Il numero di quanti hanno votato al referendum del 17 aprile contro le trivelle, 15.806.788, e in particolare i 13.334.754 che hanno votato SI’: ecco il punto di partenza per un’analisi della situazione politica. Le basi su cui poggia il ragionamento da fare sono due:
– nel corso che i vertici della Repubblica Pontificia tentano di imporre al paese rientrano le manovre per impedire, o per lo meno svuotare di significato e valore, l’esercizio della volontà popolare: elezioni politiche rimandate o evitate, esito dei referendum disattesi e boicottati, se non apertamente violati (a metà aprile il governo ha ufficialmente stracciato il SI’ all’acqua pubblica del referendum 2011, imponendo la privatizzazione dei servizi pubblici fra cui quelli idrici – riforma Madia sulle partecipate, bloccata per ora dal Consiglio di Stato), svuotamento del ruolo delle assemblee elettive (il Parlamento è sempre più ufficio di ratifica delle manovre del governo);
– a questo si combina la tendenza delle masse popolari a partecipare sempre meno ai riti liturgici della democrazia borghese, riti che i vertici della Repubblica Pontificia, se non riescono a impedirli, tentano di manovrare e pilotare. Cresce, a ogni modo, l’astensione come forma di disaffezione al sistema politico, sfiducia e protesta.
Su queste due basi si innestano i ragionamenti sul valore di quei 13.334.754 di voti per il SI’.
1. L’esito del referendum aumenta le contraddizioni fra le fazioni dei vertici della Repubblica Pontificia che sono già alle prese con la crisi economica, gli immigrati e il bisogno di occupare la Libia vedendosela con l’ISIS e gli altri. Per inquadrare la questione va considerato che già l’indizione del referendum era frutto della guerra per bande dentro il PD (promosso da 7 governatori di regione del PD, uno della Lega e uno di Forza Italia). Nonostante i tentativi di Renzi prima di boicottarlo e poi di tenerlo il più possibile fuori dalla discussione politica, ci ha pensato la magistratura ad agitare la campagna referendaria aprendo l’inchiesta che ha portato alle dimissioni della ministra Guidi e ha scoperchiato il giro di corruzione e speculazione sulle concessioni per l’estrazione del petrolio in Basilicata (Tempa Rossa) che coinvolge i nomi “forti” del governo Renzi, fra cui l’onnipresente Boschi (e la cricca massonica di Arezzo). Anche nel campo del Vaticano la campagna referendaria è stata occasione per agitare le acque: i vescovi hanno dato indicazione di andare a votare in aperta contrapposizione con gli appelli di Renzi e Napolitano all’astensione: un segnale che se non ha avuto un decisivo peso pratico (l’indicazione non è stata seguita da legioni di fedeli della Chiesa) è un messaggio tutt’altro che trasversale che una componente importante del Vaticano, che ha avuto ruolo decisivo nell’installazione di Renzi, manda al governo.
2. Ma questi più di 13 milioni di votanti per il SI’ hanno anche in un certo modo incoraggiato ulteriori sommovimenti nei vertici della Repubblica Pontificia: Davigo, già membro del pool di Mani Pulite ai tempi di Tangentopoli e oggi presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, appena eletto a metà aprile, rilascia dichiarazioni che alimentano la guerra fra governo e magistratura. Alla domanda de Il Fatto Quotidiano se in termini di rispetto della legalità notasse differenze fra il governo Renzi e quelli precedenti, risponde: “Qualche differenza di linguaggio, ma niente di più: nella sostanza, una certa allergia al controllo di legalità accomuna un po’ tutti”. E al Corriere della Sera ha dichiarato che “l’unica differenza fu che la destra le fece così grosse e così male che non hanno funzionato; la sinistra le fece in modo mirato (…) il governo Renzi fa le stesse cose. Aumenta le soglie di rilevanza penale. Aumenta la circolazione dei contanti, con la scusa risibile che i pensionati non hanno dimestichezza con le carte di credito; ma lei ha mai visto un pensionato che gira con tremila euro in tasca?”. Insomma la magistratura, almeno la parte che ha eletto Davigo come rappresentante, prende le contromisure e si prepara a non abbassare i toni di fronte agli attacchi di Renzi, degno erede di Berlusconi nella battaglia per rovesciare gli equilibri fra poteri istituzionali definiti dalla Costituzione.
3. Quasi 16 milioni di voti sono stati insufficienti per raggiungere il quorum il 17 aprile, ma sono una minaccia concreta, un numero assoluto da cui non si può scappare con le retoriche sulle percentuali: il referendum sulle riforme costituzionali previsto per il prossimo autunno non prevede quorum e i milioni che hanno votato più o meno direttamente contro Renzi (ma la maggioranza lo ha fatto direttamente e coscientemente) sono di gran lunga di più degli 11 milioni che votarono per il PD alle europee del 2014, nel momento del massimo successo di pubblico strappato da Renzi. Di certo Renzi, e con lui e attraverso di lui i vertici della Repubblica Pontificia, non hanno gli argomenti, la credibilità e la possibilità di indurre la maggioranza degli elettori ad andare a votare per consentire le riforme costituzionali. Anzi, proprio Renzi ha fatto di tutto, riuscendoci pure, per fare dell’astensione un suo punto di forza (il suo famoso 40,8% alle elezioni europee del 2014 era il risultato della bassissima percentuale di votanti, appena 28.908.004 su 49.256.169 aventi diritto… diciamo che Renzi non perde le elezioni solo perché non ci sono altri che vincono). Senza potere e senza voler dare per conclusa e vinta una battaglia che invece è tutta da combattere, è un fatto oggettivo che la possibilità di Renzi di vincere il referendum costituzionale si presenta oggi come remota.
