Critica della concezione del mondo della Rete dei Comunisti

Premessa

La Rete dei Comunisti (RdC) è una organizzazione politica cui la Carovana del (nuovo)PCI sta dedicando parecchia attenzione. L’attenzione è dovuta al fatto che la RdC è l’espressione letteraria più qualificata della concezione del mondo della sinistra borghese, che in RdC si presenta in modo dignitoso, ma è superficie di un corpo che quanto più si va in profondità tanto più si distanzia dalla concezione comunista del mondo fino a diventare esplicitamente anticomunista. Tra questo corpo, la sua superficie e la sua concezione e il nuovo movimento comunista italiano e la concezione comunista del mondo che lo guida bisogna distinguere in modo netto, e questo fa la Carovana.

La posizione complessiva esposta dai dirigenti storici della RdC è indicata dal (nuovo)PCI, che se ne occupa nell’Avviso ai Naviganti n. 62 del 16 giugno,[1] e più volte nel numero 53 de La Voce,[2] uscito nello scorso luglio. Lo scorso 23 giugno l’Agenzia Stampa del Partito dei CARC ha pubblicato un mio commento a uno scritto di Michele Franco, della Rete dei Comunisti(RdC).[3]

Lo scritto è la sua relazione al Seminario nazionale promosso dalla Rete a Roma lo scorso 18 giugno.[4] Segnalo a Franco che nella sua relazione si occupa solo di organizzazione, e non di linea, ma evidentemente non ho tenuto conto che di linea i compagni di RdC si occupano nelle altre relazioni. Leggendole, e soprattutto leggendo il documento base,[5] si vede la linea che RdC afferma. Inoltre, lo scritto di Franco offre chiavi per comprendere le radici di questa linea in due documenti a cui rimanda.

Uno è il numero di Contropiano del settembre 2013,[6] dove si riporta, tra le altre cose, uno scritto di Giorgio Gattei del 1999: Gattei scrive la storia degli ultimi due secoli dicendo il partito si organizza secondo come la borghesia organizza le attività produttive. Secondo lui, quindi, la borghesia decide come il partito deve essere, il che è come dire che in uno scontro tra due eserciti uno dei due decide modo e composizione dello Stato Maggiore dell’altro e i vari suoi movimenti. Con questo modo di pensare si finisce per fare come ha fatto l’Unione Sindacale di Base, che si è piegata a norme come quelle del Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2011, dove i padroni hanno scritte le norme che i sindacati devono accettare se vogliono accedere ai loro tavoli di trattativa.

L’altro è l’opuscolo su Partito e Teoria curato da Stefano Garroni e Mauro Casadio e pubblicato nei Quaderni di Contropiano del 1998.[7] Qui il terreno è quello della filosofia. Mentre Gattei fa dipendere l’organizzazione del partito dalla borghesia, Garroni e Casadio fanno dipendere la concezione comunista del mondo, quella che viene elaborata a partire da Marx ed Engels, dall’ultima espressione della filosofia borghese, quella di G. W. F. Hegel (1770-1831). Garroni e Casadio considerano la concezione comunista del mondo una appendice di quella filosofia.

Nello scontro di classe che precede quello presente, tra classe operaia e borghesia, quello che si è sviluppato per parecchi secoli dello scorso millennio, le classi in lotta tra loro erano borghesia e classe feudale. Se facessimo come fanno i dirigenti storici di RdC, diremmo che sul piano politico la borghesia si sarebbe dovuta organizzare a seconda delle decisioni di papi, imperatori e re, e la sua scienza avrebbe dovuto essere una applicazione della teoria secondo cui la terra è un piatto fermo al centro di un sistema dove il sole si muove, assieme ad altre sfere celesti anch’esse in movimento. Nel mondo le cose non sono andate in questo modo, altrimenti non ci sarebbe stata alcuna rivoluzione borghese, ma in Italia è successo effettivamente questo: la borghesia italiana è stata succube di varie forze feudali, prima fra le quali il Papato, e ancora lo è, viste le processioni di dirigenti economici, di politici e intellettuali alla corte di Bergoglio, e visto che la condanna delle tesi di Galileo Galilei (1564-1642), il quale affermò che la terra si muoveva nella seconda metà del secolo sedicesimo, è stata ritirata dal clero solo verso la fine del secolo ventesimo.

Questa lunga oppressione è stata subita più che da ogni altro dalle masse popolari, che si sono trovate a servire e mantenere due padroni, il clero e la borghesia, e a sopportare la loro doppia morale, e questo ha pesato sul piano economico, politico e culturale. Questo obbliga il nuovo movimento comunista del nostro paese a uno slancio e a un rigore superiore nell’elaborazione scientifica e nell’organizzazione del partito comunista, e questo non è un male, perché impegnandoci di più e più a fondo produrremo forse risultati di un livello utile a tutto il movimento comunista internazionale.

La scienza si elabora e il partito si costruisce anche distinguendo nettamente tra i vari soggetti all’opera in questi due campi. Che molti oggi si diano da fare per ricostruire il partito comunista e per pensare come farlo è un’ottima cosa: non siamo al mercato, in cui ciascuno ha una merce da vendere, guarda storto gli altri, fa mostra di ignorarli e denigra la merce loro. Siamo espressione di una tensione reale a darsi la forma e la struttura per vincere: la divisione in classi va abolita, il suo mantenimento genera ogni tipo di devastazione, questo vuol dire che il comunismo è necessario, e il comunismo, per realizzarsi, ha bisogno del partito comunista prima che di ogni altra cosa. Tutti quelli che si danno da fare per il partito, dunque, sono spinti da una necessità storica, non dalla volontà di scavarsi un posto al mercato. D’altro lato il partito comunista è uno, e una è la scienza (c’è, ad esempio, una sola fisica, non molte “fisiche”, una sola chimica, e non molte “chimiche”, ecc.) Tutto il resto sia sul piano organizzativo che su quello teorico è, nel migliore dei casi, approssimazione, imitazione, ripetizione di dogmi superati. Chi si fissa su tutto questo finisce effettivamente per comportarsi come chi cerca di scavarsi un posto al mercato, cioè un posto nella società borghese così com’è, il che è come cercarsi una cabina in una nave che affonda.

Compito di ciascuna organizzazione e di ciascuno che si dichiara comunista è mettere la ricerca della verità scientifica al di sopra dei giudizi di parte, delle opinioni, dei settarismi, degli opportunismi, dei giudizi dati per abitudine, o per istinto, o tanto per parlare. Un metodo o una legge sono veri quando sono efficaci nel costruire la rivoluzione socialista, e tali sono indipendentemente da ciò che si presume di sapere o non si sa, così come la terra si muoveva anche prima che ce ne rendessimo conto e continuò a muoversi anche dopo che Galilei, per paura della tortura e della morte, dichiarò che stava ferma.

Come si muove la terra, così si muove la storia, sorprendendo chi crede sia ferma. Anche chi apprende la scienza delle attività con cui gli uomini fanno la loro storia, resta sorpreso dalle trasformazioni in atto, perché la realtà è sempre più ricca della teoria. Anche la teoria però è realtà, scienza che ci consente di guidare quelle trasformazioni. La costruzione del partito comunista è aspetto essenziale di questo grande processo storico in atto: la sua costituzione è già inizio della rivoluzione, ogni suo membro è oggetto di questa rivoluzione, e il tutto procede secondo criteri determinati dalle leggi che compongono la scienza delle attività con cui gli uomini fanno la loro storia, scienza che è una e vale per tutti, e che tutti possono apprendere.

La concezione del mondo della RdC non è questa scienza, cioè non è scientifica. È sbagliato parlare di una concezione del mondo autonoma di RdC, se con tale termine si intende un insieme organico, unitario, autosufficiente, tutte caratteristiche che non ci sono nei documenti di RdC, nei loro opuscoli o nelle loro riviste, dove si portano posizioni tra loro differenti e anche contraddittorie. Non è una concezione del mondo autonoma, quindi, ma una versione della concezione borghese del mondo, una delle varianti di sinistra di questa concezione, la più qualificata. Le sue molte contraddizioni dipendono da quella principale, che si dichiarano comunisti, mentre le due concezioni del mondo, quella borghese e quella comunista, sono incompatibili.

Anche se non autonoma, quella di RdC è una concezione e quindi può essere analizzata. Dall’analisi vedremo se e perché questa non è concezione comunista, ma concezione della sinistra borghese.

Iniziamo con la materia che è base della conoscenza di ogni forza che si dichiara comunista, l’economia.

L’economia, secondo Luciano Vasapollo

Per analizzare il modo in cui in RdC si affronta la materia economica, serve prendere il documento che ne è sintesi, prodotto per il Seminario del 18 giugno di cui parlo sopra. È la relazione del prof. Luciano Vasapollo Oltre la nazione. Sviluppo delle forze produttive e polo imperialista europeo.[8]

Il (nuovo)PCI indica la relazione come esempio negativo di chi continua a ripetere che “il mondo è complesso”, e “invece di assimilare la scienza già elaborata dal movimento comunista e arricchirla con quanto insegna la pratica che compie per trasformare i rapporti di produzione, si lascia invadere e si sprofonda nelle narrazioni, nelle immagini e nelle farneticazioni del mondo virtuale e nello studio delle operazioni finanziarie degli operatori della “finanza creativa” e dei propositi dei caporioni della borghesia imperialista”.[9] Effettivamente si tratta di una relazione pessima. Vediamolo insieme in dettaglio.

Inizia citando Albert Einstein, che dice: “Tutto è relativo: ho assolutamente ragione”. Effettivamente l’affermazione di Einstein è contraddittoria. Se io dico che tutto è relativo, è relativo anche quello che dico. Questa è la prima premessa della dialettica, secondo la quale ogni cosa è contraddittoria, cioè è una unità di opposti. Mao Tse tung cita, al riguardo, quello che dice Lenin: “anche una semplice proposizione è un’unità di opposti. Ad esempio la proposizione ”Ivan è un uomo” vuol dire che il particolare è uguale al generale.” [10] Vasapollo prende subito la direzione contraria alla dialettica, che si chiama sofistica, consistente nel affermare che “siccome tutto è relativo, posso affermare ogni sciocchezza che mi passa per la testa”.

Passa quindi a parlare della storia della scienza economica arrivando all’oggi, dicendo che quello in cui ci troviamo oggi è un ciclo e che “ha avuto inizio più di quaranta anni fa, quando la crisi di sovrapproduzione ha dato origine ad una grande ed ancora non risolta crisi capitalista di accumulazione.”[11] L’unica parte giusta di questa frase è “più di quaranta anni fa”. Tutto il resto è sprofondamento, come dice La Voce, o piuttosto sbracamento. Dice che questo è un ciclo (non lo è), non dice cosa ha generato la crisi di sovrapproduzione, cosa è che viene prodotto in più, cosa è accumulato, come mai la sovrapproduzione genera accumulazione, che differenza c’è tra sovrapproduzione e accumulazione.

Quella che stiamo sperimentando da quarant’anni, cioè dalla metà degli anni Settanta dello scorso secolo, è una crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale. E’ stata individuata come tale dalla Carovana del (nuovo)PCI, a partire dagli studi iniziati nel 1985, in occasione degli arresti di Giuseppe Maj e altri redattori de Il bollettino del Coordinamento dei Comitati contro la Repressione, per la loro azione di solidarietà con i rivoluzionari prigionieri e di denuncia delle torture e delle altre forme di repressione a cui erano sottoposti dallo Stato borghese.[12] Nel carcere di Belluno, dove i compagni e le compagne furono rinchiusi, iniziò la ricerca che portò alla definizione precisa della crisi, degli sviluppi alternativi possibili, del modo perché prevalesse lo sviluppo verso la rivoluzione socialista. Scrissero: “La comprensione della natura e degli sviluppi possibili della crisi è indispensabile per chiunque intende comprendere la realtà presente e soprattutto per chi intende operare per la sua trasformazione”.[13]

Si vede che il carcere è luogo più propizio all’indagine scientifica rispetto all’università della Sapienza di Roma, dove Vasapollo insegna. È normale che sia così. Nel suo Stato tramite cui esercita la sua dittatura, spacciandola per democrazia, la borghesia non stipendia scienziati che studino come abbatterla. È confermato che è così dall’esempio di Gramsci, il cui contributo alla concezione comunista del mondo è stato unico, nel nostro e in altri paesi imperialisti, almeno fino a oggi, in cui stiamo elaborando la scienza che ci guiderà a portare a compimento l’obiettivo che lui non riuscì a realizzare, cioè fare dell’Italia un nuovo paese socialista.

Vasapollo intanto prosegue per la sua strada, dicendo tra le varie cose che “sembra innegabile che la concentrazione e la centralizzazione di capitale rappresentano una caratteristica del sistema economico.”[14] Immagino intenda il sistema economico capitalista, quello la cui natura e movimento è stato descritto da Marx nel Capitale, dove sta scritto in più parti e con massima chiarezza e precisione che la concentrazione del capitale è essenziale al modo di produzione del capitalismo come lo è mangiare e bere per i mammiferi e altri esseri viventi. Dovere di un professore che si dichiara comunista, quale è Vasapollo, è quello di spiegare le basi del marxismo, e non dire che “sembrano innegabili”. Dovrà anche dire perché tra i vari fenomeni che contraddistinguono la crisi ha scelto di spiegare proprio questo, che si verifica da sempre, e quindi non si vede perché dovremmo parlarne proprio oggi.

Dice invece che “la competizione globale imperialistica, insieme agli effetti della crisi economico-finanziaria e politica, e con le drammatiche ricadute sociali sui lavoratori e sugli interessi dei movimenti di classe, evidenzia sempre di più un processo di finanziarizzazione del capitale imperiale internazionale, oltre che un ricorso sempre più massiccio alla militarizzazione del tentativo di uscire da una crisi sistemica che annuncia ormai la fine dell’era del dominio del capitale.[15]

Qui ci si mette di tutto:

  • La “crisi economico-finanziaria” evidenzia la “finanziarizzazione”, cioè l’acqua è “bagnata.
  • La crisi economica – finanziaria diventa anche politica senza che nessuno spieghi perché.
  • Compare un soggetto mai visto prima, il “capitale imperiale internazionale”, del quale sappiamo che si “finanziarizza” per la “competizione globale imperialistica”.
  • Il tentativo di uscire dalla crisi si militarizza. Come fa “un tentativo” a militarizzarsi?
  • Il capitale è prossimo alla sua fine. Perché? Questo capitale è sempre il “capitale imperiale internazionale” della riga sopra?

Passa poi a parlare della “destrutturazione della collettività operaia operata mediante un processo di perdita progressiva della soggettività collettiva del conflitto e l’introiezione dell’idealismo individualista del merito personale.”[16]

Cosa vorrà mai dire “perdita progressiva della soggettività collettiva del conflitto”? E “destrutturazione della collettività operaia”? Come ci si può lamentare poi del fatto che “le masse popolari non ci capiscono” quando uno scrive in questo modo? La “introiezione dell’idealismo individualista del merito personale”, tradotto in italiano corrente, significa che uno pensa a sé prima che a ogni altra cosa, informazione che si può sentire in qualsiasi treno o bar, e che diventa utile solo se al generale associamo il particolare, se diciamo, ad esempio, che questo tipo di impostazione nel movimento comunista è data dal revisionismo moderno, dalla età degli anni ’50 in poi nei partiti comunisti dell’URSS, dell’Italia e in altri, da Deng Hsiao ping che ai cinesi dice “arricchitevi”, se facciamo riferimento, ad esempio, all’operaio che fa studiare il figlio non perché lavori per l’emancipazione della classe, ma per “diventare dottore”, se ci chiediamo perché i figli degli operai sono stati indirizzati a studiare per la carriera nella classe borghese, anziché per abolire le classi, ecc.

Parla  di un “non meglio chiamato mondo postfordista dell’accumulazione flessibile, che non ha bisogno di reinserire nuovamente l’espulso nel ciclo produttivo.”[17] Perché non ne abbia bisogno non lo spiega, ne spiega perché questa produttività sempre più meccanizzata non si rilancia, come dice oltre, dove introduce un altro termine, cioè la “desocializzazione del conflitto di classe”, come se si potesse dare un conflitto di classe non sociale.

Saltando di palo in frasca, dice che “il tema della politica economica del settore commerciale è un punto focale delle discussioni sulla transizione”[18] Dato che è un punto focale, vediamo se ci dà informazioni importanti al riguardo. Scrive:

Proprio a questo proposito è interessante sottolineare che, quando parliamo delle differenti manifestazioni delle politiche commerciali e della loro attuazione da parte dei blocchi o dei poli imperialisti, la situazione si complica notevolmente vista la forte influenza che questi hanno tanto nell’economia internazionale quanto nei flussi commerciali. Nonostante ciò, i dati che abbiamo a disposizione circa le correnti di commercio internazionale sono sempre più incompleti, specialmente per il fatto che, come già accennato, spesso non viene preso in considerazione il commercio intra-firma (cioè quello tra aziende), né tanto meno la formazione delle catene transnazionali. Tutto ciò concorre nel generare una certa difficoltà e confusione al momento di valutare la correttezza degli studi empirici.[19]

Quindi delle politiche commerciali che sono un “punto focale” “è interessante sottolineare” che non sappiamo che dire perché la materia è complicata e i dati sono pochi. Perché alcuni dirigenti della RdC si lamentano che la Carovana li “denigra”, quando semplicemente li critica, cosa che è un dovere assoluto per un comunista, soprattutto quando si trova di fronte a questo ciarpame, che si distingue entro la letteratura della RDC come il prodotto più basso?

Un’altra delle cose che Vasapollo ignora è la storia del capitalismo. La fa iniziare “al principio del XX secolo”, epoca che chiama del “primo capitalismo”, citando Lenin, secondo il quale invece quella era l’epoca finale del capitalismo, quella della sua putrefazione. Qualsiasi studente dei corsi sul Manifesto Programma del (nuovo)PCI che abbiamo tenuto a decine in diverse città del paese sa che il capitalismo nasce con la borghesia, classe che inizia a formarsi nella nelle Repubbliche Marinare, nei borghi di città come Firenze e altrove nella nostra penisola, fino al momento in cui il Papato si mette alla testa delle forze feudali per schiacciarne lo sviluppo economico e politico e per impedire lo sviluppo della scienza (le minacce a Galilei, il carcere per Tommaso Campanella (Stilo, Calabria, 1568 – Parigi, 1639), il rogo per Giordano Bruno (Nola, 1548 – Roma, 1600)) garantendo al nostro paese un’ignoranza che si espande nei secoli ed evidentemente lambisce anche Vasapollo, che sta a Roma, dove la Corte Pontificia è ancora operativa.

Sulla “disuguaglianza” Vasapollo dice che è una premessa del capitalismo, non solo una sua conseguenza, verità, questa, a cui giunge oggi come conclusione di tutta la sua analisi e che invece è una premessa della scienza marxista: “Possiamo giungere così alla conclusione che la disuguaglianza non è solo una conseguenza del modo di produzione capitalista, ma ne costituisce in qualche modo la premessa, assecondando i criteri dell’accumulazione del massimo profitto.”[20]

La disuguaglianza infatti è base del modo di produzione capitalista non solo “in qualche modo”, ma in tutti i suoi aspetti:

  • perché è modo di produzione che si fonda sulla divisione in classi, e quindi sulla disuguaglianza,
  • perché si fonda sul furto di lavoro altrui, cioè sulla “disuguaglianza” tra il valore del salario dell’operaio e quello del suo prodotto, di cui il padrone si appropria,
  • perché si fonda sullo sfruttamento dei paesi imperialisti dei popoli e delle risorse dei paesi neocoloniali, che quindi dovrebbero restare in condizione di perenne “disuguaglianza”,
  • perché si fonda sulla concorrenza, e quindi sulla “disuguaglianza”, tra capitalisti,
  • perché si mantiene in regimi politici che fingono di essere democratici, e quindi sulla “disuguaglianza” tra propaganda e realtà,
  • perché fa alle masse popolari promesse che non potrà mai mantenere, e quindi sulla “disuguaglianza” tra il dire e il fare,
  • e in molti altri modi, che sono tutti premesse e nessuno è, come dice Vasapollo, una conclusione.

Per mantenere la disuguaglianza i capitalisti usano la guerra, dice Vasapollo nel suo modo contorto e inventandosi termini:  “Ecco come la variabile guerra diventa guerra economica, guerra massmediatica, guerra psicologica (ad esempio con il concretizzarsi contro i governi rivoluzionari di Venezuela, Cuba, Bolivia).”[21] La “variabile guerra”? In che senso è variabile? Il “concretizzarsi” di cosa? Qui e altrove è Vasapollo che fa guerra alla lingua italiana. Segnalo che qui metto sul banco solo le castronerie più evidenti. Quello di cui non parlo non per questo è giusto. In effetti, tutto questo documento è nel suo insieme e in ogni sua parte sbagliato e deleterio, nel senso che genera confusione, e perciò si colloca integralmente nella produzione della sinistra borghese peggiore, perché corrisponde all’’assoluto interesse delle classi dominanti a perpetuare la confusione che deriva alla mancanza di una conoscenza razionale, dall’abitudine a non pensare, dal non essere stati educati a pensare, dallo stordimento e dalla confusione creati con il mondo virtuale.”[22]

Procediamo. Vasapollo vuole prendere il controllo dell’economia: “È necessario oggi più che mai … ricondurre la (pseudo)scienza economica sotto il controllo della politica, non più il contrario.”

La “scienza” economica è sotto il controllo della politica dai tempi di David Ricardo (Londra, 1772 – Gatcombe Park, 1823), nel senso che la politica borghese da quei tempi impedisce la ricerca scientifica in campo economico. Quando di parla di “politica”, bisogna dire di che cosa si sta parlando. Vasapollo parla come se a sentirlo fosse una corte di amici che capisce il suo gergo. Se poi intende come “politica” quella di un suo immaginario movimento comunista, quello non ha mai avuto controllo di alcuna scienza o pseudoscienza, e tanto meno della scienza economica, quindi non si vede cosa si possa ricondurre a cosa.

Tanto meno può condurre da qualche parte se è politica che si manifesta nel modo scritto fino a qui, e in quanto segue: “Negli ultimissimi anni il mondo ha sperimentato un ulteriore deterioramento della base strutturale capitalista di produzione, rimarcando ancora più chiaramente la natura profondamente sistemica di questa crisi tanto più dal momento che lo sviluppo delle forze produttive ha trovato un limite oggettivo nelle attuali forme dei rapporti sociali di produzione e di proprietà.”[23] È lo sviluppo del carattere collettivo delle forze produttive che contraddice la loro proprietà privata. Si tratta di una contraddizione che ha raggiunto un limite, cioè il punto in cui si impone il suo superamento, nella seconda metà dell’Ottocento. Vasapollo se ne rende conto oggi, anche se nel suo modo contorto, ma la colpa qui non è tutta sua, perché la concezione che guida la Rete dei Comunisti è quella della Scuola di Francoforte, che nega tale contraddizione. Secondo questa concezione agli operai e al resto delle masse popolari non dà fastidio che il loro tempo, il prodotto del loro lavoro, le macchine che usano per produrre, i luoghi dove producono non siano proprietà della collettività ma dei padroni, perché gli operai e il resto delle masse popolari sono istupiditi, ridotti a meccanismi della produzione capitalista, I contorcimenti di Vasapollo, al di là dei suoi limiti personali, sono tentativi di interpretare la realtà con lo strumento sbagliato e riguardano tutta la RdC.

