Un contributo della Commissione Gramsci del P_CARC
Gramsci voterebbe De Magistris a Napoli e Raggi a Roma. Guido Liguori, presidente della International Gramsci Society, (vedi la lettera aperta a lui rivolta dal (nuovo) PCI in http://www.nuovopci.it/dfa/avvnav45/avvnav45.html) non lo dice esplicitamente ma lo pensa in questo articolo che nel Manifesto di oggi è contrapposto a un altro, dove si dice perché si dovrebbe invece votare PD ai ballottaggi. Il Manifesto con l’operazione vorrebbe dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ma le ragioni di Liguori sono più consistenti di quelle di Floridia, secondo il quale ora dovremmo poter tornare al PD perché Renzi ha avuta la sberla e ha imparato la lezione, e d’ora in poi si comporterà bene, non farà più cose brutte, ecc.
Liguori da un lato è minimalista, e spera in una alleanza tra 5Stelle e sinistra come c’è in Spagna tra Podemos e Izquierda Unida, ma dall’altro in lui brilla qualcosa di più ampio, appena distoglie lo sguardo dall’immediato e lo estende al secolo, tornando a Gramsci. Qui vede “una possibilità reale di autogoverno, non prevista da quella storia vista dagli elitisti come sempre uguale a se stessa”, e cioè non prevista da quella che chiama “elìte”, che in Italia oggi è quella che ha proposto come “nuovo” Matteo Renzi, fenomeno che si va consumando in fretta, come rapidamente si sono consumati i suoi predecessori, Monti e Letta, e come si va consumando definitivamente Berlusconi, che si presentava come esponente di una era e di una concezione, il “berlusconismo”. L’autogoverno delle masse popolari, la loro partecipazione nella gestione della società, è la strada maestra del futuro del nostro paese, e la costruzione nuove autorità pubbliche nei territori, di amministrazioni locali di emergenza, di un governo di emergenza è il modo in cui costruire tutto questo oggi. Quindi non è che “si può votare 5Stelle” e De Magistris oppure “si può votare PD”, ma non si deve votare PD, e si deve votare De Magistris a Napoli e Raggi a Roma.
Perché si può votare 5Stelle
– Guido Liguori, 11.06.2016
Ballottaggio. La sinistra e i 5Stelle a piccoli passi
Il voto del 5 giugno non può essere definito soddisfacente per la sinistra, che conferma uno zoccolo duro del cinque per cento oltre il quale oggi sembra non riesca ad andare. L’eccezione significativa è Napoli, e ci tornerò più avanti. Mentre il risultato di Cagliari non costituisce una eccezione, basandosi sulla alleanza tra sinistra e Pd, improponibile se proiettata su scala nazionale. I casi più evidenti sono quelli di Roma e Torino, con candidati noti e largamente condivisi come Fassina e Airaudo.
Sarebbe ingeneroso imputare loro colpe specifiche: questi due risultati non fanno che confermare un dato non locale e non solo momentaneo. Né altre liste “più di sinistra” o “più di movimento” possono vantare risultati significativi, anzi. Alcune riflessioni e alcune ipotesi non scontate dunque si impongono.
I 5s sono gli unici a uscire vincitori dal voto, e il secondo turno, comunque vada, non cambierà il fatto che essi sono oggi il primo partito in Italia, o possono diventarlo. I 5s prosciugano al momento l’area della protesta: lo si è detto e ripetuto, si è tentato e sperato di annullare o aggirare questo fatto, ma nonostante la zona di insofferenza per il renzismo si allarghi nel paese, la sinistra non intercetta lo scontento e sono solo loro a trarne giovamento. Intanto annotiamo che il movimento fondato da Grillo ottiene oggi il suo lusinghiero risultato introducendo forse a sorpresa un elemento in controtendenza con la personalizzazione della politica largamente diffusa: chi conosceva Virginia Raggi o Chiara Appendino prima che iniziasse la campagna per le comunali? È un fatto su cui riflettere. Esso indica che vi è un movimento di popolo che si esprime attraverso perfetti sconosciuti, tanta è forte la insofferenza per la classe politica. Con tanti saluti alla “democrazia del leader”.
Un altro risultato importante che va riconosciuto ai pentastellati è il fatto che essi hanno fatto saltare il letto di Procuste a cui ci ha condannato nel 2008 il democratico Veltroni, cercando di amputare le “eccedenze”, come il celebre bandito della mitologia greca. Certo, tra le eccedenze c’era anche e soprattutto la sinistra, e Veltroni è riuscito per il momento nell’intento. Ma inaspettatamente altri soggetti sono usciti dal sottosuolo e hanno gridato il loro no. C’è chi dice no a una idea di democrazia “occidentale” a uso e consumo delle élites, dunque. In vista del prossimo referendum questo è un dato decisivo, per difendere la Costituzione e poi anche per affossare quell’Italicum che è la peggiore legge maggioritaria che abbia mai visto questo paese, peggiore della legge del fascista Acerbo del 1924 e della “legge truffa” del 1953. Questo fronte di lotta, di difesa della democrazia, resta quello fondamentale e va ricordato sempre, anche quando si vota per le comunali, poiché la difesa della democrazia è più importante dei treni in orario e delle strade pulite, che pure sono obiettivi a cui non rinunciare.