4. Ma sulla riforma della Costituzione, la “riforma delle riforme”, Renzi ci aveva scommesso tutto, al punto di annunciare nel gennaio scorso che in caso di sconfitta avrebbe abbandonato la politica. Le sue promesse valgono zero, ma dietro a quella che al momento in cui è stata pronunciata era una minaccia rivolta ai riottosi dello schieramento dei suoi sostenitori, ci sta un fatto politico di grande portata: Renzi non può permettersi di perdere quel referendum. Per questo motivo l’esistenza del governo Renzi è oggi più precaria e instabile. I vertici della Repubblica Pontificia sono ancora una volta, nel giro di pochi anni, alle prese con una crisi politica che compromette la loro stessa esistenza e l’esistenza della Repubblica Pontificia per come è esistita dal dopoguerra ai giorni nostri.
5. In condizioni che divergono significativamente per alcuni aspetti, i vertici della Repubblica Pontificia sono oggi con Renzi nella stessa situazione in cui si trovarono nel 2011 con Berlusconi: una vasta, radicata e capillare avversione verso il governo da parte delle masse popolari e dispiegate mobilitazioni contro le sue politiche; un governo impossibilitato e incapace di liberarsi dalle crescenti pretese di comitati di affari, cricche, consorterie e faccendieri che ne avevano sostenuto la costituzione e vi avevano fatto confluire uomini e risorse, facendone ambito e strumento di affari e speculazioni; le pressioni crescenti legate alla crisi politica internazionale che si abbattono sulla situazione politica nazionale, scandali, colpi bassi, ricatti. Nel 2011 i vertici della Repubblica Pontificia usarono la spinta della mobilitazione popolare e il diffuso malcontento per liberarsi di Berlusconi e per, una parte di essi sull’altra, imporre Monti come suo successore. Come l’operazione fu possibile allora, gli stessi compari sperano sia possibile oggi: se necessario cacciare Renzi sulla spinta di quei sedici milioni di votanti al referendum del 17 aprile e delle dinamiche che hanno innescato (a cui vanno aggiunte le scosse che provocheranno le elezioni amministrative, l’acuirsi delle mobilitazioni popolari, prima fra tutte qua che riguarda il CCNL, quelle dei pensionati, quelle contro la Buona Scuola, lo Sblocca Italia, ecc.), magari rimandare con qualche colpo di mano il referendum costituzionale a tempi migliori e intanto combattere la loro propria guerra per bande per imporre uno sugli altri il prossimo “salvatore della patria”, eventualmente passando attraverso le elezioni per dare una parvenza di legittimità al tutto (ma l’esito di elezioni politiche sarebbe un’incognita…). Sono costretti a combattere fra loro, ma sono costretti a trovare una mediazione a qualunque prezzo, pena la deriva istituzionale, politica ed economica del “paese”: dei loro interessi e degli interessi dei gruppi imperialisti USA e franco-tedeschi. L’unica vera alternativa a questo processo coatto sono le masse popolari organizzate, le organizzazioni operaie e popolari. Se non si accontentano di cacciare Renzi come nel 2011 si accontentarono di cacciare Berlusconi, ma pretendono di imporre un corso nuovo al paese, pretendono di imporre un governo di loro fiducia, espressione delle loro aspirazioni. Va precisato che non ha alcuna rilevanza, nella situazione politica in cui siamo, alcuna obiezione sulla “legalità” di una simile pretesa da parte delle masse popolari e sulla possibilità di una simile evoluzione: la classe dominante, dal canto suo, ha ampiamente dimostrato di non avere alcun riguardo per le sue leggi quando si tratta di far valere i propri interessi di classe; le masse popolari, dal canto loro, devono “semplicemente” far valere che è legittimo tutto quello che è conforme agli interessi collettivi e imporre la loro volontà. I vertici della Repubblica Pontificia sono nel loro insieme talmente deboli che una parte di essi sarà disposta ad accettare, sperando sia soluzione transitoria e il più possibile pacifica e indolore, un governo di emergenza popolare, contando di riprendere il pieno controllo della situazione “quando le condizioni si saranno stabilizzate” e contando, inutile dirlo, di avere possibilità, capacità e strumenti di rendere l’operato di tale governo sterile, boicottandolo in ogni modo. Quello che la classe dominante oggi conta di fare è secondario. Ciò che conta, ed è principale, è che la classe dominante è costretta e quindi disposta a ogni soluzione pur di limitare in qualche modo il precipitare di una crisi politica che la disgrega e la devasta. Il paese è ingovernabile e per i vertici della Repubblica Pontificia lo sarà sempre più. Solo le masse popolari organizzate possono imporre una nuova governabilità.
6. Eccoli qua, nella fase della società borghese in cui il teatrino della politica, le consultazioni elettorali e i riti della democrazia borghese sono effettivamente inutili a imporre al paese una linea politica, il peso e il valore del voto di quasi 16 milioni di persone che non sono bastati a vincere il referendum del 17 aprile: in senso ben diverso da come ce l’hanno raccontato i pifferai della democrazia borghese, si mostra in tutta la sua forza potenziale il peso dello schieramento, della volontà e della decisione delle masse popolari. Vero che attraverso le regole e le leggi che la borghesia impone alla lotta politica sono ininfluenti, ma sono decisive per la costruzione del Governo di Blocco Popolare.