Dopo aver di nuovo affermato che “appare pressoché innegabile che lo sviluppo economico-capitalista non ha una uguale ripartizione”,[24] Vasapollo propone un ritorno al passato radicale, forse addirittura a prima che si creasse la divisione in classi. Ci riporta le parole di un certo Carchedi:  “Se il processo lavorativo è formato dalle tecniche e se le tecniche a loro volta sono una concretizzazione della scienza, in un sistema socialista sono anche le tecniche e quindi le scienze che devono essere funzionali al pieno sviluppo di tutte le potenzialità insite in ciascuno di noi. Esse devono essere l’espressione di una razionalità diversa da quella capitalista e quindi devono avere un diverso carattere di classe.”[25]

Dovremo quindi lasciare la luce elettrica, l’acqua corrente, l’automobile, il computer, la macchina fotografica, il cinema, ma anche la penna biro e il libro stampato e tutto quanto perché prodotti da “razionalità” che non sono quelle della società socialista? I partigiani avrebbero dovuto andare contro i nazisti a mani nude perché le armi erano prodotti da una “razionalità” nemica? Quello che c’è da fare, a partire da ieri, è invece costruire una “razionalità” differente da quella che critichiamo, perché ancora questo non è stato fatto. I comunisti dei paesi imperialisti non hanno risposto all’appello allo studio di Lenin, al Congresso dell’Internazionale del 1923  (“i compagni stranieri debbono studiare”[26]), fino all’inizio degli anni Ottanta dello scorso secolo, quando quella che oggi chiamiamo Carovana del (nuovo)PCI ha iniziato a farlo.

Vasapollo invece non lo sta facendo e parla a vanvera: “Il livello raggiunto al giorno d’oggi da scienza e tecnica sarebbe teoricamente in grado di risolvere e appianare la maggior parte delle ingiustizie che pervadono la società contemporanea, dalla fame alle malattie, dalle guerre ai disastri naturali. Ma la condivisione non genera profitto.”[27]  La scienza, quindi, pure se prodotta da una “razionalità non socialista”, potrebbe fare del bene, il che contraddice quanto detto nella frase precedente. Ma, a parte questo, quale “condivisione”? Non siamo mica un gruppo di amici, che si “condivide” quello che c’è. Per condividere il prodotto comune ci vuole il socialismo come via per realizzare il comunismo, cosa che a dirsi è semplice e a farsi meno.

Vasapollo, però, non solo ci assilla con le sue sciocchezze e “verità” che gli “appaiono innegabili” ma vorrebbe pure tirarci nel suo pantano: “Così milioni di persone muoiono per malanni che in altri paesi sono perfettamente curabili, perché mancano fondi di prevenzione sanitaria e medicinali a prezzi accessibili e altrettante muoiono di fame quando lo spreco alimentare nei paesi del centro capitalista ha raggiunto livelli che nessuno avrebbe mai immaginato. Queste sono le barbarie a cui quotidianamente assistiamo, e più o meno consciamente aiutiamo a perpetrare.”[28] Chi aiuta a perpetrare cosa? Questo “noi” di cui parla Vasapollo non include noi comunisti, né, in generale, le masse popolari dei paesi imperialisti, che sono oggetto dello sfruttamento, e non soggetto.

Siamo verso la fine. Il lettore si trattenga dal mettersi ad aggeggiare con lo smartphone, magari pensando di trovarci una via di scampo, un giochino che impegni la mente, un essere umano che parla come mangia, un’indicazione stradale affidabile per andarsene da qui. Ancora solo due passi.

In uno Vasapollo parla della “scarsità di molte risorse naturali” il che, va detto, è una idea sbagliata che non è solo sua. Le risorse naturali sono scarse perché la borghesia imperialista se ne appropria e le prosciuga. Sono, in realtà, potenzialmente infinite, come infinita è la realtà materiale.

In un altro, troviamo altro caos, come in un ammasso di macerie dopo un terremoto. “È sempre più necessario sottolineare che tutte le leggi economiche esprimono una relazione di produzione, ma non tutti i rapporti di produzione possono considerarsi legge economica: mentre leggi economiche, infatti, richiedono un criterio di intenzionalità razionale, questa non è necessariamente presente nei rapporti di produzione, e nel socialismo il fattore predominante è quello cosciente.”

Se un rapporto di produzione è espresso da una legge, non può essere né tantomeno “considerarsi” legge. Una mela che cade non è una legge. Legge di gravità è ciò che si riscontra nel movimento di tutti i corpi gravi.

Le leggi del modo di produzione capitalista non richiedono alcun criterio di intenzionalità razionale. Il capitalista non intende con la sua razionalità creare la legge della creazione del plusvalore, che nemmeno conosce e se la conosce la nega, o paga qualche intellettuale perché la neghi vendendo fumo.

Nel finale si respira un po’ d’aria. Vasapollo parla finalmente di socialismo e di dittatura del proletariato. Sta in relazione con tutto il resto come appiccicato con lo scotch, però qualcosa di positivo è, soprattutto se nelle altre relazioni al seminario se ne parla, perché significa che esiste una tendenza positiva nella RdC, o anche se nelle altre relazioni non se ne parla, perché vuol dire che Vasapollo, che rispetto ad altri si distingue per scarsa padronanza della scienza e della lingua italiana, per lo meno porta in campo due elementi di base della concezione comunista del mondo.

Tuttavia il problema per la RdC è serio, perché ogni organizzazione che intende avere un ruolo politico duraturo ed efficace per la difesa degli interessi materiali e spirituali delle masse popolari deve avere una buona conoscenza delle basi economiche della società borghese, e quella di Vasapollo non lo è.

L’organizzazione, secondo la redazione della rivista Contropiano

I dirigenti di RdC trattano della questione dell’organizzazione nel numero di settembre di 2013 di Contropiano, il cui titolo è “organizzazione: la strada per le soluzioni”.

Il numero della rivista raccoglie articoli di autori vari, tra loro differenti per posizione ed epoca, ma non stabilisce tra di loro un nesso, segno di eclettismo e dell’idea che magari un nesso non c’è, cosa di cui avremo conferma durante il percorso. Nemmeno qui i dirigenti di RdC aiutano a pensare, diradano la confusione che la borghesia alimenta perché le masse popolari non imparino a pensare.[29]  Mettendo opinioni e giudizi raccolti qui e là, oggettivamente alimentano questa confusione. Il titolo quindi inganna: soluzioni non ne danno, e di strade non ce ne sono né molte né una. Il numero della rivista piuttosto un agglomerato di cose, in cui bisogna fare attenzione a non restare intrappolati.

Seguo il numero prendendo in esame nella sequenza in cui sono posti vari articoli, e dò l’indice:

 

 

Titolo  Autore Pagina
Organizzazione. Ovvero la posta in gioco  Redazione 2
Posizione dei comunisti di fronte ai diversi partiti di opposizione  Karl Marx e Friedrich Engels 10
 Al congresso democratico di Roma  Antonio Labriola 12
 Dalla prospettiva del ‘48 alla rivoluzione di maggioranza  Eric Hobsbawm 14
 Il primitivismo degli economisti e l’organizzazione dei rivoluzionari Lenin 18
 Sul concetto di partito politico  Antonio Gramsci 46
 Su Gramsci  Valentino Gerratana 48
 Le “situazioni democratiche”  Antonio Badaloni 50
 Relazione dolente e affettuosa della memoria  Federico Martino 54
 Per una tipologia delle forme storiche del”partito di classe”  Giorgio Gattei 58
 Resistenza e organizzazione: il caso basco  Commissione formazione della sinistra indipendentista basca 72
 La rete dei comunisti e la sua storia  Rete dei comunisti 86

Contropiano mette insieme tutti questi scritti raccolti lungo tutto un secolo e più, ma “non si propone di dare una risposta”[30] su come dobbiamo organizzarci. Dovrebbe farlo, invece, e dovrebbe anche poterlo fare. I secoli non passano inutilmente. I dirigenti di RdC però non potevano farlo nel 2013, né lo possono fare ora, perché per la comprensione della realtà non si avvalgono dell’unico strumento efficace allo scopo, e cioè il materialismo dialettico. Probabilmente i dirigenti di RdC considerano il materialismo dialettico una dottrina rozza, buona per masse popolari arretrate e incapaci di comprendere i discorsi molto “raffinati e complessi” della “vera” dialettica. “…il primo tentativo di costruzione internazionale del socialismo si è svolto, coinvolgendo grandi masse arretrate ed in luoghi particolarmente distanti dalle tradizioni culturali e scientifiche moderne. I comunisti si sono trovati, conseguentemente, nella necessità di promuovere la diffusione larga di una comune ideologia, riducendo il marxismo alla capacità di comprensione di ambienti, spesso assai poco congeniali rispetto alla complessità e raffinatezza teorica della tradizione dialettica”, dicono Garroni e Casadio ‘nel 1999.[31]

Quello che dicono Garroni e Casadio ha radici nel pensiero reazionario, e vedremo perché. Per ora limitiamoci a constatare che se il luogo dove vissero le masse popolari russe e cinesi è lontano da Francoforte, Parigi e Londra, quello dove vivono le masse popolari italiane, inclusi tra esse Garroni e Casadio, è vicino al Vaticano, che pure esso è “particolarmente distante dalle tradizioni culturale e scientifiche moderne”. I dirigenti di RdC sottovalutano l’influenza del Vaticano e della concezione clericale del mondo, a fronte della quale non devono dare per scontato di essere immuni. RdC ha il suo centro a Roma, città centro dell’attività nazionale e internazionale del Papato da quasi mezzo millennio. Bisogna avere antidoti potenti per sottrarsi all’inquinamento ideologico di una potenza come questa, soprattutto quando ci si vive accanto.

In realtà sono i dirigenti di RdC che non conoscono la vera dialettica. La mancata conoscenza, assimilazione e uso del materialismo dialettico li porta a conclusioni unilaterali, schematiche e antiquate. Sono nella condizione dei partiti comunisti dei paesi imperialisti nel primo movimento comunista, che “erano e restarono profondamente intrisi delle due tare che avevano fatto imputridire i partiti socialisti: il riformismo elettoralista (sostituire la lotta politica rivoluzionaria con la partecipazione delle masse popolari dirette dal partito comunista alla lotta politica borghese) e l’economicismo (sostituire la lotta politica rivoluzionaria con le lotte rivendicative delle masse popolari). Sono le due tare più evidenti nella loro storia, ma il nesso tra esse e altri aspetti negativi e positivi di quella storia è la non assimilazione del materialismo dialettico come metodo per conoscere e per agire.”[32]

L’editoriale: “Organizzazione. Ovvero la posta in gioco”

I dirigenti storici di RdC, nel 2013, riducono la costruzione del partito alla sua relazione con la classe. Lo scrivono nell’editoriale della rivista.

Non tengono conto che il partito non ha solo relazione con la classe, ma anche relazione con se stesso. È un soggetto contraddittorio: ha al suo interno spinte ad avanzare verso la rivoluzione e spinte ad arretrare, ha una sinistra e una destra che sono in lotta tra loro, una costante lotta tra due linee[33] in cui, tra l’altro, ognuno può spostarsi da destra a sinistra e viceversa, e ciascun singolo è in lotta anche con se stesso. È un soggetto i cui componenti non sono comunisti per autocertificazione, ma devono diventare tali, attraverso una riforma intellettuale e morale che, contemporaneamente, li distingue in modo netto dalle masse popolari e li lega strettamente a loro.

Non tengono conto del fatto che il partito non si cura solo della relazione con le masse popolari e delle sue relazioni interne, ma deve curarsi anche dell’analisi della situazione oggettiva, e quindi, nel caso nostro, della situazione economica, cioè della crisi: è una crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale,  dura da quasi mezzo secolo e la sua fase terminale l’ha messa sotto gli occhi di tutti. Della crisi non possiamo solo dire che c’è: dobbiamo saperne spiegare cause e soluzioni possibili. Di tutto questo nella relazione di Vasapollo al seminario del 18 giugno 2016 non c’è traccia.

Non tengono conto del fatto che il  partito non ha solo relazione con le masse popolari, ma con il suo passato e il suo futuro. Del passato deve fare un bilancio scientifico, e non è ammessa la pretesa di partire da zero, come se oggi fosse ormai tutto diverso da prima. Del futuro deve saper prevedere, almeno a larghe linee, tenendo conto che non si tratta di guardare nella sfera di cristallo, ma di fare un piano, come quando si costruisce un edificio o quando si svolge qualsiasi attività minimamente complessa.[34]

Il partito che sa affrontare questi compiti diventa capace di legarsi alle masse popolari, mentre non lo può fare e nemmeno si può costituire come partito una organizzazione con una concezione come quella dei dirigenti di RdC, che ha maglie tanto larghe da consentire il passaggio, al suo interno, delle idee unilaterali, schematiche e antiquate di cui parlo sopra, e delle quali ce ne sono in gran quantità in questo numero della rivista e altrove, senza sottoporle a critica, e quindi subendone l’influenza e facendo sì che la subiscano anche quelli che leggono.

Quanto quei dirigenti subiscano influenze delle idee sbagliate che affollano questo numero della rivista è difficile da stabilire, perché la RdC non è un partito, che è unito sulla concezione, ma un insieme dove è relativamente chiaro cosa non sono, non cosa sono. Le idee quindi sono varie e anche tra loro contraddittorie. L’unità si dà sul fatto che non si accetta qualcosa, che ci si difende da qualcosa, non dal fatto che siamo insieme per costruire qualcosa.

Se così non fosse, i dirigenti di RdC sentirebbero l’urgenza di organizzarsi perché animati dalla passione di cimentarsi  in un’impresa nuovissima nella storia dell’umanità, come quella di fare la rivoluzione socialista. Invece per loro “la necessità dell’organizzazione si dimostra essere direttamente proporzionale alla disgregazione che nasce dalla produzione capitalistica attuale”.[35]

Sono lontani dalla realtà. Organizzarsi, cioè unirsi, è cosa diversa dalla frenesia di formiche a cui hanno distrutto il formicaio. È  esigenza posta dallo sviluppo del modo di produzione capitalista, che ha dato alle forze produttive un carattere collettivo tale per cui non possono più essere proprietà di singoli individui, cioè dei capitalisti, e questo rende obbligatoria l’abolizione della divisione in classi e la progressiva creazione di una società “senza servi né padroni”, per usare il linguaggio degli anarchici, ma, a differenza di quello che loro pensano, richiede che si crei un soggetto collettivo che guida il processo rivoluzionario, richiede, cioè, che si crei il partito comunista. Il partito nasce per ragioni interne allo sviluppo storico, per ragioni interne alla classe operaia e si sviluppa per moto proprio.

Se i dirigenti di RdC non sanno o non ammettono questo, oppure qualcuno di loro lo ammette e qualcun altro no, oppure qualcuno una volta lo ammette e l’altra no, non possono costruire alcun partito e, dato che non lo costruiscono, possono concludere che costruire un partito non serve e quindi restare quali sono, restare “organizzazione”, come la volpe restava sotto l’uva. Nei vari scritti, incluse le relazioni del seminario del giugno 2016, saltano da organizzazione a partito e poi tornano indietro, dicono una cosa facendo capire che ne vogliono dire un’altra, e non fanno passi avanti rispetto alla fine del millennio scorso, quando scrivono Casadio e Garroni. Eppure Garroni è un accademico, come lo sono altri che scrivono in questa rivista, e gli studiosi come lui dovrebbero, secondo il senso comune, essere i più rigorosi nell’uso delle parole.

Il rigore scientifico però non è cosa che si trova nelle università. Ci vuole il partito. La Relazione Base del seminario di giugno inizia niente meno che con una citazione dal Corriere della sera del 9 Marzo 2008 “di uno scritto, del 2004, del filosofo francese non certo marxista Jacques Derrida:

Avrei voluto proporre un argomento analogo a quello del CHE FARE? di Lenin, scritto nel 1901-1902, ma il tempo manca. Ricordiamo ciò che in quel testo, come nel testo di Kant, oggi non risulta invecchiato: la condanna dell’ “abbassamento del livello teorico” nell’azione politica, l’idea che qualsiasi “concessione” teorica, secondo il termine di Marx, sia nefasta per la politica; la condanna dell’opportunismo (bisogna pensare ed agire controcorrente), la condanna dello spontaneismo, dell’economicismo e dello sciovinismo nazionale (il che non sospende i doveri nazionali), la condanna della “mancanza dello spirito d’iniziativa dei dirigenti” politici cioè rivoluzionari, che dovrebbero saper rischiare e rompere con le facilità del consenso e delle idee preconcette (è quanto propone Alain Minc in un libro in fondo molto leninista). E ancor meno invecchiata è l’analisi di ciò che lega l’internazionalizzazione, la mondializzazione del mercato, come della politica, alla scienza ed alla tecnica. Tutto questo si legge nel CHE FARE? di Lenin.”

A Derrida non manca il tempo, ma il partito. Tempo ne ha per spaziare nei secoli da Alain Minc, consigliere di Sarkozy, fino a Kant, cioè fino al Settecento. Lenin porta contributi scientifici tuttora validi perché ha imparato dalla pratica, dalla costruzione pratica del partito. Il partito si può costruire, e quindi si deve costruire, e ciò fanno i socialdemocratici russi con Lenin alla loro testa, partendo da alcuni assunti di fondo tratti dall’esperienza. I dirigenti di RdC invece esitano e, per quanto sono certi che del passato non va bene niente, tanto sono incerti su quello che va bene per il presente e il futuro, e oscillano.

Non è del tutto vero, però,  che i dirigenti storici di RdC non guardano al passato, che non tentano un bilancio del movimento comunista. Lo fanno, anche se, in sostanza, riducono il loro sguardo al vecchio PCI. Non tengono in considerazione il fatto che negli anni Cinquanta in Italia e nel resto del mondo (con l’esclusione della Cina e dell’Albania) i revisionisti moderni si impongono, e quindi non trattano dell’esistenza di un forte movimento antirevisionista, che in Italia è stato costituito dal movimento marxista leninista[36] e dalle Organizzazioni Comuniste Combattenti, in primis le Brigate Rosse. Perciò con l’Avviso ai naviganti 62 il (nuovo)PCI ai seminaristi romani di giugno porta in omaggio Colombo, il bilancio delle BR, dove già all’inizio c’è una descrizione utilissima di come si distingue il movimento delle masse popolari dalle organizzazioni delle masse popolari e come tutto questo si distingue dal partito. Sono tutte distinzioni su cui i dirigenti di RdC sono confusi. Vedono le tre cose e si fermano, ripetendo che la realtà è complessa, mentre i decenni scorrono.

Del passato vedono che il PCI, dopo la Resistenza, diventò partito di massa, mentre prima era partito di quadri. Perché? Dicono che sotto il fascismo non si poteva avere un partito di massa, perché i fascisti uccidevano e imprigionavano. Sconfitto il fascismo, questo fu possibile e fu un bene farlo. Oggi però il partito di massa non va più bene. Perché? Non lo dicono e si limitano a riscontrare che i partiti di massa sono falliti: il vecchio PCI non esiste più, e Rifondazione Comunista che si destreggiò per mantenerne l’eredità è a pezzi, e non sta nemmeno nel Parlamento borghese, cosa che, secondo una delle tare di cui parliamo sopra, quella del riformismo elettoralista, significa non esistere.

Dicono: “Il Partito di massa così come lo abbiamo conosciuto è arrivato al suo epilogo grazie alle caratteristiche dei suoi gruppi dirigenti, caratteristiche non individuali ma prodotto di un profondo processo strutturale che è approdato, attraverso vari sussulti, alla nascita del PD e sul quale non ci dilunghiamo in questa sede.”[37]

Il racconto dei fatti non è la loro spiegazione. Tutti hanno visto che sotto il fascismo i comunisti non potevano essere in tanti, poi lo poterono essere e oggi non lo sono più. Bisogna capire il perché questo è successo: questa è la differenza tra la scienza, che è una, e le narrazioni, che sono molte.

La quantità, da sola, non significa nulla: carezze, per esempio, desideriamo averne tante, frustate no. Decidere di essere in tanti o in pochi è questione non di quantità, ma di qualità, e in questo caso specifico di compiti. Per fare determinate cose serve un numero determinato di persone, come per formare un quartetto d’archi di persone ce ne vogliono quattro, e non una di più.

Per fare la rivoluzione socialista, perché questo voleva fare il vecchio PCI, almeno fino agli anni Cinquanta, ci voleva un nucleo di compagni e compagne formati allo scopo: non poteva entrare chiunque. Così oggi ci vuole un partito di quadri perché bisogna fare dell’Italia un nuovo paese socialista, e quindi servono elementi di tipo nuovo, distinti per qualità nuove e che si distinguono in corso d’opera, soggetti disposti a trasformare la propria concezione del mondo, la propria mentalità e nella misura necessaria anche la propria personalità. Inoltre il vecchio PCI doveva essere clandestino non perché obbligato dai fascisti, ma per lo scopo che aveva, di fare la rivoluzione, perché nessun regime borghese, sia esso fascista o “democratico”, consente ai comunisti di organizzarsi legalmente per farsi rovesciare. Per questo il (nuovo)PCI si è costituito nella clandestinità.[38]

Ecco uno spunto di riflessione per i dirigenti di RdC: il nuovo partito deve essere legale o clandestino? Questa è una buona domanda per i dirigenti di RdC, secondo i quali un altro errore del vecchio PCI fu quello di ridursi ad operare entro i limiti della democrazia borghese, pensando che a lungo andare tali limiti sarebbero stati superati con il passaggio pacifico a una società socialista. In effetti è stato il restare entro quei limiti uno dei fattori che ha dissolto il partito, e invece di andare verso il socialismo, è successo che la borghesia ha cominciato a togliere prima lentamente e oggi in modo spedito la propria “democrazia”. Scrivono:

(…) la democrazia è diventata, come il lavoro, una variabile dipendente e dunque disponibile alle modifiche necessarie al livello di sviluppo delle attuali società capitalistiche. La crisi, la costruzione del Polo Imperialista Europeo, la trasformazione delle classi dirigenti a classi dominanti, portano evidentemente alla riduzione della democrazia borghese fino alla sua scomparsa di fatto, a causa delle condizioni generali imposte dal livello sempre più intenso della competizione globale che l’assetto capitalistico richiede. Oggi è evidente che parlare di come i comunisti debbano organizzarsi e di quale funzione debbano avere non può prescindere da questa evoluzione politica e da come il contesto democratico del nostro paese stia sempre più degradando; il partito di massa così come è stato “imbalsamato” negli ultimi decenni mostra in questa fase il suo superamento, se non altro perché i partiti della sinistra italiana sono stati espulsi, non avendo alcun eletto, dal contesto istituzionale.”[39]

Questo ragionamento pone due domande, a cui i dirigenti storici di RdC sono tenuti a dare risposta:

  1. Se appiattirsi sulla democrazia borghese non era giusto a cosa bisognava riferirsi, in positivo? Insomma, quale era e ha da essere la democrazia proletaria?
  2. Se la democrazia borghese scompare cosa devono fare i comunisti? Sviluppare la lotta illegale?

