigenerarsi, e le rigenerazioni, nei millenni, sono state fonte di gioia.
Tu, assieme a Ugo Mattei, fosti tra quelli di ALBA che dichiaravano la necessità di costruire un Comitato di Liberazione Nazionale, data l’emergenza già evidente allora, ma la baracca, dietro impulso del fiorentino Torelli e altri, preferì imbarcarsi nell’avventura elettorale, che finì dalla sera alla mattina con la Lista Ingroia, e il Movimento Cinque Stelle, con cui ALBA intendeva porsi in concorrenza, vinse le elezioni. Tu, ma anche Mattei, potete contribuire al mondo nuovo che nasce. C’è da costruire un governo di emergenza, un governo di blocco popolare. È un esperimento di valore scientifico molto grande, frutto di una conoscenza che va oltre la crisi e oltre i tempi e spazi in cui ti racchiudi, dall’Italia odierna al Cile di Pinochet. È cosa per la quale il popolo che abita questa penisola può dare un contributo alla storia dell’umanità superiore a quello che diede nel famoso Rinascimento, qualcosa per cui vale senz’altro la pena di vivere e morire, e di cui vale la pena tu ti informi, come primo passo. La crisi esige che tutto e ciascuno si trasformi: tu che sei professore, fatti studente. Puoi iniziare a leggere quanto elaborato in questi ultimi trenta anni a partire dalle scoperte degli anni Ottanta dello scorso secolo dal nuovo aggregato politico che diede vita ai Comitati d’Appoggio alla Resistenza – per il Comunismo (CARC), nel 1993, e che compì la ricostruzione del PCI, nel 2004.
***
Tonino Perna: Gli effetti invisibili del senso di colpa nella crisi più lunga
Effetti collaterali. La crisi economica ha avuto un profondo effetto disciplinante. Ha abbassato difese e aspettative permettendo di ridurre i diritti sociali senza grandi rivolte
da ilmanifesto.info
Quasi dieci anni fa scoppiava la crisi dei mutui subprime negli Usa. Il re era nudo, il ruolo nefasto della finanza ormai evidente, gli stipendi dei manager diventati improvvisamente intollerabili e scandalosi. Nel 2007, l’anno della crisi e del crollo della Borsa di Wall Street, la remunerazione dei bancari delle quattro principali banche statunitensi era aumentata del 9% arrivando a 66 miliardi di dollari, mentre le rispettive banche perdevano 50 miliardi di capitalizzazione in Borsa. I dipendenti venivano pagati in media 350 mila dollari a testa per bruciare ognuno 274 mila dollari. Con centinaia di milioni di dollari per ciascun banchiere al momento della liquidazione.
Stan O’ Neal, Ceo [Chief Executive Officer] della Merill Lynch licenziato nell’autunno del 2007 in seguito al crollo in borsa della società, ricevette una liquidazione di 161 milioni di dollari. Charles Prince capo della potente City Group costretto alle dimissioni dopo aver portato la società vicina al fallimento, ricevette una liquidazione di 140 milioni di dollari.
Molti di noi hanno pensato che con il crollo delle Borse, con il licenziamento in massa degli operatori finanziari (150 mila solo a New York), con gli evidenti effetti collaterali sull’economia reale, il sistema capitalistico mondiale dovesse cambiare rotta. Invece dopo 10 anni osserviamo che la capitalizzazione nelle principali Borse del mondo è tornata a livelli superiori al 2007, il debito pubblico e privato (Stato, famiglie e imprese) è arrivato al 265% del Pil mondiale (con un incremento del 35%) ed in particolare cresce il debito statale, impropriamente chiamato “sovrano”, di oltre 20 mila miliardi di dollari. Insomma, tutto è tornato come prima e peggio di prima nel mondo della finanza.
Come è ormai evidente questa crisi non è paragonabile a quelle precedenti: ha provocato una accelerazione nella diseguale distribuzione di redditi, patrimoni, potere; ha impoverito una buona parte della popolazione mondiale, compresi i paesi occidentali industrializzati che hanno visto per la prima volta una forte riduzione dei ceti medi.
