Ricami per la rivoluzione
Una volta, Sou Cheou era noto per il suo artigianato di ricami, più o meno come Le puy era celebre da noi per i pizzi. Ma le ricamatrici lavoravano a domicilio e conducevano una vita miserabile.
Dopo la liberazione, il partito comunista lanciò la parola d’ordine della partecipazione delle donne alla produzione sociale, a Sou Cheou come in tutta la Cina. In questa città si sarebbero potute costruire delle fabbriche e poi spingere le donne ad andarci a lavorare: invece la direzione rivoluzionaria prese un’altra strada. Vivevano a Sou Cheou centinaia di ricamatrici che in questo campo avevano acquisito grandi abilità. Per generazioni, si erano consumate gli occhi per far vivere di fiori e farfalle le vesti dei ricchi proprietari. Bisognava distruggere quest’arte che le classi possidenti si erano appropriate o bisognava trasformarla e restituirla al popolo? La scelta fu probabilmente difficile. L’idea di “socializzare” delle ricamatrici non era certo un’idea bell’e fatta nel movimento operaio degli anni cinquanta. Un’interpretazione meccanicistica di Marx portava a pensare che si poteva socializzare un processo di produzione soltanto sulla base dello sviluppo preliminare del processo di meccanizzazione.
Questa “eresia” non turbò affatto le donne comuniste di sou Cheou. Il popolo cinese aveva bisogno di una sua arte, come le piante hanno bisogno di acqua. Le ricamatrici erano utili al popolo, e non volevano sentire ragioni del tipo che un paese con qualche centinaio di milioni di abitanti, con un’economia ancora sottosviluppata, che cominciava appena ad uscire dalla maledizione secolare, non certo divina, ma al contrario molto “sociale”, delle carestie e delle guerre, aveva più bisogno di macchine che di arte. Non si fa rivoluzione senz’arte!
A Sou Cheou, come a Chaou Yan, la determinazione di un piccolo gruppo di donne, soltanto otto, spinse la grande massa alla cooperazione. Dovettero affrontare l’ostilità delle ricamatrici a domicilio. In primo luogo, la tecnica del ricamo si trasmetteva di generazione in generazione e ciascuna conservava gelosamente qualche segreto di famiglia. Collaborare significava la trasmissione dei loro segreti e con ciò la loro svalorizzazione. Allo stesso modo, i motivi del ricamo, per essere apprezzati dovevano essere originali; se altre riproducevano gli stessi motivi, che cosa sarebbe accaduto? E poi il lavoro a domicilio ha anche qualche vantaggio: per esempio si può lavorare e custodire i bambini…
Le otto “femministe” non si arresero: presero seta, forbici, aghi e bambini e cominciarono a ricamare insieme, mettendo tutto in comune: esperienza, iniziativa, entusiasmo.
Dopo qualche mese, si potè constatare che non soltanto il lavoro comune non aveva reso banali i motivi del ricamo, ma li aveva moltiplicati. Facevano insieme i disegni, discutevano i progetti, li criticavano e li miglioravano. Ne fecero di più e di migliori loro otto messe insieme che cento ricamatrici rinchiuse ciascuna nella loro casa. Sul piano della tecnica propriamente detta, fecero progressi straordinari. In passato, si era sempre ricamato un solo lato della seta: ora, invece, avevano messo a punto un metodo, per ricamare dai due lati, e ciò dava molto più spessore al disegno e moltiplicava le possibilità di “rilievo”. In un anno, la cooperativa si sviluppò, passando da otto a cento membri.
A quell’epoca esistevano ancora capitalisti in Cina (infatti fino al ‘56 continuarono a esistere piccole imprese capitaliste sotto il severo controllo dello Stato) e i “setaioli” di Sou Cheou non vedevano di buon occhio lo sviluppo di quel “falansterio di arrabbiate”. Tentarono di spezzare il movimento aumentando il prezzo d’acquisto dei ricami. Per esempio, i cuscini ricamati che lo Stato acquistava al prezzo di 20 fen ciascuno dalla cooperativa, venivano pagati dai setaioli 24 fen, a condizione che fossero fatti in casa. Questo metodo non ebbe il successo sperato, al contrario aprì gli occhi a molte donne: “Si era mai visto un capitalista aumentare la paga degli operai prima ancora che questi lo chiedessero? C’era qualcosa che non andava…” Si strinsero i ranghi attorno alla cooperativa. Molto rapidamente la vendita dei ricami e l’aiuto dello Stato permisero alla cooperativa di garantire una stabilità di salario ai membri, mentre dai tempi dei tempi le ricamatrici individuali erano sottoposte agli ordini dei setaioli e alla concorrenza tra di loro. Esse ebbero diritto, come tutti gli operai cinesi, all’assistenza medica interamente gratuita; d’altra parte organizzarono un nido e un asili nei giardini che attorniavano la fabbrica. I fondi di accumulazione permisero di allargare la produzione: acquistarono grandi stenditoi di seta (specie di riquadri di legno, messi su piedi, che permettono di tendere la seta da ricamare) per poter realizzare grandi motivi di ricamo, che effettuavano a più mani.