Nell’editoriale della rivista, però, c’è di più oltre al racconto di quello che è successo. Non dice il perché dei passaggi da partito di quadri a partito di massa ieri, ma entra nel merito del perché un partito di quadri serve oggi: “Vale comunque la pena di ribadire che parlare di partito di quadri non significa porre un limite quantitativo e dunque necessariamente avere un approccio minoritario ma, bensì, significa mettere al centro del lavoro di costruzione del Partito/Organizzazione la qualità della militanza, la maturità dei singoli compagni che devono essere coscienti della complessità del compito che si sono scelti oltre che avere un’organizzazione in grado di sostenere, sul piano teorico, politico ed organizzativo, l’impegno collettivo e individuale richiesto.”[40] Questo è giusto. Di questo troviamo anticipazione già nello scritto di Garroni e Casadio e su questo la carovana del (nuovo)PCI ha già un’esperienza molto ricca, sulla quale ha prodotto una elaborazione scientifica che mette a disposizione di compagni e compagne della RdC e di chiunque intenda comprendere la materia e in particolare di chi intende assumersi gli impegni di cui l’editoriale di questa rivista parla.

Il problema della formazione dei quadri che i dirigenti di RdC pongono è infatti relativamente nuovo per i partiti comunisti dei paesi imperialisti, e quindi da un lato è complicato come ogni problema nuovo e dall’altro (soprattutto) è appassionante come ogni impresa da pionieri. I dirigenti di RdC si fermano alle complicazioni: dicono che oggi in un paese imperialista come l’Italia ogni individuo è portato a credere di potersi scavare una nicchia e così pensare di cavarsela da solo, e siamo lontani dall’epoca in cui un proletario vedeva nel partito l’unica possibilità di emancipazione.

In effetti per un proletario l’unica possibilità di emancipazione, di “realizzazione individuale”, è sempre stata solo nel partito. Questa è una legge. Si veda al riguardo l’ autobiografia di Teresa Noce, dove si mostra cosa possa diventare una proletaria che è nel partito.[41] Il fatto che nell’ultimo mezzo secolo i proletari abbiano dedicato massima parte delle loro risorse a se stessi anziché all’emancipazione della classe è una “parentesi” rispetto alla legge generale, è non è generata, come pensa chi scrive questo editoriale, dal fatto che la classe dominante diffonde l’ideologia individualistica. Quale altra ideologia dovrebbe diffondere? L’individualismo è centro della concezione borghese del mondo fino da quando si è articolata, tra il Cinquecento e il Seicento, dai tempi di Cartesio, che faceva dipendere l’essere dal proprio pensiero (“penso, dunque sono”) e di Spinoza, che vedeva nel preservare se stessi il primo e massimo principio dell’etica. Che la borghesia propagandi l’individualismo è normale come che Bergoglio propagandi il cattolicesimo. Il problema del proletariato fu interno: furono i revisionisti moderni che spinsero l’operaio a “voler il figlio dottore”, anziché a volerlo fare studiare per portare a termine il compito fissato dal PCI nelle su Tesi di Lione del 1926, e cioè fare dell’Italia un nuovo paese socialista.

La parentesi comunque si sta chiudendo: le università da un lato si chiudono ai proletari, dall’altro diventano luoghi dove si tengono i giovani a imparare mestieri che non faranno, perché nella società borghese quanto più avanza la crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale tanto più sono in esubero, sono “capitale” prodotto in eccesso rispetto alle esigenze dei capitalisti. Torna quindi possibile fare comprendere ai giovani delle masse popolari che il partito con la sua scuola è il luogo di formazione più elevato che possano trovare nel paese. Come farlo?

I dirigenti di RdC anche qui si limitano ad accennare al problema,[42] e come sopra non si dilungano. Così, però, non troviamo la strada e le soluzioni di cui parla nel titolo. Andiamo un po’ più a fondo nella questione. L’editoriale  indica due ostacoli alla formazione dei militanti: sul piano soggettivo indicano la mancanza di una concezione adeguata,[43] sul piano oggettivo indicano la forza del nemico. Non indica però il nesso tra i due piani: la forza del nemico è  proporzionale alla mancanza della concezione adeguata, cioè della concezione comunista del mondo: da ciò deriva che il primo compito è elaborare tale concezione, svilupparla a partire dai punti più alti a cui l’hanno portata i nostri predecessori, dedicarci senza riserve all’elaborazione scientifica dell’esperienza della lotta di classe, organizzare la vita del partito, dei suoi collettivi in conformità alle scoperte fatte, organizzare la propria vita, i propri interessi personali in conformità con tutto questo. In ciò consiste la riforma intellettuale e morale dei comunisti.

L’aspetto intellettuale della riforma di cui parlo sopra riguarda la scienza, che è scienza delle attività con cui gli uomini fanno la loro storia. I dirigenti della RdC sanno che la scienza è necessaria, se condividono quello che dice Engels, citato in questa rivista da Eric Hobsbawm (Alessandria d’Egitto,1917-Londra, 2012).

Eric Hosbawm: “Dalla prospettiva del ‘48 alla rivoluzione di maggioranza”

L’articolo di Hobsbawm è utile anche perché segnala la comprensione da parte di Engels che la rivoluzione non scoppia, [44] principio da cui nello sviluppo del pensiero comunista si scoprirà che la rivoluzione si costruisce (si fa) e oggi sappiamo che si costruisce come una guerra, una guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata.

Hobsbawm segnala che Engels non intende affatto questa costruzione, questa avanzata del proletariato, come una serie di passi avanti sul piano elettorale, in modo pacifico, fino a che la borghesia, sconfitta alle elezioni, nobilmente lascerà il campo alla classe operaia, come pensarono i revisionisti antichi (Bernstein) e moderni (Togliatti). La critica dell’elettoralismo da parte di Engels è illustrata nel passo che segue.[45]

Engels, dice Hobsbawm, insisteva

sulla necessità di una “scienza socialista”,[46] ribadendola base essenzialmente proletaria dell’avanzata socialista,[47] e soprattutto stabilendo i limiti oltre i quali non erano accettabili le alleanze politiche, i compromessi e le concessioni programmatiche finalizzate alla conquista di un sostegno elettorale.[48] Nei fatti però – diversamente da quanto Engels avrebbe voluto – ciò contribuì, soprattutto nel partito tedesco, ad allargare il divario tra teoria e dottrina da un lato e concreta pratica politica dall’altro. La tragedia degli ultimi anni di Engels, come ci è oggi possibile constatare, fu che i suoi commenti lucidi, realistici e spesso straordinariamente perspicaci sulla situazione concreta dei movimenti – non servirono come indicazione pratica, ma andarono a consolidare una dottrina generale che dalla pratica era sempre più distaccata. La sua previsione si rivelò in troppo esatta: ‘Quale potrà essere la conseguenza di tutto questo, se non che improvvisamente, al momento della decisione, il partito non saprà che cosa fare? Le questioni decisive sono poco chiare e incerte perché non sono state mai discusse’.

La rivista  mette in campo questo articolo di Hobsbawm il quale, però, al di là di alcune cose giuste che segnala, non è uno che ha dato contributi allo sviluppo del pensiero comunista, come hanno fatto Marx ed Engels, di cui qui si pubblica un estratto dal Manifesto del partito comunista, e Lenin, di cui qui si pubblica un estratto del Che fare?. Mettere assieme questo e quello è espressione di un limite dell’ideologia propagandata dalla RdC, secondo la quale  la concezione comunista del mondo, quella che fu chiamata prima marxismo, poi leninismo e quindi, oggi, maoismo, non sta in piedi da sola e ha bisogno di supporti, che si vanno quindi a cercare tra gli intellettuali borghesi, quale Hobsbawm è.

In realtà è Hobsbawm quello a cui serve il supporto di quella che Engels chiama “scienza socialista”, e che noi chiamiamo scienza delle attività con cui gli uomini fanno la loro storia. Guardiamo la sua opera più nota, Il secolo breve. Wikipedia così riassume la visione del secolo, che secondo Hobsbawm si divide in tre fasi:

  • una prima fase, definita Età della catastrofe, dal 1914 al 1945, paragonabile al periodo della guerra dei trent’anni, col primo e il secondo conflitto mondiale e le crisi che li accompagnarono e seguirono, caratterizzata dal dissolvimento di tutti gli Imperi millenari (russo, tedesco, austriaco e ottomano);
  • una seconda fase, detta Età dell’oro, dal 1946 al 1973, con la definitiva fine del colonialismo, le scoperte in campo medico, scientifico e tecnologico, la crescita dell’economia basata tanto sul capitalismo e su una politica di liberismo di stampo occidentale quanto sul sistema economico sostenuto dal comunismo (boom economico);
  • una terza ed ultima fase, definita la Frana, individuata essenzialmente negli anni che vanno dal 1973 al 1989, anno della caduta del muro di Berlino (9 novembre), e poi al 1991 (o, al massimo, a un paio di anni dopo) con il dissolvimento dell’URSS sancito il 26 dicembre di quell’anno e la conseguente fine della guerra fredda e delle ideologie politiche totalitarie. (https://it.wikipedia.org/wiki/Il_Secolo_breve)

Chi conosce la letteratura della Carovana del (nuovo)PCI e ognuno che ha fatto un corso sul Manifesto Programma del (nuovo)PCI può vedere come le fasi sono in realtà quelle

  • della prima crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale,
  • della fase di sviluppo economico seguente alla distruzione del capitale in eccesso soprattutto con le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale,
  • dell’esaurimento della fase di sviluppo e dell’inizio della seconda crisi per sovrapproduzione di capitale.

Le date corrispondono, con l’esclusione di quella della terza fase, che non si chiude con la caduta dei primi paesi socialisti, ma continua tuttora, e perciò Hobsbawm non capisce bene cosa sta succedendo, in che fase siamo e di cosa. Per il resto, la mancanza di scienza lo obbliga a fantasticare su date iniziali e terminali di ogni fase, e la posizione di cattedratico nelle università inglesi lo obbliga ad essere anticomunista, e quindi parlare di catastrofe anche riguardo alla Grande Rivoluzione d’Ottobre e alla costruzione del socialismo che ne seguì. A premessa dell’opera e a termine del secolo, Hobsbawm cita il poeta inglese T. Eliot: “il mondo finisce in questo modo: non con il rumore di un’esplosione, ma con un lamento”,[49] un fastidioso piagnisteo, che infatti è proprio quello della sinistra borghese, che denuncia i misfatti del capitalismo e ci piange sopra. La rivoluzione non è scoppiata e noi siamo qui a frignare, e questo è tutto, secondo questi “uomini vuoti” di Eliot, uomini che non siamo noi comunisti, che invece anche Hobsbawm è, dato che anche lui, in definitiva, si lamenta, e che è tutta la sinistra borghese nostalgica della fase due, quella dell’Età dell’Oro, quella del capitalismo dal volto umano.

Tutto questo è ciarpame, e sollecitiamo compagni e compagne della RdC e chi la segue a lasciarsi alle spalle questi “pensieri che hanno avuto esiti cattivi/ e a scoprire quelli propizi”.[50] Prima di lasciare Hobsbawm, però, leggiamo che dice su quelli che furono i quadri di partito, nel primo movimento comunista, e su quello che fu, secondo lui, il loro ruolo. L’argomento interessa dirigenti di RdC, che parlano appunto di “partito di quadri”. Hobsbawm scrive:

 Il numero complessivo dei soldati che facevano parte dell’esercito necessariamente spietato [sic]  e disciplinato dell’emancipazione umana non superava forse qualche decina di migliaia di unità; il numero poi dei professionisti del movimento rivoluzionario internazionale, ”che cambiavano paese più spesso di un paio di scarpe”, come scrisse Bertolt Brecht, in una poesia scritta in loro onore, ammontava forse a non più di poche centinaia in tutto. Non si devono confondere questi rivoluzionari di professione con ciò che gli italiani, nei giorni in cui il loro partito comunista era all’apice, chiamavano “il popolo comunista”, cioè i milioni di sostenitori e di iscritti che sognavano anche essi una società nuova e giusta, ma il cui attivismo quotidiano era quello proprio del vecchio movimento socialista e il cui impegno non era tanto il frutto di una dedizione individuale quanto della loro appartenenza a una classe e a una comunità. Benché il numero dei professionisti della rivoluzione fosse piccolo, il Novecento è un secolo che non si può capire senza considerare la loro presenza. Senza il ”partito leninista di nuovo tipo”, i cui quadri erano composti dai ”rivoluzionari di professione”, è inconcepibile che appena trent’anni dopo la rivoluzione d’ottobre un terzo dell’umanità si trovasse a vivere sotto regimi comunisti.”[51]

Questi quadri costituirono un nucleo compatto, dice Hobsbawm, fino al 1956. Quello che dice è interessante per capire cosa vedono del movimento comunista gli intellettuali come lui (non per prendere sul serio quello che dice, come fa la redazione di Cp), e quello che vedono è quale forza ha un corpo di quadri con un determinato livello di forza intellettuale e morale quale ebbero i rivoluzionari di professione forgiati secondo il metodo indicato da Lenin. Quello che vediamo noi è quale forza avrà il nuovo movimento comunista con rivoluzionari di professione forgiati secondo i criteri della riforma intellettuale e morale che la Carovana del (nuovo)PCI ha scoperto e sta scoprendo nel suo percorso.

Questa riforma intellettuale è criterio distintivo e unificante.

È distintivo in quanto definisce in modo netto il limite tra comunisti e masse popolari: i comunisti sono quelli che praticano la riforma intellettuale e morale. La praticano su loro stessi, come scienziati coraggiosi che sperimentano su di sé soluzioni appena scoperte per verificarne l’efficacia. Più specificamente, la distinzione è tra comunisti e organizzazioni delle masse popolari, distinzione che RdC non condivide, ogni volta che scrive Partito/Organizzazione, o ogni volta che dice prima organizzazione e poi partito, o viceversa. La questione è già trattata in Colombo, e viene ripresa nel n. 53 della La Voce del (nuovo)PCI: “I comunisti si staccano dalle masse popolari per elaborare e assimilare la concezione comunista del mondo, compiere la riforma intellettuale e morale necessaria, darsi gli strumenti organizzativi e i mezzi pratici per portare agli operai la concezione comunista del mondo e applicarla.”[52]

Il fatto che i dirigenti della RdC nel 2016 ancora non siano in grado di fissare questa distinzione, questa discriminante, contraddice con la loro intenzione di formare un partito di quadri, e con tutto lo scritto di Lenin che riportano dal Che fare? nel numero della rivista del settembre 2013.[53]

Lenin critica con precisione da chirurgo chi confonde l’organizzazione di massa con il partito in tutto l’estratto, che è il più consistente di tutta questa rivista che stiamo studiando. Tratta di un articolo sull’organizzazione scritto sulla Svoboda, rivista per gli operai, e dice che le conclusioni dell’autore “mancano di senso politico, perché, invece di voler sostituire i cattivi dirigenti con buoni dirigenti, l’autore vuole sostituirli in generale con la «folla».”[54] Scrive che “la folla genererà in sempre maggior numero i rivoluzionari di professione, perché imparerà allora che non basta che alcuni studenti o alcuni operai, i quali guidano la lotta economica, si riuniscano per costituire un “comitato”, ma che è necessario, attraverso un processo che durerà degli anni, forgiare dei rivoluzionari di professione, ed essa “penserà” a formarli abbandonando il proprio primitivismo.”[55] Scrive che “bisogna che noi lavoriamo soprattutto per elevare gli operai al livello di rivoluzionari e non bisogna che ci abbassiamo, noi, al livello della “massa operaia”.”[56]

Tutto lo scritto di Lenin è linea discriminante tra partito e organizzazione di massa, secondo i caratteri indicati nella tabella sotto:

Partito Organizzazione di massa
Di quadri, rivoluzionari di professione Di massa, che raccoglie tutti gli elementi delle masse popolari  interessati,
Quanto ai membri, con un numero limitato allo scopo. Quanto più vasto possibile
Formato da elementi uniti per l’adesione a una comune concezione, linea, strategia. Formato da elementi uniti perché fanno lo stesso lavoro (o aggiungiamo noi, perché abitano nello stesso posto o sono interessati allo stesso tema) indipendentemente dal loro orientamento ideologico.
Clandestino Pubblico

Le qualità che distinguono il partito dalle organizzazioni di massa sono tuttora quelle valide. Sono ribadite nel bilancio delle Brigate Rosse inviato dal (nuovo)PCI al Seminario di RdC dello scorso giugno con l’Avviso ai Naviganti n. 62,  e sono quelle del processo di costruzione prima e del rafforzamento poi del (nuovo)PCI.

La riforma intellettuale e morale dei comunisti mentre è criterio distintivo, oppure proprio perché è criterio distintivo, è fattore unificante, in più sensi.

È fattore unificante entro il partito. Il (nuovo)PCI scrive:

Il collante, il legame che dà forma al partito comunista, è l’adesione, l’assimilazione e l’applicazione della concezione comunista del mondo. Questo è il principale: le altre caratteristiche sono secondarie: indispensabili, ma secondarie, derivate. Esse si sviluppano con forza sul lungo periodo solo grazie alla prima. Non a caso le rivendicazioni, la lotta sindacale e tutte le forme secondarie della lotta di classe si sono affievolite e sono decadute via via che i partiti comunisti hanno abbandonato la concezione comunista del mondo, che i revisionisti moderni sono prevalsi e che la sinistra borghese ha infine preso il posto dei revisionisti moderni.[57]

I membri del partito sono quindi uniti perché imparano a pensare e agire tutti secondo una stessa concezione, la concezione comunista del mondo, e non sono “ciascuno per suo conto”, con la sua idea, come se fosse possibile che ciascuno avesse una idea originale che lo distingue da tutto il resto del mondo. Le idee che si hanno sono componenti di grandi “banchi”, come diceva una compagna, e cioè della concezione clericale, della concezione borghese, della concezione comunista del mondo. Ciò che presume di stare  per conto proprio rispetto a questi banchi è un insieme di loro frammenti, a volte un rottame da naufragio, o una copia. Certo, il suo pensiero è differente da quello di ogni altro, ma solo come sono differenti da quelle di ogni altro le sue impronte digitali, e non perché le sue idee sono nuove o originali, differenti da quelle delle classi dominanti.

E’ fattore unificante tra partito e masse popolari. Sono le masse popolari che inducono alcuni dei loro componenti a farsi avanti rispetto a loro, come quando in un posto di lavoro i lavoratori spingono qualcuno a farsi delegato sindacale, sulla base di alcune potenzialità che ha. Se costui si fa avanti, va a trattare con il padrone al posto dei lavoratori che rappresenta, affina le sue potenzialità, conduce una lotta dove i lavoratori vincono, allora lui è unito a loro a un livello più elevato, diverso da quando era tra di loro indistinto. Chi si distingue dalle masse popolari come quadro di partito è unito alle masse popolari perché sintetizza i loro pensieri e sentimenti e di tale elaborazione sintetica fa un’arma di cui le masse popolari si servono per realizzare i loro interessi materiali e spirituali. Questo tipo di unità tra partito e masse popolari è indistruttibile dal nemico di classe.

È fattore unificante del partito con ciò che lo precede e ciò che lo supera. Il partito nuovo fa un bilancio del passato che è componente essenziale della concezione, e che consente di conservare quanto di positivo ha fatto il precedente movimento comunista e di togliere i limiti che non è riuscito a superare. Allo stesso tempo pianifica il futuro, e pone le basi per un movimento comunista di livello superiore ma anche, più in generale, per fare sì che siano le masse popolari a elevarsi e a rendere via via superfluo il partito stesso.

Valentino Gerratana: “Su Gramsci”

Il legame tra partito e masse di cui dò sopra sintesi è inteso bene da Gramsci, che viene chiamato in causa qui nella rivista, presentato da Valentino Gerratana.[58] Si parla di consenso attivo e diretto da parte delle masse popolari, di partecipazione, che sono appunto gli elementi per cui la distinzione originaria e necessaria tra partito e masse popolari via via si perde quanto più le masse popolari diventano capaci di dirigersi e di dirigere. Il partito si fa da parte e le masse popolari avanzano, e al termine del percorso c’è il comunismo. Pare quindi che stiamo viaggiando verso la meta, in questo nostro lungo percorso in cui si passa da un testo all’altro di quelli che la RdC ha prodotto direttamente o ha pubblicato a proprio supporto. Il percorso è lungo ma merita farlo, se contribuisce all’obiettivo di oggi, e cioè creare le condizioni per il Governo di Blocco Popolare. Una condizione è che le masse popolari e in particolare la classe operaia si rendano conto che non sono i padroni a essere forti, ma sono loro che devono fare valere la loro forza, e quindi ci siamo con quello che dice Gramsci e che Gerratana cita.

Le cose però non sono affatto lineari, e anzi qui c’è il balzo all’indietro. Gerratana prende un pezzo dello scritto di Gramsci e lo stravolge per dimostrare che, anche secondo Gramsci, la partecipazione delle masse popolari in URSS non c’era, e quindi da quell’esperienza non possiamo imparare niente. Che fare, dunque? Magari è facile che di fronte a questi scritti di Gramsci “complessi e per alcuni aspetti enigmatici, qualcuno si senta scoraggiato e sia tentato di passare oltre”,[59] che è proprio quello che spesso scrivono alcuni dirigenti della RdC: la cosa non si capisce, oppure non ci dilunghiamo, oppure ne trattiamo in altra sede, ecc. Così però non si va avanti, nonostante le apparenze. Bisogna per forza entrare in dettaglio, invece, perché quello che fa Gerratana è seminare confusione, infondere incertezza sulla via da prendere, che è proprio quello che la borghesia vuole.

Gerratana scrive: “Gramsci chiarisce come il consenso passivo e indiretto, strumento normale di egemonia per alcuni partiti e gruppi sociali, sia del tutto insufficiente per le nuove forme di egemonia: “Per altri organismi – egli dice, riferendosi evidentemente agli organismi della nuova egemonia – è questione di vita non il consenso passivo e indiretto, ma quello attivo e diretto, la partecipazione, quindi, dei singoli, anche se ciò provoca un’apparenza di disgregazione e di tumulto”.