Conosciamo gli effetti nefasti sull’occupazione, sulla crescita del disagio sociale, sul taglio dei servizi pubblici, sul crollo degli investimenti, ma non abbiamo ancora preso atto dei segni profondi che questa crisi ha lasciato, «segni invisibili» che le statistiche non registrano, ma che possiamo cogliere nei mutamenti culturali, nelle visioni del mondo, nell’agire quotidiano. Ha ragione Roberto Esposito quando afferma che «la crisi economica degli ultimi anni è diventata biopolitica nel senso che impatta fortemente con la vita delle persone».
Come docente universitario ho vissuto sia nel contatto con i miei studenti, sia attraverso delle ricerche sul campo, il dramma della inoccupazione giovanile, dei Neet (Not employement, education, training) ed ho percepito come prima cosa che i giovani laureati, ed anche “masterizzati” o “dottorati”, abbassavano di anno in anno le loro aspettative. Anche a livello nazionale, in alcune ricerche sulla condizione giovanile, emerge come i giovani ( dai 18 ai 35 anni) tendano ad accontentarsi quando riescono ad avere un lavoro, magari malpagato, e che alcuni si sentono dei fortunati e privilegiati solo perché sono riusciti a vincere un concorso pubblico, magari per una mansione dequalificante e con uno stipendio, che in una grande città, ti consente appena di sopravvivere. In questo senso si può dire che la crisi economico-finanziaria ha avuto un carattere “disciplinante” nell’accezione di Foucault, ha abbassato le aspettative e quindi ha permesso di ridurre i diritti sociali senza che ci fossero delle grandi rivolte popolari (eccetto che in Francia, dove questi diritti erano storicamente più radicati). Chi viene sfruttato e maltrattato sul luogo di lavoro si lamenta, ma poi aggiunge «meglio di niente: almeno io un lavoro ce l’ho».
Ho visto una condizione simile, per la prima volta in vita mia, nel Cile di Pinochet nel 1986, quando ero in quel paese. Una sera un taxista che mi accompagnava a casa di compagni cileni mi raccontò il fallimento della azienda dove lavorava: «Ero un lavoratore superfluo ed ho dovuto trovarmi un altro lavoro e per fortuna ho trovato un padrone che mi affitta il suo taxi». Mi è rimasto impresso il suo senso di colpa , si era convinto che il licenziamento fosse giusto, che lui fosse il colpevole, come nelle culture premoderne lo erano ( e lo sono ancora in alcune aree del mondo) le persone disabili che vivevano l’handicap come l’espiazione per un peccato commesso.
I «segni invisibili» della crisi li possiamo cogliere anche in una maggiore indifferenza verso i migranti e le guerre. E’ quella «indifferenza globalizzata» denunciata da papa Francesco. Cammina nei discorsi sul treno, al bar, o al ristorante, tra persone estranee quanto tra gli amici più cari. E’ il frutto di un profondo senso di impotenza che questa crisi ha rafforzato. Dalla finanza è transitata all’economia reale, segnando paradossalmente il trionfo del pensiero unico: il mercato è l’unica salvezza; non è possibile modificare questo modello di sviluppo capitalistico; i paesi del socialismo reale sono crollati e i comunisti cinesi e vietnamiti si sono salvati dal crollo e dalla perdita del potere convertendosi al turbo capitalismo.
Aldilà di una possibile ripresa economica (piuttosto improbabile) i segni della crisi resteranno per molto tempo, a segnare la forza del neoliberismo trionfante. Non è tanto e solo la concorrenza che ha scatenato tra lavoratori sempre più precarizzati, tra disoccupati ed immigrati, è il processo di interiorizzazione e di colpevolizzazione. L’idea che abbiamo vissuto per troppo tempo al di là delle nostre possibilità, che abbiamo esagerato nel welfare, nella spesa pubblica, nello Stato sprecone (vedi la necessità strombazzata di una spending review). Pertanto il debito insostenibile dello Stato- che è cresciuto iperbolicamente per salvare le grandi banche- è colpa nostra, la perdita di competitività delle nostre imprese è colpa nostra, dei lacci e lacciuoli che le leggi impongono (come lo Statuto dei lavoratori).
Chi vuole costruire un’alternativa economica e politica, non può non fare i conti con «i segni invisibili» della crisi penetrati nelle nuove generazioni, insieme alla paura del futuro. Una visione del mondo che è antitetica all’idea di progresso sociale, alla inevitabile evoluzione sociale positiva dell’umanità, che ha accompagnato il pensiero socialista, marxista, anarchico per due secoli.