Rileggendo quanto ho scritto, mi accorgo di aver usato termini (“classe politica”, “élite”) propri di quella teoria elitista che era sì una teoria reazionaria, ma con la quale già Antonio Gramsci aveva capito che si doveva fare i conti, anche se certo con l’intenzione di superarla, introducendo uno scarto democratico, una possibilità reale di autogoverno, non prevista da quella storia vista dagli elitisti come sempre uguale a se stessa. È contro una classe politica eternamente solidale nella difesa del privilegio e dell’imbroglio, che sono per Gaetano Mosca la vera essenza del parlamentarismo trasformistico, che il popolo del sottosuolo si è ribellato.
È contro la legge della “circolazione delle élite” (le élites invecchiano e inevitabilmente vengono sostituite da élites più giovani, ma nulla cambia nella sostanza) di cui parla Vilfredo Pareto, che agiscono senza saperlo i peones che si ribellano nelle urne o nelle strade. È anche contro la “legge ferrea della oligarchia” operante persino nei partiti sedicenti di sinistra, legge denunciata dall’ex-militante della Spd di inizio ’900 Robert Michels, che il popolo dei 5s ha riempito le piazze, anche rispondendo a parole d’ordine demagogiche, alla famosa “antipolitica”, che certo però non è nata sotto i cavoli.
Populismo, si dirà. Certo. Ma non tutti i populismi sono uguali. Vi sono populismi di destra e di sinistra. Vi è il populismo della Le Pen e il populismo di Podemos, ad esempio: hanno segni, cifre, orizzonti del tutto opposti. Se votassi in Spagna voterei per Izquierda Unida, senza dubbio. Ma sono molto contento che questo fronte di sinistra (nel quale da molti anni sono anche i comunisti) sia oggi alleato con Podemos nella coalizione elettorale Unidos Podemos, una sfida politica che ha per posta il governo del paese iberico. (E ripeto en passant che anche in Italia l’idea di una “izquierda unida”, di un “frente amplio” come quello che ha governato l’Uruguay per tanti anni, non era – e continua a non essere – affatto peregrina per la sinistra).
Populista è anche De Magistris, si dice. E infatti aggira i partiti e instaura un contatto diretto col suo popolo. E attacca frontalmente il peggior populismo esistente, quello di Palazzo Chigi, che non sfonda anche per il servaggio che esibisce verso i vari potentati economico-finanziari. A Napoli De Magistris vince: è l’unico caso in cui la sinistra vince. Quando il sindaco di Napoli iniziò la sua avventura politica, fece notare in una intervista i due ritratti che aveva alle spalle nel suo ufficio: Che Guevara ed Enrico Berlinguer, il Berlinguer che andava in barca a vela scrutando l’orizzonte, affrontando a inizio anni ’80 – aggiungo –, dopo la brutta parentesi della “solidarietà nazionale”, il mare aperto del “rinnovamento della politica”, della questione morale, del ritorno alle lotte e ai movimenti. De Magistris non è né Che Guevara, né Berlinguer, per carità. Ma l’indicazione simbolica, benché parzialmente sincretica, era forte, e non è mai stata rinnegata. Piaccia o no, se ne vedono i frutti.
Dunque, è possibile una alleanza tra la sinistra e un partito populista, per far saltare il tappo delle élites al potere? Forse sì. Ma ve ne sono le condizioni in Italia? No, oggi no. Possiamo però provare a costruirle. Iniziando da queste elezioni comunali. Che indicazioni di voto dare per i ballottaggi alle compagne e ai compagni, a questo cinque per cento che ancora ostinatamente si raccoglie intorno alle bandiere rosse della sinistra? Nessuna indicazione, tutti liberi di disperdersi tra astensione, voto masochista al Pd, voto in ordine sparso ai 5s? Sarebbe solo la non scelta di chi ha paura di dividersi. Bisognerebbe invece, con coraggio, fare un passo: offrire apertamente questi voti ai candidati 5s. In cambio di cosa? Non di posti o di potere, certo.
In cambio di gesti simbolici e politici (la collocazione a Strasburgo, ad esempio) che facciano intendere, a noi e a tutti, che i 5s sono o vogliono essere, per dirne una, antifascisti e antirazzisti. La sinistra è nata due secoli fa per abolire il privilegio, per distribuire democraticamente potere e risorse: ci dicano se questo ci unisce o ci divide. Sarebbe, in caso di risposta positiva, un riconoscimento reciproco.
I 5s credo non accetterebbero, oggi, come non ha in un primo tempo accettato Podemos in Spagna l’offerta di alleanza di Izquierda Unida. Beninteso, Podemos e 5s sono diversi. Ma la cocciutaggine dei fatti è la stessa, e opera potentemente in Italia come in Spagna. Non aspettiamo di subire gli aventi: prepariamoli.