Da questo punto di vista, nemmeno il carattere di massa di un partito è, per Gramsci, garanzia sufficiente, secondo quanto dice Gerratana. Egli conosce partiti di massa, dove “la massa è semplicemente ‘di manovra’ e viene ‘occupata’ con prediche morali, con pungoli sentimentali, con miti messianici in attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate”. Pensava con ogni probabilità al fascismo; anzi si deve dire che il contesto non autorizza altre ipotesi. Ma poco prima, nella stessa nota dei Quaderni, parlando esplicitamente dei “paesi dove esiste un partito unico e totalitario di governo”, Gramsci non nasconde la sua motivata diffidenza per ogni sistema monopartitico.”[60]

Gerratana sparge cibo al veleno. Gramsci, dice subdolamente, criticava il regime fascista perché era a partito unico, ma criticava pure lo Stato sovietico, dove pure c’era un solo partito, dal che è breve il passo al dire che avevamo due dittature, una di Hitler e l’altra di Stalin, che la vera democrazia è quella borghese, che il sistema che ci vuole è il pluripartitismo. L’operazione è sporca. È parte della lunga campagna per arruolare Gramsci nelle file degli “antistalinisti”, di cui parla anche l’ultimo numero de La Voce del (nuovo)PCI entrando in dettaglio.[61] Entriamo in dettaglio anche noi su questo passo di cui parla Gerratana. Serve anche a compagni e compagne e simpatizzanti di RdC che vogliono dirimere finalmente questa faccenda del partito, che non sono disponibili né a fermarsi né ad andare avanti senza aver capito, per “consenso passivo”, il fenomeno che Gerratana ostenta di criticare .

La Nota in questione è la 13 del Quaderno 15.[62] La riporto con alcuni commenti interni al testo.

Problemi di cultura. Feticismo. Come si può descrivere il feticismo. Un organismo collettivo è costituito di singoli individui, i quali formano l’organismo in quanto si sono dati e accettano attivamente una gerarchia e una direzione determinata. Se ognuno dei singoli componenti pensa l’organismo collettivo come un’entità estranea a se stesso, è evidente che questo organismo non esiste più di fatto, ma diventa un fantasma dell’intelletto, un feticcio. È da vedere se questo modo di pensare, molto diffuso, non sia un residuo della trascendenza cattolica e dei vecchi regimi paternalistici: esso è comune per una serie di organismi, dallo Stato, alla Nazione, ai Partiti politici ecc. È naturale che avvenga per la Chiesa, poiché, almeno in Italia, il lavorio secolare del centro vaticano per annientare ogni traccia di democrazia interna e di intervento dei fedeli nell’attività religiosa è pienamente riuscito ed è divenuto una seconda natura del fedele, sebbene abbia determinato per l’appunto quella speciale forma di cattolicismo che è propria del popolo italiano.” [63]

Gramsci non perde occasione di parlare del Vaticano, quando è necessario. Si distingue a fronte di Gerratana che non fissa l’attenzione sulla Chiesa di Roma, centro di potere che governa il paese senza che lo si debba venire a sapere, includendo nella “congiura del silenzio” il PCI e Gerratana che ne è dirigente di rilievo. Eppure anche nella Chiesa di Roma non è ammesso il pluripartitismo. Gerratana invece distoglie lo sguardo e lo volge altrove, all’URSS, e distorce il pensiero di Gramsci.

Gerratana difendendo il pluripartitismo lascia il campo comunista e si sposta nel campo borghese. Spaccia l’idea che per favorire la partecipazione delle masse popolari ci vogliono più partiti, il che è falso. Nei paesi socialisti il pluripartitismo non è stato né sarà consentito, e ne spieghiamo le ragioni nel nostro Manifesto Programma:

Nei paesi socialisti il sistema politico borghese (pluripartitismo, periodiche campagne elettorali, assemblee rappresentative) permetterebbe ai dirigenti di gareggiare tra loro per conquistare il favore e il voto delle masse. Ma non offrirebbe alcun canale per promuovere la partecipazione di massa più ampia possibile all’esercizio del potere. Non permetterebbe alla massa di formarsi un’esperienza di esercizio del potere esercitandolo. Non permetterebbe alcun controllo reale, efficace e con cognizione di causa delle masse sui dirigenti. Manterrebbe (o riporterebbe) le masse ai margini del potere. Consoliderebbe lo strato dirigente e favorirebbe la trasformazione dei dirigenti in una nuova classe, la borghesia specifica dei paesi socialisti. È ciò che i revisionisti sono riusciti a fare nei primi paesi socialisti e che li ha prima indeboliti politicamente e poi portati allo sfacelo.[64]

La nota di Gramsci procede criticando chi, nel partito, mette l’individuo davanti al collettivo, cioè mette i suoi interessi personali davanti all’impegno politico. Questo è utile, per compagni e compagne della RdC che si interessano alla formazione di quadri: i quadri dovranno essere i primi a distinguersi in questo specifico aspetto della riforma morale e intellettuale. Senza quadri di questo tipo non è possibile la costruzione di alcun partito comunista.

Gramsci scrive:

Ciò che fa meraviglia, e che è caratteristico, è che il feticismo di questa specie si riproduca per organismi «volontari», di tipo non «pubblico» o statale, come i partiti e i sindacati. Si è portati a pensare i rapporti tra il singolo e l’organismo come un dualismo, e ad un atteggiamento critico esteriore del singolo verso l’organismo (se l’atteggiamento non è di una ammirazione entusiastica acritica). In ogni caso un rapporto feticistico. Il singolo s’aspetta che l’organismo faccia, anche se egli non opera e non riflette che appunto, essendo il suo atteggiamento molto diffuso, l’organismo è necessariamente inoperante.[65]

Gramsci parla dell’atteggiamento di chi sta in un partito o in un sindacato e invece di occuparsi di farlo crescere, si aspetta che sia quel partito o quel sindacato a occuparsi di lui e dei suoi interessi. Se tutti i membri dell’organismo fanno così è chiaro che l’organismo non va avanti, e muore, il che è successo con il PCI in mano ai revisionisti moderni, per l’individualismo da loro coltivato al suo interno.

Il partito è formato da donne e uomini che prima di riconoscersi come singoli si riconoscono come collettivo, e perciò sono attivi. Passivi sono invece quelli che considerano il partito un’entità esterna, a se stante, presso cui recarsi come chi ha qualcosa da rivendicare o qualcosa da adorare. Questa è passività, e Gramsci la descrive così, nel seguito della sua nota:

Inoltre è da riconoscere che è essendo molto diffusa una concezione deterministica e meccanica della storia (concezione che è del senso comune ed è legata alla passività delle grandi masse popolari) ogni singolo, vedendo che, nonostante il suo non intervento, qualcosa tuttavia avviene, è portato a pensare che appunto al disopra dei singoli esiste una entità fantasmagorica, l’astrazione dell’organismo collettivo, una specie di divinità autonoma, che non pensa con nessuna testa concreta, ma tuttavia pensa, che non si muove con determinate gambe di uomini, ma tuttavia si muove ecc.[66]

Così è da dire di ogni forma del così detto «centralismo organico», il quale si fonda sul presupposto, che è vero solo in momenti eccezionali, di arroventatura delle passioni popolari, che il rapporto tra governanti e governati sia dato dal fatto che i governanti fanno gli interessi dei governati e pertanto «devono» averne il consenso, cioè deve verificarsi l’identificazione del singolo col tutto, il tutto (qualunque organismo esso sia) essendo rappresentato dai dirigenti. È da pensare che, come per la Chiesa cattolica, un tale concetto non solo è utile, ma necessario e indispensabile: ogni forma di intervento dal basso, disgregherebbe infatti la Chiesa (si vede ciò nelle chiese protestantiche); ma per altri organismi è questione di vita non il consenso passivo e indiretto, ma quello attivo e diretto, la partecipazione quindi dei singoli, anche se ciò provoca un’apparenza di disgregazione e di tumulto. Una coscienza collettiva, e cioè un organismo vivente, non si forma se non dopo che la molteplicità si è unificata attraverso l’attrito dei singoli (…).”[67]

Gramsci dice quindi il contrario di quello che Gerratana vuole farci credere, e Gerratana mente, togliendo il riferimento indispensabile alla Chiesa e immaginando che Gramsci pensi all’URSS. Al di là delle menzogne dei revisionisti, qui c’è però un principio utile: la molteplicità, cioè i molti individui delle masse popolari, non si deve piegare di fronte al duce o al papa, unendosi nella loro adorazione, ma si deve però unire, deve unificarsi come coscienza collettiva e come organismo vivente, e questo lo fa non con l’adesione burocratica o l’esaltazione acritica, ma attraverso lo scontro, attraverso l’attrito dei singoli: per unirsi bisogna scontrarsi, e questo è il principio della lotta tra due linee che viene fissato da Mao, che è uno dei grandi contributi del maoismo al pensiero comunista. Tutto questo sfugge a Gerratana, che invece di guardare ai problemi di casa propria e di interrogarsi perché lui e il suo partito non sono riusciti a fare la rivoluzione nel loro paese, guarda chi la rivoluzione l’ha fatta e l’ha difesa contro le armate nazifasciste, e denigra. Se abbiamo capito il fumo che Gerratana vende, possiamo procedere.

Visto però che Gerratana ci ha fatto andare nel Quaderno 15, raccogliamo qualcosa dalla Nota 35: “L’ideologo, che come il cuculo, ha posto le uova in un nido già preparato e non sa costruire nidi, pensa che le volontà collettive siano un dato di fatto naturalistico, che sbocciamo e si sviluppano per ragioni insite nelle cose”.[68] Questo ci fa tornare in mente l’inizio di questo percorso, quando abbiamo scoperto che i capi della RdC non ci daranno risposta,[69] e questo perché “questo non può che avvenire nella crudezza del conflitto reale”,[70] il che è lo stesso pensiero del cuculo: la teoria verrà fuori da sé, per cui non c’è motivo di dannarsi e di scontrarsi per trovare la via giusta.

In effetti i capi di RdC non hanno costruito in questi decenni il partito di cui parlava, il che dimostra che non sanno come farlo. A questo c’è rimedio: non saper costruire non è un problema insolubile, né una cosa strana, visto che la scienza del costruire la rivoluzione in un paese imperialista è la più nuova delle scienze e, soprattutto, è una scienza che ciascuno può imparare.

Antonio Badaloni: “le ‘situazioni democratiche’”

Procedendo, il personaggio che incontriamo ora tra quelli che scrivono su questo numero è Nicola Badaloni,[71] anche lui alle prese con Gramsci. Quanto al problema in corso, cioè quello dell’organizzarsi come partito, la questione è se ci si unisce sorvolando sulle differenze, cioè attutendo lo scontro interno, o se invece bisogna promuovere la lotta interna, se, cioè, sia valido o meno quello che dice Mao, che nel partito ci sono sempre due linee e che bisogna promuovere la lotta tra di esse, perché è solo così che il partito cresce e si rafforza. Badaloni chiama in causa Gramsci per una lettera che scrisse nel 1926 al partito bolscevico, dove esprimerebbe la sua preoccupazione per l’attacco svolto contro Trotzky e altri, con l’argomento che abbiamo sentito più volte, quello per cui la classe operaia vuole che i comunisti siano uniti e non apprezza che entro il partito ci si scontri. Per questo ci siamo sentiti dire che non è il caso di fissarsi su divergenze e soprattutto su divergenze di carattere teorico, come se la teoria fosse aria fritta. Qui non mi fermo sulla lettera del 1926, sulla quale sono calate schiere di avvoltoi, ma su quello che Gramsci scrive dopo, in carcere, che tra l’altro si lega ai passi del Quaderno 15 appena visitati. È la Nota 79 del Quaderno 6. Vi si spiega che polemiche e scissioni sono inevitabili, che bisogna affrontarle e superarle, altrimenti gli esiti saranno catastrofici. Abbiamo visto già prima, quando abbiamo avuto a che fare con Gerratana, il valore dell’attrito, dello scontro interno, come fattore che rinsalda e unifica.

Merita però riportare tutta la Nota, perché è di insegnamento per la riforma intellettuale e morale dei comunisti, quella che interessa noi e chiunque intende realmente essere comunista.

 Riviste tipo. Dilettantismo e disciplina. Necessità di una critica interna severa e rigorosa, senza convenzionalismi e mezze misure. Esiste una tendenza del materialismo storico che solletica e favorisce tutte le cattive tradizioni della media cultura italiana e sembra aderire ad alcuni tratti del carattere italiano: l’improvvisazione, il «talentismo», la pigrizia fatalistica, il dilettantismo scervellato, la mancanza di disciplina intellettuale, l’irresponsabilità e la slealtà morale e intellettuale. Il materialismo storico distrugge tutta una serie di pregiudizi e di convenzionalità, di falsi doveri, di ipocrite obbligazioni: ma non perciò giustifica che si cada nello scetticismo e nel cinismo snobistico.[72]

Gramsci sta parlando di Vasapollo, la cui scompostezza e le cui farneticazioni sono però possibili solo in un contesto complessivo, in una rete lasca, dove lo scetticismo e l’irresponsabilità hanno via libera. Sono quelle di chi, siccome è contro il capitalismo e contro la concezione borghese del mondo, dichiara di essere contro qualsiasi concezione (c’è chi se ne fa un vanto), mai si impegna a dare risposte, al massimo dà qualche “chiave”, qualche “spunto”, qualche opinione, e si tiene lontano dall’elaborazione scientifica dell’esperienza della lotta di classe, spesso dichiarando che la scienza non è possibile, dal che al dichiarare che non è possibile nemmeno costruire il partito e che in definitiva ciascuno può fare quello che gli pare il passo è breve. Contro questo scetticismo il (nuovo)PCI ha intrapreso una sana battaglia[73] a cui ogni comunista è chiamato a cooperare, come modo per procedere nella propria riforma intellettuale e morale: la teoria rivoluzionaria non solo è scienza, a fronte della quale tutto il resto è opinione, ma è anche è soprattutto arma per la trasformazione della realtà.[74]

A fronte della filosofia e della morale del capitalismo noi non mettiamo “nessuna filosofia e nessuna morale”, ma una scienza e una morale di livello superiore. Questo vale per ciascun membro del partito e compatta il partito. Gramsci ne parla in questi termini: “Non può esistere associazione permanente e con capacità di sviluppo che non sia sostenuta da determinati principii etici, che l’associazione stessa pone ai suoi singoli componenti in vista della compattezza interna e dell’omogeneità necessarie per raggiungere il fine.”[75]

Questa è la riforma intellettuale e morale dei comunisti, che distingue i comunisti dal resto delle masse popolari. Ma la scienza che i comunisti elaborano e la morale che seguono in conformità a quanto scoprono riguarda loro non come setta di “eletti”, ma come pionieri, esploratori (questo stesso percorso di critica a quello che scrivono o pubblicano i dirigenti di RdC è una esplorazione). La scienza che elaborano è universale, e cioè vale per tutti. La morale che adottano è quella che potrà essere adottata da schiere sempre più ampie delle masse popolari, mano a mano che la assimileranno, e soprattutto dopo che la classe operaia avrà conquistato il potere, quando l’Italia sarà un nuovo paese socialista.

Il processo è indicato con nettezza dal (nuovo)PCI nel passo seguente, dove si dice che il partito deve essere simile

“al corpo ufficiali di un esercito, a un’associazione massonica del periodo di sviluppo della borghesia, a un ordine monastico di quelli che nei quattro secoli dopo l’anno mille cercarono di salvaguardare e rigenerare la chiesa cristiana.

 (…)

La differenza fondamentale del partito comunista rispetto al corpo ufficiali, alla setta massonica e agli ordini monastici è che la trasformazione della società che simile partito comunista promuove consiste nella promozione delle mille forme di organizzazione delle masse popolari e della loro attività (che include la guerra popolare rivoluzionaria che distrugge lo Stato borghese ed elimina la borghesia come classe). L’opera di simile partito comunista si conclude con la trasformazione della società intera in quell’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti annunciata nella conclusione del capitolo II del Manifesto del 1848. Con questa trasformazione si estingue non solo lo Stato come struttura distinta dal resto della società (struttura che ha il monopolio della violenza e della repressione), ma anche il partito comunista, perché la società intera è assurta al livello di comprensione e di azione a cui il partito comunista è arrivato (e deve arrivare) prima della massa della popolazione. Il partito comunista si distingue dalla massa per condurre la massa a trasformarsi fino ad assurgere al livello del partito comunista e rendere inutile il partito comunista stesso. In questo sta la sostanza prima della rivoluzione socialista in corso oggi e che giungerà fino all’instaurazione del socialismo e poi della transizione che passo dopo passo cancellerà i residui e le tracce della divisione dell’umanità in classi sociali di oppressi e di oppressori e sfocerà infine nel comunismo.

Tale partito comunista oggi deve distinguersi dal resto delle masse popolari e contemporaneamente unirsi strettamente con esse.”[76]

I dirigenti di RdC non sanno che questa è la dialettica tramite cui il partito contemporaneamente cresce e si estingue, ma l’eredità del primo movimento comunista è questa, è materia ben nota e diffusa tra i membri del vecchio PCI prima che iniziasse la sua corrosione da parte dei revisionisti moderni, e sintetizzata da Gramsci proprio in questa nota che stiamo leggendo.

Abbiamo lasciato sopra Gramsci che parlava dei principi tramite i quali i comunisti si uniscono in partito.

Non perciò questi principii sono sprovvisti di carattere universale. Così sarebbe se l’associazione avesse fine in se stessa, fosse cioè una setta o un’associazione a delinquere (in questo solo caso mi pare si possa dire che politica ed etica si confondono, appunto perché il «particolare» è elevato a «universale»). Ma un’associazione normale concepisce se stessa come aristocrazia, una élite, un’avanguardia, cioè concepisce se stessa come legata da milioni di fili a un dato raggruppamento sociale e per il suo tramite a tutta l’umanità. Pertanto questa associazione non si pone come un qualche cosa di definitivo e di irrigidito, ma come tendente ad allargarsi a tutto un raggruppamento sociale, che anch’esso è concepito come tendente a unificare tutta l’umanità. Tutti questi rapporti danno carattere tendenzialmente universale all’etica di gruppo che dev’essere concepita come capace di diventare norma di condotta di tutta l’umanità. La politica è concepita come un processo che sboccherà nella morale, cioè come tendente a sboccare in una forma di convivenza in cui politica e quindi morale saranno superate entrambe.[77]

Ai dubbi amletici dei dirigenti della  RdC, che finora non hanno saputo decidersi se costruire il partito o no (o restare organizzazione) Gramsci risponde in modo netto, dicendo che l’avanguardia non può essere una collettività indistinta:

Ma non può parlarsi di élite-aristocrazia-avanguardia come di una collettività indistinta e caotica; in cui, per grazia di un misterioso spirito santo o di altra misteriosa e metafisica deità ignota, cali la grazia dell’intelligenza, della capacità, dell’educazione, della preparazione tecnica ecc.; eppure questo modo di concepire è comune. Si riflette in piccolo ciò che avveniva su scala nazionale, quando lo Stato era concepito come qualcosa di astratto dalla collettività dei cittadini, come un padre eterno che avrebbe pensato a tutto, provveduto a tutto ecc.; da ciò l’assenza di una democrazia reale, di una reale volontà collettiva nazionale e quindi, in questa passività dei singoli, la necessità di un dispotismo più o meno larvato della burocrazia. La collettività deve essere intesa come prodotto di una elaborazione di volontà e pensiero collettivo raggiunto attraverso lo sforzo individuale concreto, e non per un processo fatale estraneo ai singoli: quindi obbligo della disciplina interiore e non solo di quella esterna e meccanica. Se ci devono essere polemiche e scissioni, non bisogna aver paura di affrontarle e superarle: esse sono inevitabili in questi processi di sviluppo ed evitarle significa solo rimandarle a quando saranno precisamente pericolose o addirittura catastrofiche, ecc.[78]

Questo modo di concepire la scienza come qualcosa che cala dall’alto sarà fatto propria dalla Scuola di Francoforte, secondo la quale il soggetto rivoluzionario non è più la classe operaia, ma “chi capisce, chi si rende conto dei mali del capitalismo” con il che si intendono in primis una fitta schiera di intellettuali che si dichiarano di sinistra, comunisti, o magari “maoisti”, e quindi tutti coloro che si ribellano allo stato di cose presente nelle forme più varie. Perché questi soggetti siano dotati di una scienza e di una morale che il resto delle masse popolari non avrebbe, resta un mistero.

Federico Martino: ”l’azione dolente e affettuosa della memoria”

C’è chi pensa che la condizione attuale del movimento comunista italiano è dovuta al tradimento dei revisionisti moderni, a partire da Togliatti. Questo pensa il Partito Comunista di Michele Rizzo. La redazione della rivista che stiamo studiando non concorda. Dice:

Se per funzione di massa dei comunisti intendiamo la loro capacità di esercitare un ruolo avanzato e d’indicazione di una prospettiva d’alternativa di sistema, non ci si può limitare alla denuncia del ‘tradimento’ per indicare la deriva culturale e politica di un patrimonio ricchissimo di lotte e d’intelligenza che i comunisti avevano costruito in questo paese. Bisogna, ad esempio, interrogarsi sui motivi profondi che hanno portato alla fine del partito di massa. Ci occorre un’operazione, quindi, che ricostruisca, attraverso l’intellettuale collettivo, quelle casematte che hanno permesso al nostro paese un lungo periodo di riscatto sociale e culturale che i comunisti hanno saputo interpretare per decenni.[79]

Allo scopo, la rivista porta il bilancio del movimento comunista italiano nel periodo in cui i revisionisti moderni ne hanno preso la testa e lo hanno corroso fino alla fine, da un articolo di Federico Martino,[80] L’azione dolente e affettuosa della memoria.[81] A giudicare dal titolo, probabilmente questo è uno dei  piagnistei che, secondo Hobsbawm, sono  eredità del secolo scorso, insieme alla delusione per una rivoluzione che non è scoppiata e all’incomprensione di cosa sta accadendo.

Martino, in ogni caso, non denuncia il tradimento come causa dello stato di cose presente perché secondo lui tradimento non c’è stato:

Comunque si voglia considerare la scelta togliattiana, bisogna registrarne alcuni risultati. Da una parte, permise ai comunisti di assumere e mantenere a lungo un ruolo egemone nella vita culturale e politica e, dall’altra, generò un robusto processo di crescita democratica all’interno di un Paese segnato dai limiti della unificazione nazionale, dalla tragica esperienza fascista e dal costante “sovversivismo” delle sue classi dirigenti. Per questo, sembrò possibile dare base concreta alla speranza di collocare il socialismo al termine di un percorso, lungo e difficile, ma ineludibile. Era una generosa scommessa che abbiamo perduto, ma che aveva profonde ragioni d’essere.[82]

I comunisti mantennero ruolo egemone grazie alla vittoria della Resistenza, non grazie alla svolta revisionista, come dice Martino. Lo conservarono poi per il ruolo di mediatori tra borghesia e classe operaia nel periodo del capitalismo dal volto umano, quando lo sviluppo economico, che durò dalla seconda metà degli anni Quaranta fino alla prima metà degli anni Settanta del secolo, consentiva alla borghesia stessa mantenere alto il tasso di profitto e anche di cedere risorse e diritti a fronte delle lotte della classe operaia e del resto delle masse popolari. Terminato il periodo di sviluppo economico, i revisionisti hanno iniziato a perdere colpi e oggi sono in via di estinzione. Questi i fatti, e le ragioni per cui “la scommessa è stata perduta”, cosa che Martino dice senza spiegare perché.

