Cari compagni,
sono un ex membro che ha presentato la lettera per rientrare nel Partito e il periodo di candidatura è terminato da qualche tempo. Scrivo per mettere in luce, attraverso la mia esperienza, l’importanza del lavoro collettivo che si svolge nel Partito e attraverso cui si impara ad assumere il ruolo di educatore, formatore e organizzatore verso le masse popolari.
Durante l’adolescenza ho mosso i miei primi passi nel movimento anarchico per giungere a quello comunista e infine al P.CARC. Come me, tanti ragazzi mossi da uno spirito di giustizia sociale, insofferenza verso le manifestazioni del capitalismo e le contraddizioni che esso genera, erano spinti a organizzarsi chi attorno a un’affinità ideologica, chi attorno a determinate lotte nei campi più disparati. Eravamo in tanti presenti a Napoli nel 2001 contro il Global Forum e a Genova contro il G8 dove venni arrestato e subii le torture di Bolzaneto e del carcere di Alessandria; eravamo in tanti alle manifestazioni contro il WEF a Davos e al successivo G8 di Evian nel 2005. In circa dieci anni passati a dar battaglia contro la repressione, dopo tante lotte ecologiste per salvaguardare i territori dalla speculazione e – ahinoi – dopo moltissime situazioni di stallo o, peggio, sconfitte, cominciai a pormi domande sull’efficacia del metodo che io e i miei compagni usavamo e sopratutto sui limiti che emergevano a un certo punto nelle lotte spontanee che seguivo. Mentre mi chiedevo che fare e come farlo, impegnato a vivere una socialità ”condita” da un uso assiduo di alcol e droghe, coi miei compagni passavamo da un volantinaggio, da un presidio e da un corteo all’altro, girando come trottole, ma rimanendo comunque fermi.
Come avviene spesso a chi si pone tante domande, le risposte arrivano sotto forme mai immaginate. Tramite un compagno lessi un volantino del P.CARC post – corteo del 15 ottobre 2011 a Roma e le posizioni mi incuriosirono: non si criminalizzavano i ribelli, ma si indicavano i veri criminali, i capitalisti e i loro governi. Il passo successivo alla curiosità fu procurarsi del materiale, in particolare il Manifesto Programma del (nuovo)PCI. Leggendolo da solo (il corso l’ho seguito solo in seguito) ho iniziato a scovare nuovi pezzi del puzzle che avevo in testa, che si combinavano con quelli che avevo già chiari. Ma non solo, iniziavano ad andare ognuno al posto giusto: la necessità di avere un piano tattico e strategico, quindi la Guerra Popolare Rivoluzionaria di Lunga Durata e le sue tre tappe, il ruolo della classe operaia e delle masse popolari nella costruzione del socialismo e il concetto di controrivoluzione preventiva che la borghesia mette in campo per arginare la lotta per il comunismo. Nonostante un forte conflitto interno verso la forma partito (la mia generazione subisce ancora influenze residuali della scuola di Francoforte e delle sue concezioni piccolo-borghesi), iniziai una collaborazione col P.CARC e dopo qualche tempo ne diventai membro.
Attraverso lo studio conobbi la concezione comunista del mondo e provai ad applicare il marxismo-leninismo-maoismo nella pratica, capii che la storia la scrivono le masse popolari guidate dal partito comunista e non gli eroi o gruppi di eroi in lotta da soli contro il mondo, riconobbi la necessità di avere un definito piano tattico e un altrettanto definito obiettivo strategico e che il Partito è l’unico strumento della classe operaia e delle masse popolari per costruire il socialismo e superare il capitalismo.