Anche molte compagne e molti compagni della sinistra che oggi giudicherebbero questa alleanza improponibile dovrebbero pian piano iniziare a pensarne la fattibilità e l’opportunità. Da qui potrebbe partire un discorso nuovo per la sinistra in Italia.
© 2016 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICEPerché si può votare Pd
– Antonio Floridia, 11.06.2016
Ballottaggio. Renzi ha già preso il colpo, si può scegliere il sindaco
I guasti che ha prodotto Renzi, il suo modo di fare, ancor prima che la sua strategia politica, si possono misurare con mano in questi giorni, avvicinandosi i ballottaggi. Questi, per la loro stessa natura, offrono sempre una possibilità di scelta che appare scomoda e insoddisfacente, per tutti coloro che al primo turno avevano scelto un’altra opzione. Tuttavia, in condizioni normali, un elettore ragionevole è in grado di misurare la distanza che separa le proprie idee da quelle dei due candidati rimasti in corsa.
Questo sembra proprio non stia accadendo in questi giorni: in condizioni normali, per un elettore di sinistra, per quanto critico possa essere con il Pd, non dovrebbero esserci dubbi, posto di fronte alle alternative che si profilano nelle principali città italiane, ma anche in molti altri comuni. Sarebbe logico, comunque, votare per un esponente democratico, a fronte di alternative o apertamente di destra o ambiguamente impolitiche, come quelle incarnate dal M5S. Ma non è così: la scelta astensionista, o il dilemma tra l’astensione e il voto al M5S, sembra dividere apertamente quell’area di elettori che, al primo turno, avevano votato a sinistra.
E rischia di dividere pesantemente anche una forza politica in costruzione, come Sinistra Italiana.
Siamo di fronte ad uno dei frutti più avvelenati del renzismo. Ciò che ha ispirato Renzi, in questi anni, è una logica profondamente divisiva, anzi provocatoriamente divisiva: una logica da terra bruciata, tesa a delegittimare ogni possibile interlocutore alla propria sinistra, o che non appaia prono ai suoi voleri.
Ma gli effetti perversi che tutto ciò ha prodotto sono ora evidenti. Muovendo dalla pretesa e dalla presunzione di costruire il Pd come un partito pigliatutto, e onnivoro e autosufficiente, il Pd si ritrova senza un sistema di possibili alleanze, senza alcun potere di coalizione, isolato nella sua (peraltro declinante) forza elettorale, anche quando questa (e non è il più il caso di Roma, ad esempio) è ancora notevole.
I ballottaggi mettono a nudo, con crudezza, questa condizione di isolamento. Non solo, ma questa strategia ha finito per rivelarsi del tutto fallimentare anche da un altro punto di vista: la rincorsa all’anti-politica ha finito per legittimare la forza che dell’anti-politica fa la sua cifra dominante, ovvero il M5S, e per farne l’unico vero antagonista. E del resto, è chiaro: se scegli questa narrazione, ci sarà sempre qualcuno più anti-politico di te, e più credibile, da questo punto di vista.
Qualcuno si sta chiedendo come mai il M5S non sia stato minimamente scalfito da due anni di dosi massicce di populismo renziano? E come, anzi, credo che analisi più approfondite lo dimostreranno – il M5S si stia radicando anche da un punto di vista territoriale, con una presenza diffusa anche nei centri urbani medio-piccoli?
Si spiega così il fenomeno a cui stiamo assistendo: un elettore di sinistra, normalmente sbeffeggiato, perché mai dovrebbe ora correre in soccorso dei candidati democratici in difficoltà? E’ legittimo il sospetto che, una volta acquisiti questi voti, Renzi li possa usare secondo il suo stile e i suoi modi. E che tutto continui come prima.
Tuttavia, qualche dubbio rimane, e un supplemento di riflessione appare auspicabile: questa
reazione istintiva, del tutto comprensibile, alla fine produce qualcosa di buono, innanzi tutto per il governo di queste città (che rimane pur sempre la principale posta in gioco)? E poi, da un punto di vista politico, bisogna considerare un altro aspetto: il colpo a Renzi è stato già dato, e non sarà facile da riassorbire. Si è già creato un fatto politico incredibile, su cui pochi avrebbero scommesso qualcosa, ancora pochi mesi fa: ossia, Renzi è divenuto un indesiderabile, la sua presenza a fianco dei candidati sindaci giudicata contro-producente. Renzi sta cominciando a normalizzarsi (o sgonfiarsi): e quindi anche l’atteggiamento nei suoi confronti potrebbe anche uscire da una logica che, in definitiva, rischia di apparire subalterna: come se tutto dovesse essere valutato sempre e solo in funzione di quello che lui fa, dice o pensa di fare. Per questo, è possibile rivolgere agli elettori di sinistra un invito: città per città, sulla base di valutazioni necessariamente specifiche, non può essere considerata un’eresia il voto al candidato che esprime comunque un’opzione democratica. Forse, possiamo tornare a ragionare come si ragiona, normalmente, di fronte ad un ballottaggio: votare per chi, anche solo in parte, pensiamo possa essere un sindaco migliore.
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