Altro salto che Marino vede è il mutamento storico di cui la nascita del gruppo del Manifesto, dice, fu espressione. Il Manifesto, dice,

si proponeva il superamento dell’ideologia e della pratica politica prodotte dalla II Internazionale, ma anche della III Internazionale e dello stalinismo. Al di là della bontà delle critiche e delle proposte avanzate da quello che restava, pur sempre, un elitario gruppo di intellettuali con posizioni spesso contraddittorie, il PCI avrebbe dovuto accettare la sfida e operare una coraggiosa riflessione a tutto campo, rinnovando i propri strumenti interpretativi e adeguando la strategia e la tattica ad una realtà radicalmente mutata rispetto a quella studiata da Togliatti nel 1948 e nel 1964. Invece, sulla scientificità (cioè sulla libertà del confronto) prevalse la rigida “disciplina di partito”, risultato funesto della trasformazione del centralismo democratico in centralismo burocratico. La spassionata discussione tra comunisti alla ricerca della via idonea a vincere una difficile sfida fu sostituita dall’applicazione di misure disciplinari che impoverì la cultura politica del Partito, eluse i temi che sarebbe stato necessario affrontare e consolidò il processo formativo di una sorta di ortodossia, che impedì il rilancio di una nuova progettualità “in avanti” e obbligò alla stasi o al ripiegamento su posizioni ormai superate. Avviato su questa strada, il gruppo dirigente del PCI non poteva trovare risposte adeguate alla complessità dei problemi: il potere finiva col confondersi col governo e la prospettiva del socialismo lasciava il campo alle preoccupazioni elettoralistiche.[83]

Il Manifesto, più che segnare un salto di qualità nel movimento storico, segnò l’inizio dell’era del piagnisteo. Inoltre spacciare il “libero confronto” come “scientificità” è quanto di più lontano dalla scienza di cui abbiamo bisogno, come già diceva Lenin nell’introduzione al Che fare? Che tutti possano dire tutto e per tutto il tempo che vogliono ha ben poco a che fare con la libertà di ricerca scientifica: lo può sperimentare chiunque partecipa a una iniziativa della sinistra borghese con quei relatori che parlano all’infinito, senza che qualcuno osi interromperli, o ad alcune assemblee di un centro autogestito, dove hanno lo stesso diritto di parlare quanto vogliono, quello che ha studiato e sperimentato la materia in discussione e il passante mezzo ubriaco con la birra in mano.

La libertà di ricerca è una cosa del tutto opposta a quella che pensa Martino: quanto alla scienza necessaria per costruire la rivoluzione, la borghesia ha tanta volontà di darle spazio quanta ne aveva l’Inquisizione rispetto a Galileo, ragione per cui l’ambito di ricerca veramente libero è solo quello della clandestinità, in cui opera il (nuovo) Partito comunista italiano.

Giorgio Gattei: ”Per una tipologia delle forme storiche del ”partito di classe””

Arriviamo all’articolo di  Gattei. Eravamo nel 2013 con Martino e gli altri, ora siamo con lui nel 1999, nel periodo in cui la RdC sta nascendo.

Gattei dice che il partito si struttura a seconda di come la borghesia muta il processo di produzione.  Sostiene, insieme ai dirigenti storici della RdC, che le trasformazioni che la borghesia impone nell’organizzazione del lavoro nelle unità produttive, nella distribuzione del lavoro tra le distinte unità produttive, nei contratti di lavoro decidono non solo delle forme di organizzazione delle masse (il ché è ovvio) ma anche delle forme di organizzazione dei comunisti e del ruolo che i comunisti devono svolgere verso le masse ai fini della rivoluzione socialista. Quindi lui e loro rimandano la definizione delle forme dell’organizzazione dei comunisti in un partito di quadri a futuri bilanci (futuri rispetto al 1999, anno in cui scrive), quelli di cui abbiamo visto, durante questa analisi critica della rivista, pochezza e inconsistenza.

Per il nuovo partito, dunque, non c’è che da aspettare che questo trasformazione avvenga. Si tratta di una posizione buona per chi sta seduto al ristorante aspettando che gli portino la pizza che ha ordinato, non per chi si definisce uomo di scienza, e sicuramente non per un intellettuale che si richiama al marxismo, dato che Marx dichiara nel 1847 che i “filosofi” veri non sono più quelli che descrivono la realtà, ma quelli che la trasformano.

Gattei comunque prende spunto da quanto affermato nel seminario dopo il quale nascerà la Rete dei Comunisti: il partito, dicono

non è solo la rappresentanza politica e sociale del proletariato, […] ma il punto di mediazione, di sintesi e di incontro tra il proletariato come classe cosciente ed una concezione razionale e scientifica della storia e dunque di una determinata concezione concreta dello sviluppo umano complessivo”. Conseguentemente “il partito è chiaramente un elemento secondario rispetto a questa stessa idea, che e rappresenta al contempo anche il fine”, e si mostra appena come “strumento” la cui fisionomia “è determinata dalle caratteristiche concrete, “attuali”, delle trasformazioni sociali possibili a loro volta legate allo sviluppo delle forze produttive, alla composizione sociale della classe, ecc.[84]

Si tratta di una visione del partito restrittiva: da un lato sta il proletariato, che sarebbe la materia, dall’altro l’idea, che sarebbe lo spirito, e il partito sarebbe in mezzo, cioè da nessuna parte, perché non c’è un terzo regno tra i due della materia e dello spirito. Oppure il partito è un mezzo, cioè uno strumento, il che può essere effettivamente, ma non può essere ridotto a questo. Il partito ha molti caratteri,[85] uno dei quali è effettivamente di essere strumento, e precisamente “strumento della dittatura della classe operaia: per instaurare la dittatura della classe operaia prima e poi per consolidarla ed ampliarla e fare in modo che sviluppi la transizione verso il comunismo.”[86]

Tra i vari caratteri del partito comunista, “stante le tradizioni del nostro paese, l’esperienza del primo Partito comunista italiano e la situazione in cui si forma il nuovo partito, dobbiamo dare risalto particolare al fatto che il partito è coscienza della classe operaia in lotta per il potere, interprete cosciente di un processo in larga misura spontaneo.”[87] Questo dice il (nuovo)PCI nel 2008 nel suo Manifesto Programma. Invitiamo compagni e compagne della RdC a prestare attenzione a questa conclusione. Serve a evitare il rischio di “lasciarsi cadere le braccia davanti alla complessità”, come dice Gerratana, e affidare la soluzione del problema alla borghesia, attendendo da lei che imponga nuovi mutamenti nel settore produttivo, il che rimanda all’attendismo di chi non voleva iniziare la guerra partigiana perché “bastava aspettare l’arrivo degli americani”.

Gattei, dunque, in tutto questo articolo si destreggia a dimostrare come tutti i partiti finora esistiti si sono strutturati in conformità ai mutamenti nella produzione introdotti dalla classe borghese, storpiandoli come faceva il brigante Procuste, che tirava i viandanti quando erano troppo corti e tagliava loro i piedi quando erano troppo lunghi per il suo letto. Questo è chiaramente tutto quello che può fare, perché per il futuro, come detto sopra, bisogna attendere. Ogni anticipazione non è ammessa: siccome il futuro sarà, dice, “come ben si comprende, solo senno di poi, ce ne guarderemo bene dal parlarne.”[88]

Data la legge scoperta da Marx per cui i filosofi non sono più quelli che descrivono il mondo ma quelli che lo trasformano, Gattei non è filosofo, quindi, perché si limita a descrivere fatti secondo una sua personale interpretazione e, come i figli dei fiori a Woodstock e all’isola di Wight, “non pensa al domani”.[89]

Gattei prosegue nella sua scorribanda trattando di temi politici ed economici, e quindi restando nei binari che non hanno portato il movimento comunista dei paesi imperialisti da nessuna parte, quello appunto delle rivendicazioni agitate entro le istituzioni borghesi e presentate dai sindacati ai padroni. Sul terreno ideologico, il terzo fronte della lotta di classe oltre a quello politico ed economico, non interviene. Si guarda bene dal farlo.

E’ disonesto, però, quando cerca di tagliare le gambe a Engels per farlo stare nel letto corto. Parla della  “forma tutto sommato “parlamentare” del partito “di classe” dell’ultimo Engels (ma pure di Kautsky e non solo di Bernstein)”[90] e quindi  spinge Engels nella schiera dei revisionisti, dove magari sarebbe finito pure Marx, se non fosse, fortunatamente, morto prima.

Il (nuovo)PCI scrive al riguardo che mettere Engels nella schiera dei revisionisti è fargli una vera violenza, perché proprio lui

pur non avendo visto tutto quello che è successo nel secolo XX, aveva messo in guardia dal farsi illusioni, aveva avvertito che la progressione elettorale del partito socialdemocratico tedesco, segno del progresso del socialismo nella classe operaia tedesca e della sua crescente egemonia sulle masse popolari, non sarebbe continuata all’infinito, aveva avvertito che la borghesia avrebbe “sovvertito la sua stessa legalità” quando questa l’avrebbe messa in difficoltà. Ma il problema principale non è “quello che Engels ha veramente detto”. Il problema principale è che i fatti, la realtà, gli avvenimenti hanno ripetutamente dimostrato che quelle forze accumulate di cui parlano i revisionisti si sono sciolte come neve al sole in ogni scontro acuto e crisi acuta della società che hanno posto all’ordine del giorno la conquista del potere, in ogni caso in cui erano dirette dai revisionisti ed erano le sole o le principali “forze rivoluzionarie” che la classe operaia aveva accumulato (basti richiamare l’Italia del 1919-1920, l’Indonesia del 1966, il Cile del 1973). Esse hanno potuto servire allo scopo solo quando erano le propaggini legali, il braccio legale di un partito e di una classe operaia che veniva altrimenti accumulando le vere e decisive forze rivoluzionarie (basti citare la Russia del 1917).[91]

Altra storpiatura del Gattei è la sottolineatura di quello che dicono Marx ed Engels nel loro Manifesto del partito comunista, sul fatto che i comunisti sono “solo la parte della classe “che sempre spinge avanti”). [92] Marx ed Engels veramente dicono che i comunisti “sono la parte più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, quella che sempre spinge avanti; dal punto di vista della teoria, essi hanno un vantaggio sulla restante massa del proletariato per il fatto che conoscono le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario.” Questo è ben diverso dal dire che sono una sparuta minoranza che spinge “solo” in avanti, come sibila Gattei, il quale forse non ha mai spinto avanti niente, altrimenti comprenderebbe cosa significa e non userebbe l’avverbio “solo”, come se si trattasse di spingere via l’aria da una siringa. Comunque di sicuro nel 1999 Gattei non spinge avanti cosa alcuna, per cui così come sopra abbiamo scoperto che non è filosofo, qui scopriamo che non è comunista, dato che i comunisti sono quelli che “spingono avanti”. Cosa ci faccia in una rete di comunisti non si sa.

In realtà a chi vuole diventare comunista e a noi che abbiamo avuto costanza di seguire questo percorso fino a qui, Gattei vuole infondere disperazione. Lo svela a p. 71 della rivista: “la forma del partito “egemonico” di massa (ma pure quella del partito “leninista”, “luxemburghista” o “marxista”) ben difficilmente può continuare ad essere in grado di rappresentare politicamente l’unità della forza-lavoro. Ce ne potrà mai essere un’altra adatta ad una situazione così disperante? Naturalmente su questo non possiamo dire nulla; sarà la storia a rivelarcelo.”

Questi di Gattei sono miasmi da Repubblica Pontificia, da cui dobbiamo imparare a difenderci: l’attesa della rivelazione storica è l’attesa della rivelazione divina di altri tempi, tradotta in una lingua accettabile a masse popolari che sanno bene, ormai, che dio non esiste. La distanza dalla concezione comunista del mondo non potrebbe essere maggiore: Gattei scorre in due secoli interi e non si accorge, o finge di non accorgersi, del passaggio del capitalismo nella sua fase imperialista, con il che si pongono le condizioni per una svolta epocale nella storia dell’umanità, cioè la fine della divisione della società in classi, che anzi non solo diventa possibile, ma diventa necessaria.

Anche in Gattei, però, c’è un alito di vita, prima della fine. Dice: “Indubbiamente è necessario interrogarsi attorno alla forma organizzativa che dovrà possedere il prossimo “partito che verrà”, non si dovrebbe però trascurare quale dovrà essere anche la “prospettiva che verrà”. Perché se questa prospettiva non ci fosse, oltre alla difesa tradunionistica della classe “in sè”, in qualche maniera ricomposta, a che pro perdere tempo ad organizzarla in classe “per sé”?” Qui c’è una sarabanda di quello che “deve essere” coniugato al futuro e al condizionale, ma al fondo c’è qualcosa di vero, cioè di reale, nel senso che questa prospettiva non solo “deve essere” ma già c’è, è in costruzione, e sono i lavori in corso per la creazione delle condizioni per il Governo di Blocco Popolare, ed è la costruzione della rivoluzione socialista degli organismi uniti nella carovana del (nuovo) PCI.

Gattei, comunque, principalmente fa danno, e lo fa spacciandosi per comunista. Nei confronti suoi e dei suoi simili dobbiamo  essere severi,[93] anche se non abbiamo da portargli astio. È il cielo che lo manda. Infatti “a chi vuole affidare una funzione importante, prima, sicuramente, il cielo trasmette amarezza nel cuore e nella volontà”,[94] e questo è quanto soprattutto Gattei si ingegna a fare. Ma “un materialista rigoroso non ha nulla da temere. La strada è tortuosa, il futuro è brillante.”[95]

Chiudiamo i conti con il Gattei che si vanta di non saper prevedere indicando l’abisso tra questo e la capacità di previsione che la concezione comunista del mondo dà, che i comunisti devono avere, e di cui parlano il (nuovo) PCI e Antonio Gramsci

Il (nuovo)PCI scrive:

Gli schieramenti politici, le forze politiche, i partiti, le frazioni e i personaggi cambiano più rapidamente ma secondo leggi: le strade che ognuno di essi può seguire (tra cui può scegliere) sono in ogni momento un numero limitato e noi comunisti le possiamo conoscere. Quale ognuno sceglierà, dipende da condizioni interne e dalle condizioni esterne: tra queste ci siamo anche noi con la nostra più avanzata comprensione delle condizioni, delle forme e dei risultati della lotta di classe e la nostra scienza delle attività con cui gli uomini fanno la loro storia. Che la nostra comprensione sia davvero più avanzata lo verifichiamo e confermiamo appunto nel successo della nostra azione: in quello che facciamo noi e in quello che induciamo gli altri a fare. Non a caso i gruppi e i personaggi che non accettano la concezione comunista del mondo sono invece nel migliore dei casi per la strategia-processo: “impossibile prevedere cosa succederà, bisogna cogliere le opportunità che la situazione via via offre”, questo è il massimo della loro saggezza.[96]

Ad esempio di come la concezione comunista del mondo consente di “prevedere” il futuro che costruiremo e di elaborare piani per fare la rivoluzione, rimandiamo allo scritto di Mao Analisi delle classi della società cinese, 1° febbraio 1926, in Opere di Mao Tse-tung vol. 2 Ed. Rapporti Sociali (reperibile anche in www.nuovopci.it).”[97]

Gramsci spiega il nesso tra il “prevedere” una cosa che accadrà e il volere che tale cosa accada. Ad esempio, quando noi diciamo che vogliamo fare dell’Italia un nuovo paese socialista, molti ci chiedono se riteniamo che sia una cosa obiettiva, cioè se veramente questa è una cosa possibile. Qui e altrove, a domande come questa Gramsci risponderebbe (e noi rispondiamo) che questa cosa è obiettiva per quanto è un obiettivo comune che insieme ci organizziamo per realizzare (cioè non casca dal cielo, è possibile se noi la rendiamo tale).

Il concetto di “scienza”. La posizione del problema come una ricerca di leggi, di linee costanti, regolari, uniformi è legata a una esigenza, concepita in modo un po’ puerile e ingenuo, di risolvere perentoriamente il problema pratico della prevedibilità degli accadimenti storici. Poiché “pare”, per uno strano capovolgimento delle prospettive, che le scienze naturali diano la capacità di prevedere l’evoluzione dei processi naturali, la metodologia storica è stata concepita “scientifica” solo se e in quanto abilita astrattamente a “prevedere” l’avvenire della società.[98] Quindi la ricerca delle cause essenziali, anzi della “causa prima”, della “causa delle cause”. Ma le “Tesi su Feuerbach” avevano già criticato anticipatamente questa concezione semplicistica.[99] In realtà si può prevedere “scientificamente” solo la lotta, ma non i momenti concreti di essa, che non possono non essere risultati di forze contrastanti in continuo movimento, non riducibili mai a quantità fisse, perché in esse la quantità diventa continuamente qualità. Realmente si “prevede” nella misura in cui si opera, in cui si applica uno sforzo volontario e quindi si contribuisce concretamente a creare il risultato “preveduto”.[100] La previsione si rivela quindi non come un atto scientifico di conoscenza, ma come l’espressione astratta dello sforzo che si fa, il modo pratico di creare una volontà collettiva.

E come potrebbe la previsione essere un atto di conoscenza? Si conosce ciò che è stato o è, non ciò che sarà, che è un “non esistente” e quindi inconoscibile per definizione. Il prevedere è quindi solo un atto pratico che non può, in quanto non sia una futilità o un perditempo, avere altra spiegazione che quella su esposta. È necessario impostare esattamente il problema della prevedibilità degli accadimenti storici per essere in grado di criticare esaurientemente la concezione del causalismo meccanico, per svuotarla di ogni prestigio scientifico e ridurla a puro mito che fu forse utile nel passato, in un periodo arretrato di sviluppo di certi gruppi sociali subalterni (…).”[101]

“Machiavelli. Sul concetto di previsione o prospettiva. È certo che prevedere significa solo veder bene il presente e il passato in quanto movimento: veder bene, cioè identificare con esattezza gli elementi fondamentali e permanenti del processo. Ma è assurdo pensare a una previsione puramente “oggettiva”. Chi fa la previsione in realtà ha un “programma” da far trionfare e la previsione è appunto un elemento di tale trionfo.[102] Ciò non significa che la previsione debba sempre essere arbitraria e gratuita [o puramente tendenziosa]. Si può anzi dire che solo nella misura in cui l’aspetto oggettivo della previsione è connesso con un programma esso aspetto acquista oggettività:

  • perché solo la passione aguzza l’intelletto e coopera a rendere più chiara l’intuizione;
  • perché essendo la realtà il risultato di una applicazione della volontà umana alla società delle cose (del macchinista alla macchina), prescindere da ogni elemento volontario o calcolare solo l’intervento delle altrui volontà come elemento oggettivo del gioco generale mutila la realtà stessa.[103]

Solo chi fortemente vuole identifica gli elementi necessari alla realizzazione della sua volontà. Perciò ritenere che una determinata concezione del mondo e della vita abbia in se stessa una superiorità [di capacità di previsione] è un errore di grossolana fatuità e superficialità. Certo una concezione del mondo è implicita in ogni previsione e pertanto che essa sia una sconnessione di atti arbitrari del pensiero o una rigorosa e coerente visione non è senza importanza, ma l’importanza appunto l’acquista nel cervello vivente di chi fa la previsione e la vivifica con la sua forte volontà. Ciò si vede dalle previsioni fatte dai così detti “spassionati”: esse abbondano di oziosità, di minuzie sottili, di eleganze congetturali.[104] Solo l’esistenza nel “previsore“ di un programma da realizzare fa sì che egli si attenga all’essenziale, a quegli elementi che essendo “organizzabili”, suscettibili di essere diretti o deviati, in realtà sono essi soli prevedibili. Ciò va contro il comune modo di considerare la questione. Si pensa generalmente che ogni atto di previsione presuppone la determinazione di leggi di regolarità del tipo di quelle delle scienze naturali. Ma siccome queste leggi non esistono nel senso assoluto [o meccanico] che si suppone, non si tiene conto delle altrui volontà e non si “prevede” la loro applicazione. Pertanto si costruisce su un ipotesi arbitraria e non sulla realtà.” [105].

La filosofia, secondo Garroni e Casadio

Siamo al punto di origine della RdC, alle sorgenti. Qui c’è lo scritto Partito e Teoria curato da Stefano Garroni e Mauro Casadio[106] e pubblicato nei Quaderni di Contropiano del 1998, di cui abbiamo parlato all’inizio.

 Garroni e Casadio introducono dicendo che bisogna fare un bilancio del movimento comunista, cioè rivisitarne i “nodi strategici”, che per fare questo la questione del partito “non secondaria”,[107] (e quindi è primaria), e soprattutto che “se si vuole fare una critica vera della storia del movimento comunista, bisogna partire proprio dalla critica ai partiti e al pensiero dei comunisti dell’Occidente.”[108]

L’inizio è buono, anche se usano la terminologia della concezione borghese del mondo: non dicono “comunisti dei paesi imperialisti”, ma “comunisti dell’Occidente”[109]: bisogna quindi partire dalla critica ai partiti e al pensiero dei comunisti dei paesi imperialisti.

La questione è trattata nell’ultimo numero de  La Voce del (nuovo)PCI:

Negli anni 1921 e 1922 Lenin mise chiaramente in luce in numerose circostanze (es. Lettera ai comunisti tedeschi (agosto 1921), Note di un pubblicista (febbraio 1922), Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione proletaria mondiale (novembre 1922)) che i partiti comunisti europei, formati per iniziativa dell’Internazionale Comunista da frazioni dei vecchi partiti socialisti della II Internazionale, erano “partiti europei di vecchio tipo, parlamentari, riformisti di fatto, con solo una spruzzatina di colore rivoluzionario” e che avrebbero dovuto trasformarsi profondamente per diventare capaci di fare la rivoluzione socialista. L’“incapacità rivoluzionaria” dimostrata dai vecchi partiti socialisti di fronte alla prima guerra mondiale non era questione di persone né riguardava solo la destra del partito. Riguardava anche la sinistra: esempi tipici Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht in Germania, Giacinto Menotti Serrati in Italia. Era una questione che riguardava la concezione del partito e della rivoluzione socialista che era alla base di quei partiti. Alla fine del 1922 Lenin arrivò a scrivere: “Forse i fascisti in Italia ci renderanno grandi servizi mostrando agli italiani che non sono ancora abbastanza istruiti, che il loro paese non è ancora abbastanza garantito contro il terrorismo reazionario. Forse questo sarà molto utile. … I compagni [europei] devono studiare per comprendere veramente l’organizzazione, la struttura, il metodo e il contenuto del lavoro rivoluzionario”.[110]

Garroni e Casadio però non intendono questo, e purtroppo divergono subito dalla strada che porta alla soluzione del problema.

Innanzitutto dichiarano che non intendono elaborare una teoria nuova sulla base della quale dare fondazione a un nuovo partito comunista, Dicono che questo non è giusto e che forse non è nemmeno possibile. In realtà questa è la prima cosa giusta da fare, ed è del tutto possibile, e il fatto che Garroni e Casadio dichiarino il contrario in un opuscolo che si chiama Partito e teoria è un modo di ingannare quelli che, incuriositi dal titolo dello scritto e soprattutto consapevoli che questa è la materia cruciale, lo comprano.