Le grandi trasformazioni sociali procedono per passi avanti e passi indietro. Anche la mia piccola trasformazione da ribelle / cane sciolto in comunista subì un rallentamento. Non comprendevo fino in fondo che per essere adeguati ai nostri compiti di comunisti, per diventare educatori, formatori e organizzatori delle masse popolari è necessario trasformarsi, cominciai a entrare in rotta col Partito. Il non voler risolvere la mia principale contraddizione, cioè essere un soggettivista estremista, e l’aver accettato solo in teoria la legge storica che sono le masse popolari a fare la rivoluzione mi portò, nell’autunno 2014, a dare le dimissioni.
Tornai negli ambiti da cui provenivo, mantenendo tuttavia un buon rapporto con i compagni della Sezione e partecipando da esterno alle iniziative. Nonostante i buoni propositi, il soggettivismo e l’estremismo non solo non danno risultati, ma alla lunga portano o alla frustrazione e alla sfiducia nelle masse popolari o alla rassegnazione e alla cinica accettazione dello status quo. Resomi conto del passo indietro che avevo fatto ricontattai la Sezione e mi ricandidai, questa volta deciso ad affidarmi al collettivo e a usare gli strumenti che il Partito mette a disposizione: il processo di critica / autocritica / trasformazione e la formazione ideologica.
Mi allontanai dalle concezioni soggettiviste ed estremiste e cominciai a condurre uno stile di vita sano, lottai contro l’abuso di alcol e droghe, altra arma della borghesia ridurre la forza delle masse popolari e dunque arginare la lotta per il socialismo.
Avanzando nella mia Riforma Intellettuale e Morale i risultati non hanno tardato ad arrivare. Anziché muovermi alla cieca nei contesti in cui intervengo, ora li guardo dall’alto (non in senso di superiorità, perché “l’umiltà è l’ornamento del bolscevico”, diceva Stalin, ma nel senso di osservarli da un altro punto di vista), studiando le forze in campo nemiche e amiche e le loro possibili mosse, elaborando piani e poi traducendoli nella pratica.
Il tutto non da solo, ma sempre attraverso il lavoro di squadra con il collettivo di Sezione e il suo legame col Partito.
Anche le esperienze di vita collettiva e socialista alle Feste della Riscossa Popolare di Napoli e di Massa, alle quali non avevo mai partecipato negli anni precedenti, hanno agito da volano nel percorso di trasformazione, un ambito concreto in cui imparare a mettere al centro il collettivo anziché l’individuo.
La borghesia sbandiera la libertà di scelta di un individuo, ma quest’ultima è limitata dal ruolo sociale che ogni proletario ha nella società. Così come il padrone non può essere ”buono” perchè altrimenti finisce a zampe all’aria, così come l’operaio deve vendere la propria forza lavoro per vivere, così chi vuol fare la rivoluzione deve farlo – e può farlo solo – nel Partito.
Certo, ho ancora molto da imparare. Come l’avere fiducia che un comunista può e deve essere dirigente delle masse popolari e darsi dunque i mezzi per farlo. Nel mio caso, ad esempio, ho reticenze a parlare in pubblico in contesti che non conosco bene, ma grazie all’esempio di alcuni compagni e compagne che hanno superato il mio stesso limite, sono sicuro che, su loro spinta e mia volontà, riuscirò a compiere anche questo passo. Inoltre grazie al collettivo e allo studio del maoismo mi sto perfezionando nell’applicazione della linea di massa, cioè nell’individuare a seconda dei casi una sinistra, un centro e una destra nelle organizzazioni popolari in cui intervengo, nel valorizzare la sinistra e quindi nel valorizzare per la causa del socialismo l’attività di tanti compagni e di tanti esponenti avanzati delle masse popolari.
Concludo con una riflessione. Solo il Partito dà a ogni membro delle masse popolari gli strumenti per orientarsi e a sua volta orientare, sviluppa nell’individuo le tendenze positive e corregge le tendenze negative. Esiste allora una migliore attività nella quale tanti compagni generosi e tanti esponenti avanzati delle masse popolari possano investire il proprio tempo e le proprie forze se non l’attività di Partito? No! Se si vuol fare la rivoluzione socialista, direi proprio di no.
EC – Roma