L’Associazione di Balletto Classico Cosi-Stefanescu di Reggio Emilia è considerata un’eccellenza a livello nazionale (e non solo) per il livello qualitativo e la trentennale tradizione nell’insegnamento ed è composta dalla Scuola e dalla Compagnia teatrale che complessivamente impiegano 25 lavoratori; diversi dei suoi insegnanti e ballerini provengono e hanno fatto esperienza negli ex paesi socialisti, dove il balletto classico è una delle massime forme di espressione artistica e culturale delle masse popolari, una delle grandi conquiste di civiltà lasciate in eredità dalla prima ondata della rivoluzione proletaria. L’Associazione è a rischio di chiusura per i debiti accumulati verso la fiscalità generale, il problema è quindi determinato dal fatto che nel capitalismo la danza e in generale le attività specificamente umane non sono considerate strumento di evoluzione e sviluppo della società, ma semplicemente uno dei molteplici campi di valorizzazione del capitale: una merce come le altre che se non genera profitto non viene prodotta.
Al contrario, nel socialismo le attività propriamente umane e la progettazione della vita sociale sono poste a premessa della partecipazione crescente di tutta la popolazione. E’ per questo problema di fondo (la natura delle società) che la Scuola e la Compagnia sono private ed è per questo che la borghesia, il suo Stato e l’Amministrazione Comunale locale non hanno interessi a dedicare risorse per sviluppare questa attività.
I lavoratori della Scuola Cosi-Stefanescu non si sono arresi alla chiusura e si sono mobilitati a cominciare dal proprio interno, con il coinvolgimento di tutti i lavoratori e degli utenti: studenti e genitori, amministratori pubblici “sensibili”, lo stesso pubblico. Il secondo passo, quello decisivo, è consistito nell’uscita all’esterno con la costruzione di un’assemblea pubblica nella quale è stata riversata la battaglia portandola all’attenzione delle masse popolari reggiane e delle loro organizzazioni operaie e popolari. Si è posta al centro la questione che la città avrebbe perso non solo 25 posti di lavoro, il che sarebbe un motivo più che sufficiente a spingere alla mobilitazione, ma un patrimonio culturale, artistico ed educativo; un bene comune che secondo i canoni della classe dominante, basati unicamente sul margine di profitto, non è di particolare interesse e ha pure il difetto di educare le masse popolari alle attività specificamente umane.
I lavoratori si stanno confrontando per decidere quali nuove forme di autorganizzazione mettere in campo per proseguire e rilanciare le attività, non cercano solo un escamotage legale e finanziario, ma si tratta di costruire una nuova organizzazione collettiva del lavoro che rilanci a un livello superiore la Scuola.
Nonostante le fanfare dei quotidiani locali danno la scuola già per spacciata, i componenti dell’Associazione continuano il percorso di mobilitazione per ampliarla a livello cittadino; ad esempio chiedono la concessione gratuita (come sottoscrizione) degli spazi comunali per portarvi l’arte dei propri spettacoli.
Questa esperienza piccola e per certi versi atipica (non è la “classica” mobilitazione operaia in difesa del posto di lavoro) rappresenta però un esempio di carattere generale per migliaia di situazioni analoghe, nelle quali le condizioni oggettive attuali costringono masse popolari e lavoratori a cercare soluzioni nuove e creative per difendere il posto di lavoro.