Dicono che la loro è dichiarazione di modestia, ma provate a immaginare voi a recarvi da un professionista qualsiasi, un meccanico, ad esempio, perché avete la macchina che inspiegabilmente si è fermata, e lui vi risponde che non intende ripararla, perché non è giusto, e forse nemmeno si può fare, oppure addirittura che una macchina nuova non si può avere. Direste che è “modesto”? No. Voi direste che è uno che si spaccia per meccanico.

Può essere che costui  si consideri un meccanico con i fiocchi, e la sua diagnosi è che l’auto è da buttare. Può essere che Garroni e Casadio la pensino così, dato che, secondo loro, “il modello Bolscevico, il centralismo democratico, la funzione storica del partito” non sono stati capaci di reggere a fronte del nemico di classe (la “classe avversa”),[111] non hanno funzionato, e quindi non servono.

Sbagliano, però, quando iniziano a parlare di una (possibile o impossibile) “elaborazione di una teoria nuova” perché non hanno alle spalle alcuna “teoria vecchia” su come si costruisce un partito comunista nei paesi imperialisti. Chi lo ha fatto ha agito imitando modelli altrui, e in particolare il modello adottato in Russia, cosa che Lenin e Stalin raccomandarono di non fare, perché la rivoluzione non si copia né s’incolla. Lenin e Mao hanno portato contributi universali al pensiero comunista, che valgono in ogni paese, inclusi quelli imperialisti, ma ogni rivoluzione richiede che si uniscano i principi universali a quelli particolari del paese in cui si è, cosa che, come detto sopra, non fece alcuno, se escludiamo Gramsci, che però fu messo dai fascisti in condizioni di non operare.

Continuando a leggere, però, vediamo però che Garroni e Casadio tirano fuori gli attrezzi e dicono che forse il partito si può fare. Gli attrezzi sono tre, e sono quelli che verranno messi in azione in questo seminario:

  1. l’analisi in campo filosofico,
  2. l’analisi che vuole porre in relazione filosofia e politica,
  3. e l’analisi del rapporto del partito con le masse.

Manca l’analisi in campo economico, purtroppo, cioè l’analisi delle basi economiche della società borghese. Abbiamo visto come la mancanza di questa branca della scienza genera le acrobazie di Hobsbawm per spiegare il secolo ventesimo, e i cerchi sulla sabbia di Gattei, che di secoli ne vuole spiegare due. Senza attenzione alle basi economiche della società borghese l’esito è molto dubbio, e infatti Garroni e Casadio non credono che la loro impresa avrà successo. Dicono: “Indubbiamente le nostre elaborazioni non riusciranno ad esplicitare in modo soddisfacente le analisi da fare, i loro presupposti politici e sociali, il contesto storico del processo di costruzione dei partiti comunisti ma non abbiamo nessuna ombra di dubbio che su questa questione bisogna tornare  e ritornare con l’analisi e la discussione per capire su quali basi tentare di ricostruire oggi il partito dei comunisti”.[112] Con queste parole, si fissa l’azione della RdC per gli anni che vanno dal 1998 al 2016: tornare e ritornare, discutere per capire, tentare. Indubbiamente e senza ombra di dubbio prevedono per gli anni a venire di restare nel dubbio.

Pregio di questa introduzione è che si riconosce al POSDR guidato da Lenin prima, e al Partito comunista cinese guidato da Mao poi, di aver fatto quello che i comunisti dei paesi imperialisti (tra i quali Garroni e Casadio devono includere se stessi) non hanno saputo fare. Infatti la carovana del (nuovo)PCI ha studiato l’elaborazione storica del movimento comunista e ha riconosciuto che il maoismo segue al leninismo come tappa superiore del pensiero comunista.[113] In effetti leninismo e maoismo sono sintesi di esperienze di lotta di classe in cui i “tre attrezzi” di cui parlo sopra sono stati messi all’opera, hanno portato al successo, e quindi dal modo in cui sono stati usati c’è da imparare. Lenin e Mao si sono occupati di filosofia, del rapporto tra filosofia e politica, e del rapporto del partito con le masse, infatti, conducendo una lotta senza tregua e con massimo rigore per l’affermazione del materialismo contro l’idealismo. Questo è il loro punto di partenza, al quale Garroni e Casadio non dedicano attenzione, convinti come sono che la questione della differenza tra materialismo e idealismo non è così rilevante, che sulla questione si è fatta confusione, ecc.[114]

Garroni e Casadio segnalano il nesso che c’è tra filosofia, politica ed economia, e che i tre campi nel pensiero di Marx sono connessi. Il (nuovo) PCI, al riguardo, è più preciso: “K. Marx (1818-1883) e F. Engels (1820-1895) hanno raccolto ed elaborato l’esperienza delle lotte della classe operaia. A questo fine hanno usato i più avanzati strumenti di conoscenza accumulati dall’umanità fino ai loro tempi: la filosofia dialettica di G. W. F. Hegel (1770-1831),
l’economia politica di A. Smith (1723-1790) e di D. Ricardo (1778- 1823),
il materialismo degli illuministi francesi del secolo XVIII”.[115]

Marx ed Engels quindi usano anche la filosofia per analizzare l’esperienza della lotta di classe, da cui partono. Ottengono con ciò risultati straordinari, primo fra i quali dare l’avvio a una nuova scienza, che noi qui chiamiamo concezione comunista del mondo o scienza delle attività con cui gli uomini fanno la loro storia. Un risultato interessante è anche questo: per comprendere le basi economiche della società borghese e gli sviluppi delle contraddizioni tra le classi usano anche la dialettica del filosofo Hegel che, a detta di molti, è uno dei più incomprensibili della storia della filosofia, e quello che scrivono, a differenza di quello che scrive lui, è semplice, alla portata, potenzialmente, di tutti, e all’epoca alla portata di molti appartenenti alla classe operaia.

Marx tratta della questione in una lettera a Ludwig Kugelmann, pubblicata nell’ultimo numero della rivista del (nuovo)PCI, preziosissima per noi, per i compagni e compagne della RdC e per tutti:

…l’economista volgare è fiero di attenersi all’apparenza e di sostenere che è impossibile andare oltre di essa. Ma a che serve una scienza se è impossibile andare oltre ciò che immediatamente appare? Qui però la faccenda ha ancora un altro sfondo. Una volta che si è mostrato il nesso intrinseco che esiste tra le cose, nella testa degli uomini crolla ogni fede nella necessità ed eternità delle condizioni esistenti, prima ancora che esse siano superate nella pratica. Qui vi è dunque l’assoluto interesse delle classi dominanti a perpetuare la confusione che deriva dalla mancanza di pensiero. E a quale altro scopo sarebbero pagati i sicofanti cialtroni che non hanno altra carta scientifica da giocare se non l’affermazione che nel campo dell’economia politica comunque è impossibile pensare? Comunque di questo abbiamo già parlato fin troppo. Comunque quanto questi pretacci della borghesia sono corrotti lo dimostra il fatto che operai e persino fabbricanti e commercianti hanno compreso il mio libro e ne sono venuti a capo, mentre queste teste d’uovo (!) si lamentano che io pretendo dalla loro intelligenza cose assai sconvenienti.”[116]

Con quello che scrive Marx noi ci riallacciamo a quanto scoperto finora:

  1. Non bisogna aspettare che una cosa appaia per averne conoscenza, come fanno gli economisti volgari, o come fa Gattei che aspetta che la borghesia gli ari il campo per seminare il partito.
  2. I comunisti devono insegnare alle masse popolari a pensare, e non seminare dubbi, incoerenze, esitazioni, parlando in una lingua incomprensibile ai più, in un gergo politico o filosofico per addetti ai lavori.
  3. La scienza comunista è comprensibile a tutti.

Garroni e Casadio non parlano in modo comprensibile a tutti e non solo perché usano un gergo particolare, ma perché sono confusi pure loro. La realtà è quella che è, e non descriverla come tale comporta parecchie acrobazie.

Il problema di Garroni e Casadio è che credono che il pensiero di Marx ed Engels sia il seguito di quello di Hegel, mentre è, invece, coscienza della classe operaia, coscienza della realtà e di se stessa, che usa anche categorie della dialettica di Hegel per imparare a pensarsi e a pensare. Ha idee chiare, prima fra le quali che la società è divisa in classi, idea che Hegel non aveva o, per quanto l’aveva, non era così chiara come è in Marx ed Engels o se per caso ne aveva sentore riteneva non fosse il caso di parlarne, per non sembrare sovversivo e perdere la cattedra. Da qui la sua incomprensibilità. La classe operaia invece non ha da perdere che le proprie catene, e quindi guadagna progressivamente trasparenza senza che alcuna coltre possa oscurarla.

Garroni e Casadio, invece di partire da questo, dalla divisione in classi, tornano a Hegel, pensandolo magari superiore a Marx ed Engels, che sarebbero suoi discepoli che applicano le sue scoperte alle scienze economiche e sociali. Garroni e Casadio, quindi, là dove Marx ed Engels parlano di classi, parlano dell’uomo, cioè di qualcosa che non esiste, come non esiste lo Spirito Assoluto di Hegel. Parlando di qualcosa che non esiste, si impantanano immediatamente e non si capisce che dicono, a meno che non si faccia uno sforzo parecchio duro, che è quello che facciamo qui.

L’uomo non esiste se non come generalizzazione di esseri umani particolari che si distinguono tra loro in molti modi, il principale dei quali è la distinzione di classe e quello immediatamente successivo è la distinzione di genere: ci sono cioè schiavi, servi, operai e altri proletari da un lato e imperatori, papi, re, padroni dall’altro, e quindi ci sono donne da un lato e uomini dall’altro. L’”uomo in generale” di cui parlano Garroni a Casadio  è da farsi, non è qualcosa di fatto. Se ne potrà parlare quando avremo realizzato il comunismo. Parlarne prima, come se fosse una cosa al di sopra delle classi, significa fare e diffondere confusione, che è ciò a cui ci troviamo davanti subito in questo scritto.

Significa anche, tra l’altro, parlare la lingua di Bergoglio e Ratzinger, che vanno ad Auschwitz a chiedere perdono “per il male che l’uomo fa” e, guarda caso, finiscono trovare la radice di questo male nel fatto che si è voluto sostituire la fede cristiana con “la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo”, come dice l’ex papa tedesco. È vero che Ratzinger è in visita nel lager e accusa i nazisti di tale cosa, ma sappiamo che in realtà  sta parlando dei comunisti, e lo fa nel modo doppio tipico della Corte Pontificia, con “lingua biforcuta”. Infatti sono i comunisti che hanno questa idea, che gli esseri umani bastano a se stessi e sono in grado di conoscere la realtà nel suo insieme e in ogni dettaglio.[117] Ratzinger, che pure da giovane fu nazista, torna sul luogo del delitto per raccontarci che, se vogliamo sapere la verità, se vogliamo avere conoscenza del mondo e di noi stessi che lo abitiamo, dobbiamo chiedere al suo dio e a lui che lo rappresenta in terra. Vuole negarci il diritto a conoscere, come prima di lui Leone XIII dichiarava blasfemia l’alfabetizzazione delle masse contadine, come alle origini del loro credo sta la proibizione agli esseri umani di alimentarsi all’albero della conoscenza. Il fatto che Dio proibisca la mela a Eva e Adamo è giustificazione in campo ideologico della divisione in classi, di cui una è condannata a lavorare mentre l’altra riserva a sé scienze, arti e tutto ciò che rende l’essere umano differente dalle altre specie animali. È questa divisione in classi, che Ratzinger e Bergoglio difendono con le unghie, con i denti e con ogni artificio, la ragione del male, il motivo per cui la borghesia imperialista, nella prima metà del secolo scorso, decise di eliminare milioni di persone perché per lei erano “capitale in esubero”, troppi rispetto a quelli che le servivano per trarre profitto dalla loro attività, e perciò usò i campi di sterminio da un lato, e le bombe atomiche dall’altro.

Garroni e Casadio scrivono con un certo scandalo “del fatto che l’orizzonte comune tra gli uomini deve esser così circoscritto da escludere la finalizzazione dei mezzi e degli strumenti …[che questa è] la sanzione del privilegio di alcuni rispetto a fini e scopi… che comuni sono i mezzi, particolari  i fini.”[118]

C’è poco da scandalizzarsi: esistono le classi, anche se Togliatti e Kruscev dicono di no,  perché secondo loro ormai il comunismo o è realizzato o è dietro l’angolo. Esistono da millenni, da millenni il privilegio di alcuni è sanzionato, da millenni la ricchezza prodotta dai più sia consumata dalla minoranza che domina. Non c’è “orizzonte comune” tra gli uomini se non quello della classe operaia che lotta per il potere.

Quanto alla contraddizione tra mezzi “comuni” e fini “particolari”, è un modo contorto per parlare della contraddizione  tra il fatto che le forze produttive hanno sempre più carattere collettivo e sono sempre più proprietà privata di singoli individui, che le usano a loro profitto e arbitrio. Succede quindi che, ad esempio, che abbiamo la possibilità di produrre qualcosa capace di soddisfare le esigenze di una intera comunità ma non lo produciamo, perché i padroni non sono interessati a farlo, non ne traggono profitto, e la comunità è condannata a estinguersi. La contraddizione diventa a un certo punto insostenibile, come scrive Marx:

Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali … A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti … dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale … e non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione.»[119]

Tutto questo è relativamente semplice da spiegare, e il motivo per cui Garroni e Casadio fanno la cosa tanto complicata è che la concezione che hanno e che vogliono trasmettere è quella della Scuola di Francoforte, secondo la quale la contraddizione di cui parliamo e di cui parla Marx non esiste.

Eppure la contraddizione è esposta abbastanza chiaramente nel Manifesto Politico della RdC del 2011:

Sullo sfondo di questa regressione generalizzata, di questa autentica crisi di civiltà, traspare ora con nettezza il lavorìo della contraddizione fondamentale tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione. Se la vogliamo dire in parole semplici, la potenza immane del sistema industriale esistente ha preso a girare a vuoto nel momento in cui lo scopo del produrre – il profitto – è diventato troppo «miserabile» per andare oltre. Questa potenza permetterebbe di sfamare fino alla sazietà l’umanità intera. Permetterebbe di ridurre il tempo di lavoro individuale a una frazione accettabile delle 24 ore, liberando tempo di vita per ciascuno. Ma un impiego socialmente utile di questa potenza implica un rovesciamento completo delle finalità della produzione, che parte dal chi decide cosa produrre, ridisegna il come farlo e come si ridistribuisce la ricchezza prodotta.[120]

Secondo la concezione della Scuola di Francoforte la classe operaia, anziché essere oggettivamente spinta a porsi come soggetto che abolisce la contraddizione, che occupa le fabbriche, che esce dalle fabbriche per estendere il nuovo potere, secondo il quale la ricchezza prodotta da tutti è di tutti, è istupidita dai capitalisti, è ridotta a essere strumento nelle loro mani, e non ha coscienza propria.

Che non l’abbia è relativamente vero, nel senso che se la deve fare e se la fa precisamente costituendosi in partito, ma è ovvio che non potrà certo farsela imparando da linguaggi oscuri come quelli di Garroni e Casadio, né in una organizzazione in cui circolano idee secondo le quali gli operai ormai sono ridotti a zombies dei capitalisti.

L’idea che gli operai e i proletari in genere siano ormai asserviti alla classe dominante, oltre che, tra gli altri, da P. P. Pasolini (Bologna, 1922 – Roma, 1975), fu soprattutto pubblicizzata da Herbert Marcuse (Berlino, 1898 – Starnberg, 1979), intellettuale della Scuola di Francoforte,  nel suo libro L’uomo a un dimensione (1964).[121] Marcuse intendeva dire che questo “uomo” era ormai ridotto a pensare e volere quello che la classe dominante ordinava. Nel 2016 i dirigenti della RdC conservano questa opinione, e la descrivono come segue:

Dobbiamo comprendere se nella produzione socializzata, sempre più socializzata, il proletariato può trovare una sua base materiale indipendente; per questo c’è bisogno di individuare il percorso teorico da seguire. Il primo dato è che il Mercato, soprattutto nella fase di autonomizzazione del capitale finanziario, assume oggi un valore generale, oggettivo di riferimento; il secondo è che il proletariato è parte interna, integrata del sistema di produzione e riproduzione, e non ha spazi di esistenza indipendenti nella produzione capitalistica generale. Inoltre questa “parte interna” della produzione è una parte penalizzata dallo sviluppo capitalista e sottoposta a pressioni di ogni tipo. Possiamo dire che questo genera contraddizioni concrete, anche fortissime in alcuni momenti storici, però non fornisce quella base indipendente che possa essere il punto di partenza per una propria visione indipendente del mondo.[122] Il proletariato è tutto interno al sistema di produzione capitalistico sia sul piano sociale che su quello tecnico. La “sussunzione”, cioè la subordinazione, del lavoro al capitale diviene da formale a reale dentro il processo storico. Per un approfondimento su questo punto rinviamo al nostro testo pubblicato nel 2011 titolato “Coscienza di classe e Organizzazione”.[123]

Aggiungono che “l’operaio professionale della fine dell’800, che ha un ruolo determinante nella produzione e che “usa” le macchine, viene soppiantato dall’operaio di linea che è meno qualificato e che viene “usato” dalle macchine.”[124] L’operaio viene usato dalle macchine già con il passaggio da manifattura a industria, e quindi alla fine del Settecento, non alla fine dell’Ottocento. Marx descrive il processo in modo preciso. Quanto all’introduzione della catena di montaggio, che è ciò a cui si riferisce l’autore della Relazione Base del seminario di giugno, Gramsci trova che non sia una condizione che toglie all’operaio libertà di pensare, ma anzi il contrario: senza dover porre tutta la sua attenzione all’oggetto del lavoro, come fa l’artigiano, l’operaio opera in modo meccanico e la sua mente è libera di pensare altro. Dice che

adattarsi a questa “meccanizzazione” “non ammazza spiritualmente l‘uomo. Quando il processo di adattamento è avvenuto, si verifica in realtà  che il cervello dell‘operaio, invece di mummificarsi, ha raggiunto uno stato di completa libertà. Si è completamente meccanizzato solo il gesto fisico; la memoria del mestiere, ridotto a gesti semplici ripetuti con ritmo intenso, si è “annidata” nei fasci muscolari e nervosi che ha lasciato il cervello libero e sgombro per altre occupazioni. Come si cammina senza bisogno di riflettere a tutti i movimenti necessari per muovere sincronicamente tutte le parti del corpo, in quel determinato modo che è necessario per camminare, così è avvenuto e continuerà  ad avvenire nell‘industria per i gesti fondamentali del mestiere; si cammina automaticamente e nello stesso tempo si pensa a tutto ciò che si vuole. Gli industriali americani hanno capito benissimo questa dialettica insita nei nuovi metodi industriali. Essi hanno capito che “gorilla ammaestrato” è una frase, che l‘operaio rimane “purtroppo” uomo e persino che egli, durante il lavoro, pensa di più o per lo meno ha molto maggiori possibilità  di pensare, almeno quando ha superato la crisi di adattamento e non è stato eliminato: e non solo pensa, ma il fatto che non ha soddisfazioni immediate dal lavoro, e che comprende che lo si vuol ridurre a un gorilla ammaestrato, lo può portare a un corso di pensieri poco conformisti.”[125]

Il “pensiero poco conformista” di oggi è sapere che non sono i padroni a essere forti, ma sono gli operai e tutte le masse popolari che devono fare valere la propria forza.[126]

Torniamo a Garroni e Casadio. Dicono che quello che sta accadendo nell’epoca in cui scrivono condanna “l’uomo ad una insuperabile scissione: fra la “necessità” dei mezzi e l”arbitrio” degli scopi con la conseguenza di gettarlo in una condizione di radicale estraneità ed incertezza”.[127] Quale concetto di “uomo” è capace di tenere insieme Marchionne, manager della FCA, e la donna incinta che emigra dalla Libia e che tra poco annegherà nel Mediterraneo? Chi dei due si trova in condizione “di radicale estraneità ed incertezza”? L’unica “scissione” di cui dobbiamo parlare è la divisione in classi, che non è una novità comparsa sulla penisola italiana negli anni Novanta dello scorso secolo, e questa “scissione”, quando avremo scienza e cuore per vederla quale è, tanto più assurda e terribile quanto più inutile e prossima alla fine, sapremo anche come superarla.

Garroni e Casadio su questo treno della “scissione” che hanno preso arrivano fino a Hegel, che sarebbe quello che la definisce nel modo migliore e su questo fonda la sua dialettica. È, dicono, la dialettica che Marx, Engels e Lenin verranno a prendere perché serve loro per capire le basi economiche della società borghese e per fare la rivoluzione in Russia. Purtroppo, però, dicono, “il primo tentativo di costruzione internazionale del socialismo si è svolto, coinvolgendo grandi masse arretrate ed in luoghi particolarmente distanti dalle tradizioni culturali e scientifiche moderne. I comunisti si son trovati, conseguentemente, nella necessità di promuovere la diffusione larga di una comune ideologia, riducendo  il marxismo alla capacità di comprensione di ambienti assai poco congeniali rispetto alla complessità e raffinatezza teorica della tradizione dialettica.”[128] Se la complessità è il continuo ripetere che “la situazione è complessa e difficile da decifrare”, cosa che i dirigenti della RdC fanno, e se la “raffinatezza teorica” è questo intrico di cui ci stiamo occupando qui, allora immaginiamo quegli ambienti cosi poco congeniali a queste cose come luoghi di serenità, semplicità e di genuinità, come quelle montagne che alcuni scelgono per andare in ferie.

Quello che Garroni e Casadio dicono è che il materialismo dialettico, scienza della realtà che si sviluppa da Marx ed Engels, a Lenin, Stalin, Mao e anche a Gramsci, è una dottrina rozza per contadini che hanno appena appreso a leggere e scrivere.[129] Abbiamo detto sopra che è strano che intellettuali nati e cresciuti a Roma, come Garroni, si sentano nella migliore condizione per avere una concezione avanzata della realtà, visto che stanno presso il centro di produzione di una delle più arretrate concezioni del mondo esistenti, quella della Chiesa di Roma, ma abbastanza avanzata da mantenersi nei secoli e da fare da strumento per un potere politico ed economico tanto vasto quanto ignorato, “esercitato indirettamente”, diceva il gesuita Bellarmino.

Il materialismo dialettico che Garroni e Casadio denigrano è la scienza delle attività con cui gli uomini fanno la loro storia, quella che, secondo il (nuovo)PCI,

più di ogni altra scienza, proprio perché favorisce o lede e comunque tocca non solo gli interessi pratici ma anche i legami e le abitudini intellettuali e sentimentali degli individui, è soggetta a contestazioni, tentativi di revisione, denigrazione, adattamenti e travisamenti. Essa stessa dà ragione anche dell’ostilità che incontra in campo teorico. Più di altre scienze, è difficile assimilarla: non la insegnano, la ignorano o denigrano e travisano tutte le scuole delle classi dominanti e tanto più dove e da quando sono dirette in conformità con il primo pilastro della controrivoluzione preventiva (Manifesto Programma cap. 1.3.3. pagg. 46-56). Per la natura del campo di cui tratta, non è facile applicarla. Essa stessa dà ragione di questa difficoltà.[130]

In ogni caso, l’idea che per fare capire le cose alle masse popolari bisogna somministrare loro prodotti di bassa lega ha a che fare con il pensiero reazionario.

È l’idea di Giovanni Gentile (Castelvetrano, 1875 – Firenze, 1944), ministro dell’educazione sotto Mussolini, promotore della nascita dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, , promotore delle maggiori iniziative in campo culturale per tutto il periodo del fascismo fino alla Repubblica di Salò, cui aderì, e fino a che fu giustiziato dai partigiani. Fu uno dei principali sostenitori del concetto che “per le masse popolari non serve la filosofia”, e che per loro va bene insegnare la religione, nonostante lui fosse ateo. Un caposaldo della sua filosofia era che l’elevazione dell’individuo poteva darsi solo per autoeducazione. Gentile non credeva possibile trasmettere la scienza tramite l’insegnamento, o almeno che questo non era possibile per la conoscenza più elevata, quella filosofica. La sua posizione era quindi opposta a quella della concezione comunista del mondo, secondo la quale la verità di una teoria è confermata da quanto le masse popolari la comprendono e la fanno propria. Il senso comune di chi si ritiene nel giusto e pensa che le masse non lo comprendono, sia esso un anarchico o un revisionista o uno della sinistra borghese, è reazionario, quindi. Se le masse non lo comprendono questo significa che non è nel giusto.

Sulla scia di Gentile fu Lorenzo Milani, (Firenze, 1923 – 1967), prete, considerato campione di progressismo dalla sinistra borghese, il quale pure pensava che “con la parola alla gente non gli si fa nulla. Sul piano divino ci vuole la grazia e sul piano umano ci vuole l’esempio.”[131] E’ da capire come conciliasse questa affermazione con il ruolo di educatore per cui è noto. Si conciliava, comunque, con l’idea di Ratzinger espressa ad Auschwitz, che l’ignoranza va bene per le masse popolari, da cui segue il parlare a loro come si parla con i bambini, cosa che fa Bergoglio.

Garroni e Casadio qui si ritirano di fronte alla necessità di spiegare la scienza alle masse popolari, di ridurla a sintesi, di esporla in modo semplice, che sarebbe  “la semplicità è difficile a farsi” di cui parla Brecht in una delle sue poesie più note.  Con questa difficoltà hanno già detto di non volere fare i conti fino in fondo. In realtà se una cosa è scienza deve essere capita. Visto che stiamo stazionando presso Hegel, chiamiamolo in causa anche noi. Dice che una cosa è scienza se è “da tutti concepibile e suscettibile di venir da tutti imparato e di essere proprietà di tutti. La via della scienza è la sua forma intellegibile, via aperta a tutti e per tutti uguale.”[132]

Gli autori dell’opuscolo proseguono quindi citando Togliatti e soprattutto Hegel, e trattando di alcune leggi della dialettica che, dicono, sono già note dai tempi di Platone, per cui poco di nuovo ci sarebbe sotto il sole. Non capiscono, Garroni e Casadio, che Platone come Kant come Hegel sono tutti filosofi appartenenti all’epoca delle società divise in classi, che quest’epoca sta volgendo al termine, e che quindi ci vogliono filosofi di tipo nuovo, mai visti prima, trasformatori del mondo, individui, magari, come lo sono Lenin e Mao, ma che esistono come “filosofi” solo come punte di soggetti collettivi, di partiti i cui membri, tra l’altro, in qualche misura devono tutti essere filosofi, come diceva Gramsci.

Vedono quindi la realtà e la storia in modo confuso, ma intravedono qualcosa. Dicono che “la stessa personalità individuale è chiamata a riplasmarsi”,[133] e questo di cui parlano, detto con precisione, è la necessità della riforma intellettuale e morale, il nesso che questa ha con il processo rivoluzionario complessivo, il fatto che la questione è determinante nella costruzione del partito. Questo accade con “una radicalità mai vista nella storia”,[134] dicono. È vero: il ruolo che il movimento comunista dà all’individuo è infatti radicalmente superiore a quello che gli dà la borghesia. L’individuo si trasforma in maniera così radicale da assumere una potenza mai sperimentata.[135] Lo fa trasformandosi, cioè procedendo nella propria riforma intellettuale e morale, identificandosi con il partito. L’individuo non si annulla nel partito, come credono i borghesi che su questa materia ne sanno quanto le scimmie sanno d’informatica, ma nel partito si realizza. Da questo spunto la RdC trae una delle conclusioni utili della sua riflessione quasi ventennale, che il partito ha da essere formato di quadri, e nella loro cura si sviluppa.

Anche qui però Garroni e Casadio si mettono in pista per partire e poi non partono. Dopo avere segnalato la necessità della riforma intellettuale e morale e la sua importanza, passano a parlare d’altro. Segnalano il paradosso per cui per conquistare il potere ci vuole il consenso delle masse ma per costruire il consenso delle masse popolari ci vuole il potere, che messa in questo modo è la questione dell’uovo e della gallina. La soluzione del dilemma è il partito, soggetto che però loro considerano in modo unilaterale, come estraneo alla classe. Ad esempio, è vero che il partito è luogo di formazione della coscienza di classe, ma non come coscienza che  un professore universitario invitato a un iniziativa porta. Prima ancora e soprattutto il partito è la coscienza della classe, “coscienza della classe operaia in lotta per il potere”.[136]

A pagina 16 arrivano al bilancio dell’esperienza dei primi paesi socialisti. Premettono che sarà un bilancio critico, senza, quindi, esaltazioni o denigrazioni unilaterali. Affermano che si sono fatti errori gravissimi e delitti (il che apre la porta agli “errori e orrori “ di Bertinotti). Non tengono conto, del peso che la mancata rivoluzione nei paesi imperialisti ha avuto nella caduta dei primi paesi socialisti, il che è errore di dialettica, cioè è considerare un fenomeno astratto dal contesto del movimento comunista internazionale, ed opportunismo, che consiste nel guardare gli altri per non vedere gli errori propri, il motivo per cui loro, Garroni e Casadio e tutti quelli che loro reputano comunisti dei paesi imperialisti, Togliatti incluso, in casa propria la rivoluzione non l’hanno fatta.

La RdC ha saputo dire di meglio, sull’esperienza dei primi paesi socialisti: parlando delle cause della crisi del movimento comunista, dicono che potrebbero elencarne molte,

a partire dall’arretratezza della Russia pre-sovietica e dal peso che quell’arretratezza ha avuto – marxianamente – nel delineare i caratteri salienti del «socialismo possibile» nella prima metà del ‘900. Limiti che nulla tolgono all’assalto al cielo compiuto nel secolo passato, con centinaia di milioni di uomini e di donne, popoli interi, capaci di reagire alla barbarie imperialista e a due guerre mondiali. Un patrimonio inestimabile su cui scarsa è stata l’analisi e l’elaborazione teorica, tanto più indispensabile alla luce dell’autentico «crollo» verificatosi alla fine degli anni ‘80 e che non può certo essere ascritto a errori contingenti.[137]

Dagli errori di dialettica e dall’opportunismo seguono le conclusioni sbagliate nelle pagine 16-18. Dicono che le parole d’ordine, le “determinatezze”, come le chiamano Garroni e Casadio, le idee dei tempi di Lenin non vanno più bene. Lenin non solo sarebbe d’accordo, ma era d’accordo anche ai suoi tempi, quando nel 1923 raccomandava ai comunisti stranieri di studiare come fare la rivoluzione nel proprio paese, perché non era come fare la rivoluzione in Russia. Nella scienza da lui elaborata, effettivamente, c’erano verità universali, che valevano per ogni paese, e altre particolari, che valevano solo in Russia. Garroni e Casadio qui si stanno disfacendo delle verità, o, come dicono loro, “determinatezze”, di carattere universale.

Parlare di “determinatezze”, significa distinguere il fenomeno di cui stiamo parlando nei suoi componenti, e inoltre, per determinare cosa è bisogna distinguerlo da tutto il resto della realtà. Così di una cosa concreta si fa un “concreto di pensiero”[138], Se quello di cui parliamo è il movimento comunista internazionale dobbiamo scomporlo spazialmente in

  • quello dei paesi imperialisti e
  • quello dei paesi neocoloniali.

Gli autori non fanno questa scomposizione, e quindi il discorso resta astratto. Si fissano su quello che è accaduto in paesi relativamente arretrati, sorvolano su quello che (non) è accaduto nei paesi  imperialisti, in questo modo pensano di salvarsi la coscienza ma contemporaneamente aprono la breccia a ogni delirio, come quelle del sopra citato Vasapollo secondo il quale basta copiare l’esperienza dei paesi dell’America Latina uniti nell’ALBA e incollare tra i paesi del Mediterraneo settentrionale, cioè Spagna, Italia, Grecia, Portogallo, con l’aggiunta dell’Irlanda.

Bisogna inoltre scomporre il fenomeno temporalmente, e la scomposizione che interessa il movimento comunista è tra prima e dopo che i revisionisti moderni si sono messi alla sua testa. Nemmeno questa scomposizione qui è fatta.

Il concreto di pensiero quindi non è ancora prodotto, e restiamo nel campo dell’astrazione.

Il paragrafo 4 del capitolo 1 dello scritto è dedicato alla Critica della filosofia del diritto di Hegel, scritto di Marx del 1843, dopo un altro capitolo dedicato a un altro suo scritto di Marx. Sintesi del capitolo sulla questione ebraica è che lo Stato borghese riproduce la separazione religiosa tra materia e spirito, come separazione tra quello che si promette e quello che si fa, sull’uguaglianza dichiarata e la disuguaglianza di fatto.

Gli autori stanno trattando della separazione che fu messa in discussione dalla classe operaia e dalle masse popolari nel 1848, nella ribellione della classe operaia e delle masse popolari per la mancata realizzazione di ciò che la Rivoluzione Francese aveva promesso di realizzare.

Garroni e Casadio insistono sul fatto che la borghesia, incapace di realizzare l’uguaglianza promessa durante la Rivoluzione Francese (ma anche sancita dalla Rivoluzione Americana) la sacralizza, e crea quindi uno Stato dove la promessa si istituzionalizza, cioè non si realizza l’uguaglianza, ma si continua a prometterla, sapendo bene che non la si può realizzare perché, come dicono i papi, “non è cosa di questo mondo”.

La borghesia però ha un potere di sacralizzazione limitato nel tempo, non sancito per l’eternità. Ha promesso uguaglianza reale, felicità e benessere, nella vita, e non dopo la morte. Lo Stato che si fa garante dell’uguaglianza, della legge che è uguale per tutti, è terrestre, gestito da esseri umani e non da angeli, che però si arrogano la soddisfazione piena dei propri interessi materiali e spirituali, cosa di cui le masse popolari si rendono bene conto, anche in momenti in cui il movimento comunista cosciente  e organizzato è ancora piccolo, come oggi nei paesi imperialisti. Per questo non sopporta corruzione, privilegi e quant’altro caratterizza i politici borghesi e non può non caratterizzarli. Oggi, quindi, le masse popolari votano M5S, presumendo che questa sia la forza politica onesta ma, soprattutto, che realizzerà l’uguaglianza promessa e mai attuata.

Di fatto, la borghesia non può garantire l’uguaglianza, se non a prezzo della propria dissoluzione. Infatti la borghesia non ha alcuna intenzione di abbandonare il proprio ruolo di classe dominante, che opprime e sfrutta. Non ha alcuna intenzione di abolire la divisione in classi. Divisione in classi significa che gli esseri umani sono ripartiti in classi differenti che sono in condizioni differenti, e mantenere la differenza significa non realizzare l’uguaglianza. Per realizzare l’uguaglianza, che è condizione non solo possibile ma necessaria, bisogna quindi che il potere sia in mano a una classe che dirige insegnando agli altri a dirigersi, e che lo Stato sia uno Stato che si estingue. Questo fu e sarà lo Stato della dittatura del proletariato.

Il capitolo 4 si chiude parlando dell’importanza della filosofia nella lotta della classe operaia per la conquista del potere. Recupera quindi il principio secondo cui la lotta della classe operaia si svolge, oltre che su terreno economico e politico, anche sul terreno filosofico. La conclusione è, anzi, che il proletariato, sul piano della teoria, deve ricollegarsi alla filosofia, e precisamente alla filosofia classica tedesca, e che il ricollegamento a tale filosofia consiste nel “realizzarla”. Perché, chiedo, nei paesi imperialisti questa filosofia fino a ieri non si è sviluppata in modo adeguato per “realizzarsi”, come dicono qui, e i contributi dello sviluppo del pensiero comunista sono venuti da dirigenti di partiti comunisti di altri paesi, anche sul piano filosofico? Il pensiero comunista nella sua integralità si è sviluppato come leninismo e come maoismo.[139]

D’altro lato, le considerazioni qui svolte hanno valore nel senso che il movimento comunista dei paesi imperialisti non si è mai sviluppato per le due tare che hanno ristretto la lotta della classe operaia sul terreno sindacale e politico nei limiti consentiti dalla borghesia, e questa restrizione esclude la lotta sul terreno ideologico, senza la quale non c’è rivoluzione, perché la lotta sul piano ideologico è quella grazie a cui la lotta politica e sindacale diventa rivoluzionaria. Ma questo limite di cui parlano qui riguarda i paesi imperialisti, non tutto il movimento comunista che, quanto alla lotta ideologica, ha dato contributi grandi con Lenin e con Mao. Inoltre, soprattutto, la lotta sul terreno ideologico è cosa ben più grande di quanto sia un recupero di quanto prodotto dalla filosofica classica tedesca.[140] È anche lotta ideologica all’interno del movimento comunista, lotta tra due linee nel partito, trasformazione con quanto di sofferenza comporta, scissione, espulsione dei corpi estranei. La scienza nuova non nasce per parto indolore.

Qui, tra l’altro, Garroni e Casadio dicono che Togliatti è stato un grande dirigente anche dal punto di vista culturale, oltre che politico, ma allora perché il partito che lui ha diretto dal 1927 e a cui ha dato una svolta nel 1956 è finito così male? Fin qui di questo non parlano, né ne parleranno oltre.

D’altra parte è difficile che Garroni e Casadio possano dare una risposta ad alcuna delle domande che ai comunisti si pongono, data la base traballante su cui poggiano i piedi. Individuano punti di partenza e non partono, o se partono prendono direzioni “a piacere”, come quando dicono che il problema principale del movimento comunista che ci precede sta nei partiti comunisti dei paesi imperialisti e poi concludono che dai partiti dei paesi dove non si è fatta la rivoluzione non c’è arrivata la soluzione pronta, e anzi la sostanza di quello che allora e a loro è servito a noi non serve più, o come quando dicono che ci vuole una trasformazione degli individui profonda e radicale e poi non dicono chi è interessato alla questione e come si deve comportare, o come quando dicono che la filosofia è importante e poi scopriamo che quella filosofia che ci serve era già pronta due secoli fa, con il che non si capisce perché in due secoli nessuno se ne è servito per fare quello che si doveva, cioè la rivoluzione socialista nei paesi imperialisti.

In campo di storia politica, dicono che prima, quando c’erano i paesi socialisti, si sono ottenuti risultati anche molto grandi (il che contrasta con i “crimini” di cui parlavano prima) ma poi i paesi socialisti sono caduti, che è come dire che all’estate segue l’autunno, anzi anche meno, perché del cambio di fase storico danno cronaca, e non spiegazione, mentre dei cambi di stagione sappiamo che sono dovuti al moto di rivoluzione terrestre.

Inoltre, si ostinano a non tenere conto del fatto che la società è divisa in classi. Questo è un problema ideologico, perché se affermassero il ruolo della contraddizione di classe come energia che muove la storia, così come sono le cariche tra loro opposte quelle che producono energia elettrica, allora si metterebbero contro i revisionisti moderni, secondo i quali le classi o non esistono o sono in via di sparizione come pozzanghere sotto il sole, o contro la Scuola di Francoforte, secondo la quale le classi non esistono perché la classe oppressa è stata inglobata dalla classe che la opprime, e una sola, ormai, è la dimensione di quello che qui chiamano “l’uomo”.

Al posto del conflitto vero, mettono il conflitto tra Stato e società civile: “la scissione tra Stato e società civile è la base fondante della società borghese”.[141] Poco dopo dicono che è anche vero che la base è un’altra: “La base materiale delle forme politico-giuridiche sopra esposte è il livello di sviluppo delle forze produttive, base materiale fondamentale non solo per le interpretazioni storiche e filosofiche ma anche per analizzare l’attuale fase della società capitalista.”[142] Non dicono quale è il nesso tra queste due basi, perché devono essere due e non una, non dicono come è possibile che un edificio così complesso come la società borghese poggi su una crepa, su una scissione, né dicono che differenza c’è tra “interpretazioni storiche e filosofiche” e analisi della “attuale fase della società capitalista, se, cioè, l’interpretazione storica e filosofica è cosa che serve per il passato e non per l’attualità, oppure no, e quale la differenza tra lo sviluppo delle forze produttive del passato e quelle odierne. Tutta questa selva di domande potrebbe spaventare, se non fossimo materialisti, ma anche qui, come diceva Mao alla figlia quando andò a fare gli esami di scuola, “un materialista rigoroso non ha nulla da temere”.[143] Infatti queste sono tutte domande cui molta parte degli studenti dei corsi sul Manifesto Programma del (nuovo)PCI che sono tenuti dal Partito dei CARC riescono a rispondere abbastanza bene. Per questo nei suoi Comunicati il Comitato centrale del (nuovo)PCI dice che “studiare il Manifesto Programma del Partito è la prima attività di chi si organizza per diventare comunista”.

 Infatti non basta aspirare al comunismo per essere comunisti, così come non basta aspirare ad avere denti sani per essere dentisti.[144] I dirigenti della RdC saranno d’accordo con noi, dato che sono arrivati alla conclusione che l’organizzazione (o partito) dei comunisti che ci vuole ha da essere di quadri, e i quadri vanno formati, cioè devono formarsi come comunisti e se devono formarsi come tali vuole dire che ancora non lo sono.

In questo paragrafo, dove mettono la politica al primo posto, con la società politica che dirige la società civile, Garroni e Casadio parlano di economia. Trattano del carattere collettivo raggiunto dalle forze produttive e di alcuni fenomeni che lo accompagnano. Non mettono il dito sulla piaga, cioè sulla contraddizione tra questo carattere collettivo delle forze produttive e la loro proprietà privata.

Parlano anche del denaro, che è equivalente generale delle merci, cioè oggetto a cui le molte merci si raffrontano come a uno, e che quindi nel denaro si riconoscono come uguali. Dicono che nella società borghese l’universale è il denaro (è un universale reale, a differenza dell’universale delle religioni, dove quello che vale per tutti è dio, o delle filosofie idealistiche, dove i valori che valgono per tutto sono astrazioni:  libertà, giustizia, uguaglianza, ecc.). Sostengono che “il ruolo dell’equivalente generale, cioè il denaro, produce la preminenza del capitale con tutte le conseguenze che possiamo osservare storicamente e politicamente”[145] e questo avviene entro la distinzione tra società civile e società politica. Tutto questo avverrebbe dopo il riconoscimento del denaro come equivalente generale.

Il denaro è sempre stato equivalente generale, fino dalla sua prima comparsa molti millenni fa. Non è nell’Ottocento che viene riconosciuto in un dato modo, ma in questo secolo assume una data funzione perché questo richiede lo sviluppo del modo di produzione capitalista.[146]

Parlano dell’importanza del fine che il partito ha, ma non lo indicano. Il fine di un partito comunista è fare la rivoluzione socialista nel proprio paese. Su questo, però, Garroni e Casadio forse non concordano. In una intervista poco tempo prima della sua morte, Garroni sosteneva che la lezione della caduta dei primi paesi socialisti era che la rivoluzione in un paese solo non si fa.

Inoltre non indicano la dialettica tra il fine e il percorso per arrivarci. La rivoluzione socialista è un fine, ma come termine di un percorso. Il grado 0 è termine di un percorso che parte da -100°, ma non si può dire che tutti i gradi del percorso per arrivarci sono secondari rispetto allo 0 o all’1°, 2°, ecc.

Dicono che il partito non è qualcosa di fisso nel tempo, stabilito una volta per sempre. In effetti il partito cambia, deve cambiare per forza, cambia nello stesso suo percorso di crescita. Non parte però dal nulla e determinate caratteristiche le ha, così come un bambino, anche se non è uomo fatto, ha braccia, gambe, occhi e tutto il resto.

Gli altri punti non dissipano la nebbia sulla questione del partito. Sono accenni e domande. Il rapporto tra partito e classe si deve definire, dicono. Questo rapporto è stato definito, oltre che dal movimento comunista che abbiamo alle spalle, dalla carovana del (nuovo)PCI in termini sufficienti per avviare la fondazione e la costruzione del partito. Farlo è possibile, e non da oggi, e quindi non è giusto restare al di là dal farlo, restare nel campo dello scetticismo, di quelli che, come diceva Brecht nella parabola del Buddha sulla casa in fiamme, non si decidono a uscirne perché non sanno se fuori fa cattivo tempo o se fuori c’è una casa nuova pronta per accoglierli.

A conclusione dell’opuscolo dicono che il partito deve essere di quadri, il che è giusto. Quanto al costruirlo, trovano spunti positivi, in primis il ruolo della teoria rivoluzionaria. Su questa base è utile che compagni e compagne  della RdC, che queste linee sviluppano, si confrontino con con la concezione comunista del mondo al punto in cui è stata portata dalla carovana del (nuovo)PCI.

Confronto

Nei suoi documenti migliori la RdC dichiara la sua disponibilità al confronto. Lo afferma nella Relazione Base del seminario del 2013, ma già lo diceva nel 2011:

Riaffermiamo, dunque, la nostra concezione di partito come intellettuale collettivo piuttosto che come “appendice del segretario e delle sue capacità”. Ma è anche una concezione processuale della sua costruzione che nega al partito il valore feticista che gli si è venuto attribuendo come soluzione taumaturgica di tutti i problemi. In tal senso affermiamo che in questo processo di costruzione del partito la Rete dei Comunisti non è e non ritiene di poter essere autosufficiente. Ne deriva che intendiamo facilitare – anche formalmente – in ogni modo i processi di confronto, convergenza, amalgama con altri compagni e soggettività comuniste che lavorano nella stessa direzione. Rivendichiamo come nostra la storia del movimento comunista del XX, ne rivendichiamo gli errori e i successi ma intendiamo indagarne e comprenderne a fondo le contraddizioni. La trascuratezza nell’elaborazione teorica, la scarsa conoscenza della storia e lo schematismo che hanno dilagato in questi ultimi trenta anni, sono stati un ostacolo ad un serio bilancio storico ed hanno spianato la strada alle posizioni liquidazioniste che oggi si offrono di nuovo come soluzione alla crisi della sinistra e dei comunisti.[150]

Questa analisi è risposta a questa disponibilità. Preciso però che la disponibilità al confronto da parte del P.CARC e della Carovana del (n)PCI in generale data da tempo. Testimonianza ne sono un certo numero di Comunicati del CC del (n)PCI e di Avvisi ai naviganti come quello che ho citato qui, nonché l’ultimo numero della sua rivista, il n. 53 di La Voce.

Paolo Babini

P.CARC – Centro di Formazione

Firenze, 4 settembre 2016.

[1] in www.nuovopci.it/dfa/avvnav62/avvnav62.html

[2] In http://www.nuovopci.it/voce/voce53/indvo53.html, [da qui in poi, VO53] Vedi in particolare l’articolo Per i frequentatori delle iniziative di RdC (pagg. 32-36) dedicato per intero a RdC e dove vengono esposte nove “divergenze” tra noi e questa organizzazione.http://www.nuovopci.it/voce/voce53/freqrdc.html-,

[3] http://www.carc.it/2016/06/23/italia-sul-partito-e-la-sua-forma-commento-allo-scritto-di-michele-franco-della-rete-dei-comunisti/. Lo scritto di Franco è in http://contropiano.org/documenti/2016/06/23/organizzazione-forme-possibili-della-militanza-comunista-partito-massa-partito-quadri-080800.

[4] Vedi http://www.retedeicomunisti.org/index.php/iniziative/1313-roma-18-giugno-la-ragione-e-la-forza-il-ruolo-dei-comunisti-tra-passato-e-futuro.

[5] Relazione base, in La ragione e la forza. Il ruolo dei comunisti tra passato e futuro, in http://contropiano.org/documenti/2016/06/02/la-ragione-la-forza-ruolo-dei-comunisti-passato-futuro-079837.

[6] Contropiano, anno 22, n.1, settembre 2013, in http://www.retedeicomunisti.org/images/pdf/Contropiano_9_13_interno_bassa.pdf. [da qui in poi Cp]

[7] In https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/03/partito-e-teoria-stefano-garroni-mario.html. Da qui in poi PT.

[8]In  http://www.retedeicomunisti.org/index.php/interventi/1341-oltre-la-nazione-sviluppo-delle-forze-produttive-e-polo-imperialista-europeo. Da qui in poi, “Vasapollo”

[9] La Voce del (nuovo)PCI, n. 53, luglio 2016, p. 37

[10] Mao Tse tung, Opere, ed. Rapporti Sociali, Milano, 1991, vol. 5, p. 249.

[11] Vasapollo, cit.

[12] Gli arresti di Giuseppe Maj e altre redattori del Bollettino del 1985, hanno contribuito a creare le condizioni  per sviluppare l’analisi e il bilancio dell’esperienza del movimento e lo sviluppo del progetto della rivista Rapporti Sociali (RS): il numero 0 di RS, Don Chisciotte e i mulino a vento, uscito nel settembre 1985, è frutto degli studi  che Giuseppe Maj farà nel carcere di Belluno.

[13] Rapporti Sociali n.0, 1985. Per una sintesi sulla materia vedi  http://www.nuovopci.it/dfa/avvnav08.html.

[14] Vasapollo, cit.

[15] Ivi.

[16] Ivi.

[17] Ivi.

[18] Ivi.

[19] Ivi.

[20] Ivi.

[21] Ivi.

[22] La Voce del (nuovo)PCI, n. 53, luglio 2016, p. 1. Vedi nota 29.

[23] Vasapollo, cit.

[24] Come dire: “Appare pressoché innegabile che siccome mi sono sparato un colpo in testa sono un uomo morto.” Questo modo di esprimersi forse è quello che si usa negli ambienti accademici.

[25] Carchedi, G., Dalla teoria di Marx l’analisi delle forze produttive e della transizione, in Proteo, N. 2009/3-2010/1. http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=766

[26] Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale, Pravda, n. 258, 15 novembre 1922

[27] Vasapollo, cit.

[28] Ivi.

[29] Vedi nota 22. Il numero de La Voce segnala in copertina “l’assoluto interesse delle classi dominanti a perpetuare la confusione che deriva alla mancanza di una conoscenza razionale, dall’abitudine a non pensare, dal non essere stati educati a pensare, dallo stordimento e dalla confusione creati con il mondo virtuale.”

[30] Cp, p. 2.

[31] PT, p. 8.

[32] VO53, p. 27.

[33] La lotta tra due linee non è “il libero confronto interno all’organizzazione con un processo continuo, fisiologico si potrebbe dire, di dibattito e di maturazione collettiva nelle strutture che è l’unica forma reale di democrazia” di cui parla Cp a pagina 8. Questo “libero confronto” è il dibattito all’infinito, quello che rende le riunioni interminabili e inconcludenti, la “libertà di critica” che Lenin si prende la libertà di criticare come prima cosa nel suo Che fare? La forma di democrazia reale nel partito comunista è il centralismo democratico. Sulla questione del “libero confronto” torna più oltre Federico Martino.

[34] “Per dirigere occorre prevedere” (Mao Tse tung, Opere, ed Rapporti Sociali, Milano, 1992, vol. 9, p. 98.

[35] Cp, pp. 5-6.

[36] Questo in effetti lo ricordano, ma per denigrarlo: “Basti ricordare per tutti il “Servire il Popolo” del partito cinese (che non nulla a che fare con le macchiette nostrane a cavallo degli anni 60/70) che modifica le caratteristiche del Partito Comunista adeguandolo alla realtà tutta contadina della Cina della prima metà del ‘900 o, sempre per soffermarci sulla Cina, al ruolo difficile e coraggioso interpretato dal partito a ridosso degli sconvolgimenti ideologici e materiali della Grande Rivoluzione Culturale e Proletaria. Non ci siamo dimenticati di quest’aspetto e, anche se non è qui trattato per motivi di spazio, pensiamo che quelle esperienze rafforzino ancora di più la necessità di cogliere il nesso tra organizzazione e classe reale che si manifesta nelle diverse condizioni.” (Cp, p. 3) La “mancanza di spazio” indicata come causa per non studiare un fenomeno chiave per trovare le “soluzioni” di cui si parla nel titolo, è come la “mancanza di tempo” di Derrida: a lui come a RdC mancano tempo e spazio di occuparsi delle questioni principali, cioè i principi del leninismo e del maoismo.

[37] Cp, p. 7. Dovrebbero farlo, invece. Visto che è il nodo della questione, almeno in sintesi dovrebbero trattarne, se in altre sedi ne hanno trattato.

[38] Vedi VO53, pp. 20-24.

[39] Relazione base, cit.

[40] Cp, pp. 7-8.

[41] Teresa Noce, Rivoluzionaria professionale, ed. Rapporti Sociali, Milano, e Redstar, Roma, 2016.

[42] Cp, p. 9.

[43] È “la debolezza politica e culturale delle forze di sinistra e comuniste che non riescono a proporre un’idea organica antagonista tale da poter mettere in moto forze reali e ideali nella società, tra i lavoratori, i giovani, etc.” (Cp, p. 9)

[44] Cp, pp. 16-17.

[45] Cp, p. 17. Di seguito si riportano, in parte, le note che accompagnano il testo di Hobsbawm.

[46] Lettera a Bebel nel 1891, a proposito delle obiezioni mosse dal partito contro la pubblicazione della Critica del programma di Gotha.

[47] Cfr. la lettera di F. Turati, 26 gennaio 1894, in La corrispondenza di Marx e Engels con gli italiani, 1848- 1895, a cura di G. Del Bo, Milano 1964, pp. 518-21.

[48] Ivi.

[49] T. S. Eliot (St. Louis, 1888-Londra, 1965), Gli uomini vuoti, 1925.

[50] “Molti pensano che noi ci diamo da fare / nelle faccende più peregrine, / ci affatichiamo in strane imprese / per saggiare la nostra forza o per darne la prova. / Ma in realtà è più nel vero chi ci pensa / intenti semplicemente all’inevitabile: / scegliere la strada più diritta possibile, vincere / gli ostacoli del giorno, evitare i pensieri /che hanno avuto esiti cattivi, e scoprire /quelli propizi, in breve: /aprire la strada alla goccia nel fiume che si apre /la strada in mezzo alla pietraia.” (B. Brecht, Poesie, 1941-1947)

[51] Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 2010, sesta edizione, p. 92.

[52] VO 53, p. 34-35

[53] Cp, pp. 17-45.

[54] Ivi, p. 30.

[55] Ivi, p. 32.

[56] Ivi, p. 34.

[57] La Voce del (nuovo)PCI, n. 41, p. 44, luglio 2012.

[58] V. Gerratana (Scicli, 1919-Roma, 2000) fu un dirigente del vecchio PCI. E’ noto per aver prodotto una utile edizione dei Quaderni di Gramsci.

[59] Cp, p. 49.

[60] Ibidem.

[61] VO 53, pp 26-31.

[62] Quaderni del carcere a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, 2001 (prima ed. 1975), Torino, pp, 1769-1771

[63] Ivi, pp. 1769-70

[64] Manifesto Programma del (nuovo)PCI, ed. Rapporti Sociali, Milano , p. 181.

[65] Quaderni del carcere, cit., p. 1770.

[66] Ibidem.

[67] Ivi, p. 1771.

[68] Ivi, p. 1789.

[69] Vedi sopra, nota 9.

[70] Cp, p. 2.

[71] Nicola Badaloni (Livorno, 1924-Livorno 2005) è un altro intellettuale ben noto nei tempi andati, di “spiccate convinzioni marxiste” dice Wikipedia, che fu storico della filosofia a Pisa, sindaco di Livorno, e membro del Comitato centrale del vecchio PCI.

[72] Quaderni del carcere, cit., p. 749.

[73] Vedi La scienza delle attività con cui gli uomini fanno la loro storia, in La Voce del (nuovo)PCI, marzo 2016, n. 52, pp. 38-39.

[74] E quindi ben altro che disquisizione accademica.

[75] Quaderni del carcere, cit. p. 750.

[76] VO 53, p. 14.

[77] Quaderni del carcere, cit. p. 750.

[78] Ivi, p. 750-751.

[79] Cp. p. 54.

[80] Federico Martino è professore universitario a Messina. Si aggiunge agli altri professori universitari interpellati per decidere quale forma di organizzazione deve darsi RdC, e cioè Hobsbawm, Badaloni, Gerratana, Gattei.

[81] Cp, pp. 55-57.

[82] Ivi, p. 56.

[83] Cp., p. 57.

[84] Partito e teoria. Atti del seminario promosso dal Forum dei Comunisti, Quaderni di Contropiano, Roma, 1998, p. 37.

[85] I caratteri del partito sono elencati nel Manifesto Programma del (nuovo)PCI, cit., pp182-183.

[86] Ivi, p. 183.

[87] Ibidem.

[88] Cp, p. 60.

[89] Un figlio dei fiori non pensa al domani, I Nomadi, 1968.

[90] Cp., p. 63.

[91] Manifesto Programma del (nuovo)PCI, cit. p. 299. Inoltre quello che dice qui Gattei è l’opposto di quello che dice in questa stessa rivista Hobsbawm (vedi nota 23) che, per quanto borghese, è meno cialtrone.

[92] Cp., p. 61.

[93] “La borghesia imperialista devia l’umanità e la porta verso un burrone. Bando a quelli che si spacciano per comunisti e si dedicano a studiare la strada su cui la borghesia ci sta conducendo. Noi comunisti dobbiamo guidare l’umanità, conosciamo sia pure a grandi linee la strada e abbiamo gli strumenti per orientarci. Sono le masse popolari che fanno la storia e noi comunisti siamo la loro guida.” (VO 53, p. 16)

[94] MaoTse-Tung, OPERE, vol.23, pag.267, ed. Rapporti Sociali, Milano, 1994.

[95] Ivi.

[96] VO 53, p. 16

[97] Ivi, p. 3.

[98] È qui che si ferma Gattei, che si “guarda bene” dal prevedere il futuro.

[99] Si riferisce alla nota tesi per cui “filosofi sono quelli che trasformano il mondo, non quelli che lo descrivono”, cosa con cui si intende che è scienza quella che costruisce, mentre tutto ciò che non costruisce nulla è, al massimo, una narrazione.

[100] Quindi l’unico modo per imparare come si costruisce il partito è iniziare a costruirlo. Misurate la distanza tra questo e Gattei che aspetta la rivelazione dalla storia.

[101] Quaderni del carcere, cit., pp. 1403-1404. Il “causalismo meccanico” è precisamente quello illustrato da Gattei, secondo il quale il modo in cui il partito si costituirà dipenderà da cause esterne, cioè dalla borghesia, e si produrrà in modo meccanico come la pioggia cade dall’alto verso il basso. Questo modo di ragionare, dice Gramsci, è cosa del passato ed è proprio di classi abituate o costrette a piegare la testa davanti e sotto al padrone.

[102] La previsione è elemento fondamentale della costruzione. I dirigenti che hanno fondato la RdC, che è un’organizzazione, non sono ancora riusciti a costruire il partito (posto che veramente intendano farlo) anche perché manca loro capacità di previsione, né ritengono che tale capacità si possa o si debba acquisire.

[103] Anche questo vale per i dirigenti della RdC, e per Gattei in particolare che sopra ho paragonato al brigante Procuste mostrandolo all’opera mentre mutila Engels e Marx.

[104] Quante oziosità, minuzie sottili, eleganze congetturali abbiamo trovato nel numero di Contropiano di settembre? Quante ne troveremo nello scritto di Garroni-Casadio, dove come anticipato avremo a che fare con “la raffinatezza e la complessità della dialettica”?

[105] Ivi, p. 1810.

[106] Stefano Garroni (Roma, 1939-2014) è un intellettuale che si è occupato di questioni filosofiche in relazione al movimento comunista. Mauro Casadio è uno dei massimi dirigenti della Rete dei Comunisti, indicato in certi documenti come suo coordinatore nazionale. Sua è la relazione introduttiva al seminario di giugno 2016.

[107] PT, p. 2.

[108] Ibidem.

[109] “Imperialismo” è un termine che fa parte della scienza comunista, e i borghesi non lo usano perché non lo capiscono. La sinistra borghese talvolta lo usa ma nemmeno lei lo capisce. La fase imperialista infatti inizia perché lo sviluppo della contraddizione tra carattere collettivo e proprietà privata delle forze produttive richiede un salto (richiede l’abolizione della divisione in classi), ma secondo la sinistra borghese questa contraddizione non esiste. Perciò la borghesia, sinistra borghese inclusa, per descrivere determinati paesi non usa una categoria che ne descrive la posizione dal punto di vista politico, economico ed ideologico, ma usa una categoria della geografia.

[110] VO 53, pp. 26-27.

[111] TP, p. 2.

[112] Ivi, p. 3.

[113] “…in ogni angolo del mondo rinasce il movimento comunista. Esso rinasce sulla base del marxismo-leninismo-maoismo: la concezione del mondo e il metodo di azione e conoscenza elaborati dall’esperienza del movimento comunista e in particolare dall’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale” (Manifesto Programma del (nuovo)PCI, cit., p. 4)

[114] PT, p. 8.

[115] Manifesto Programma del (nuovo)PCI, cit. p. 249, che rimanda a V. I. Lenin, Tre fonti e tre parti integranti del marxismo (1913), in Opere vol. 19, V. I. Lenin Karl Marx (1914), in Opere vol. 21.
F. Engels, Anti-Dühring (1878), in Opere complete vol. 25.
F. Engels, Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca (1883).

[116] VO 53, p. 39.

[117] “Secondo il materialismo dialettico, ogni fenomeno e avvenimento, quelli che cadono direttamente sotto i nostri sensi come quelli che conosciamo per altre vie, quelli che sono oggetto delle scienze naturali tradizionali o comun- que costituite e riconosciute e gli altri, ivi compresi i pensieri, i comportamenti, i sentimenti, ecc. vanno studiati come processi di storia naturale che si sviluppano ognuno secondo leggi sue proprie. Queste leggi noi le possiamo scoprire tramite l’osservazione empirica, la sperimentazione e l’elaborazione dei dati dell’una e dell’altra. Molte cose sono ancora ignote e di molti fenomeni non abbiamo ancora scoperto la fonte e le leggi di sviluppo, ma niente è per sua natura inconoscibile.” (Manifesto Programma del (nuovo)PCI, cit. pp. 249-250)

[118] TP, p. 6.

[119] K. Marx, Prefazione a Per la critica dell’ economia politica.

[120] Manifesto politico della Rete dei Comunisti, in http://www.politicaeclasse.org/Documenti/2011/manifesto_politico_ReteComunistiFINALE.pdf.

[121] Angelo Bolaffi scrive su Repubblica del 20 luglio 2016, un articolo dal titolo Intellettuale e agente CIA: Marcuse uomo a due dimensioni, con la seguente didascalia: Gli ultimi studi lo confermano: il filosofo più amato del ’68 lavorò per i servizi segreti americani anche dopo la caduta del nazismo”.

[122] Già produce tutta la ricchezza materiale di cui la società vive, e si pretende che produca anche spunti per una “visione indipendente del mondo”. L’idea che il peggioramento delle condizioni delle masse popolari le spingerà a fare la rivoluzione e, per farla, a pensare come e perché, è meccanicismo. Sergio Cararo ne parla al seminario del 2016: “Se è vero che siamo in presenza di un pesante processo di polarizzazione sociale e di acutizzazione delle contraddizioni sociali non è affatto scontato che da queste emerga una coscienza di classe più avanzata rispetto a quella che abbiamo conosciuto nei decenni scorsi. La dimensione ideologica ha così assunto un peso rilevante, per alcuni aspetti decisivo, nella lotta di classe dall’alto contro il basso.” (in http://www.politicaeclasse.org/documenti/FasePolitica/2016/ragione-forza-Cararo.htm) Parla inoltre di una inchiesta  i cui contenevano anche alcune indicazioni politiche, ad esempio il fatto che anche in presenza di una conoscenza del peggioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro, i lavoratori non andassero oltre l’orizzonte riformista. Ogni idea di rottura era lontana dalla percezione di classe dei lavoratori intervistati.” (ivi)

[123] RB (Relazione Base del seminario La ragione e la forza), cit.

[124] Ivi.

[125] Quaderni del carcere, cit., pp. 2170-2171

[126] Per questo, e in generale per iniziare a capire in cosa consiste il lavoro operaio, vedi Risoluzione n.3 del IV° Congresso del P.CARC in http://www.carc.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2189%3Arisoluzione-n-3-il-lavoro-operaio-del-pcarc-&catid=189%3Aiv-congresso-nazionale)

[127] TP, p. 6

[128] ivi, p. 8.

[129] Meno arroganza aveva il Papato a fronte di un movimento comunista che aveva spazzato via le armate naziste dall’Europa, e si apprestava a vincere in Cina. Allora impegnava in tutta fretta i suoi studiosi per una analisi in dettaglio del materialismo dialettico, arma che temeva assai. Vedi al riguardo Il materialismo dialettico sovietico (Einaudi, Torino, 1948), opera di Wetter, docente al Pontificio Istituto Orientale in Roma, cui il Vaticano dà l’imprimatur nel 1947.

[130] La Voce del (nuovo)PCI,   n.50, luglio 2015, p. 65

[131] Lorenzo Milani, Esperienze pastorali.

[132] Hegel, Fenomenologia dello spirito, Nuova Italia, Scandicci (FI) 1960, 11° ristampa 1993, p. 10.

[133] PT, p. 11-12

[134] ibidem.

[135] LODE DEL PARTITO

Chi è uno ha due occhi. / Il Partito ha mille occhi. / Il Partito vede sette stati, / chi è uno vede una città. / Chi è uno ha la sua ora / ma il Partito ha molte ore. / Chi è uno può essere distrutto / ma il Partito non può essere distrutto, / perché è l’avanguardia delle masse / e conduce la sua lotta / con i metodi dei classici, che son sorti / dalla conoscenza della realtà. (Bertolt Brecht)

[136] Vedi sopra, Nota 87.

[137] Manifesto politico della Rete dei Comunisti, cit.

[138] Vedi La Voce del (nuovo)PCI, n. 51, novembre 2015, pp. 11 – 12.

[139] Gramsci ha dato contributi molto importanti al pensiero comunista, ma non ha prodotto un sistema integrale di pensiero come hanno fatto prima di lui Marx ed Engels  e Lenin e Stalin, e dopo di lui Mao tse tung.

[140] Garroni e Casadio, tra l’altro sintetizzano l’ultima filosofia classica tedesca nell’opera di Hegel e di Kant, senza indicare la profonda differenza tra i due. La dialettica del primo indica con precisione, anche se in maniera molto difficile da capire (non lo capisce nemmeno lui), che questa è una società divisa in classi, che questa divisione non può persistere e perciò va abolita, può e deve essere abolita. Il secondo dice che effettivamente la divisione in classi esiste e dovrebbe essere abolita, ma come farlo non si sa né saperlo è possibile, quindi non può né potrà essere abolita. Kant è scettico, e il suo scetticismo è una delle caratteristiche (delle “determinatezze”, parlando la lingua di Garroni e Casadio) più importanti della sinistra borghese. È il “vorrei ma non posso”, “l’importante è averci provato”, “quello che conta è lo spirito con cui si fanno le cose”, per cui basterebbe aspirare al comunismo per essere comunisti.

[141] TP, p. 33.

[142] Ivi

[143] Vedi nota 95.

[144] “…siamo ciò che facciamo, non quel che diciamo – magari a noi stessi – di essere.” Così dice il Manifesto Politico della RdC del 2011. Noi diciamo che “nella rivoluzione socialista quello che pensiamo, decide di ciò che facciamo.” (La Voce del (n)PCI, n. 46, p. 23”

[145] PT, p. 34.

[146] Per il processo di formazione del denaro vedi Rapporti Sociali, n. 2, novembre 1988. La scheda illustrativa delle materie del denaro, delle operazioni cui danno luogo, delle contraddizioni inerenti secondo lo schema seguente:

  1. Gli inizi del denaro
  2. La successione delle materie del denaro

–              Oro metallo

–              Monete d’oro (coniazione libera)

–              Monete d’oro (monopolio della coniazione)

–              Banconote o assegni sull’oro

–              Cartamoneta

–              Titoli di credito

–              Corso forzoso: banconote inconvertibili

–              Eliminazione del riferimento all’oro

  1. Dalle circolazioni monetarie nazionali al denaro mondiale

–              Circolazioni nazionali e circolazione mondiale

–              Denaro mondiale

–              Materie del denaro mondiale

  1. I sistemi monetari mondiali

–              I sistemi a base aurea

–              Sistemi monetari senza base aurea

[147] PT, p. 35.

[148] Manifesto Programma del (nuovo)PCI, cit. p. 254.

[149] La Voce del (nuovo)PCI, n. 40, marzo 2012, p.59)

[150] Manifesto politico della Rete dei Comunisti, cit.

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