Sul piano politico, le donne (ed è noto che le donne non capiscono niente di arte, essendo l’arte una creazione e in materia di creazione le donne si limitano a perpetuare la specie!) ebbero la pretesa di immischiarsi nelle questioni artistiche.
Ci voleva del coraggio per affermare che degli operai, peggio, delle donne, capivano qualcosa in questo campo. Chi servire? Il popolo o i suoi nemici? Tenersi alle tradizioni ancestrali o rinnovare? Rappresentare re e imperatori o il popolo in marcia? Il dibattito era molto vivace. Con il pretesto di preservare le antiche tradizioni, certe donne, dominate dall’ideologia borghese, dicevano che non si poteva con aghi sottili rappresentare le mani callose dei contadini. Portavano avanti la teoria che tutti gli sforzi dovevano essere diretti a migliorare la tecnica e non a cambiare i contenuti. Per questo, prima della rivoluzione culturale, ancora una gran parte dei ricami rappresentavano gli eroi del passato, così cari agli antiquari parigini del Faubourg Saint-Honoré. Ma presto si constatò che anche nella tecnica quelle stesse donne difendevano linee false. Per esempio la quasi totalità delle ricamatrici era confinata nell’esecuzione dell’insieme del ricamo, mentre le poche iniziate si dedicavano ai volti; e lo facevano di nascosto, per conservare il privilegio. Questo faceva schiumare di rabbia le ricamatrici, che non ne volevano più sapere di produrre sempre paesaggi o corpi decapitati. La direzione della fabbrica era sfuggita dalle mani degli operai e nei fatti era una squadra di esperti a prendere le decisioni senza nemmeno preoccuparsi dei desideri e delle aspirazioni delle donne. Una giovane ricamatrice racconta:
“Sin dall’infanzia bruciavo di desiderio di ricamare sulla seta i volti degli eroi rivoluzionari che hanno liberato la Cina. Ma mi prendevano in giro: ‘Sei troppo giovane! Non sai ancora far bene i cieli e le campagne… Come riusciresti a fare nasi e occhi? Sei troppo ambiziosa!’ Ci provai, da sola, ma non ci riuscii. Piena di amarezza, mi rimisi a fare cieli e campagne. Durante la rivoluzione culturale, abbiamo deciso che i volti non sarebbero più stati una riserva di caccia o un privilegio. Tutte dovevano avere la possibilità di farli. Bisognava insegnare i metodi a tutte le ricamatrici. Abbiamo fatto numerosi tentativi e non sempre ben riusciti. Io, ad esempio, una volta avevo ricamato una sentinella che, vigilante, nascosta nell’ombra, spiava il nemico. Volevo dare al ricamo l’impressione di silenzio pesante e di immobilità che si prova nel sentir raccontare quelle scene; ma le mie compagne si misero a ridere vedendo il ricamo: ‘Senti un po’, la tua sentinella ha corso molto, è senza fiato, è paonazza, deve sicuramente ansare come un bue. Se il nemico non la sente, deve essere proprio sordo!’ Ero disperata, ma subito, riprendendo il tono serio, le compagne mi dissero: ‘Non è grave, se non si fanno esperienze, non si potranno ottenere vittorie; ricominceremo insieme, cercando di non metterci troppo rosso. Piano piano ci riusciremo’. Effettivamente, benché sia abbastanza difficile, oggi siamo tutte in grado di fare dei volti, perché cerchiamo di aiutarci e non lavoriamo più di nascosto”.
Nella fabbrica, dove lavorano oggi 1600 ricamatrici, abbiamo visto dei giovani seduti ai telai mentre ricamavano, consigliati da donne. Edith domandò a uno di loro: “Non ti secca fare un lavoro da donna?” “Al contrario, mi piace. Ma non è un mestiere da donna; era la vecchia società a ragionare così: mestiere da uomo, mestiere da donna. I tempi sono cambiati” “Ma gli altri uomini non vi prendono in giro?” “No, il ricamo è utile per la rivoluzione. Oh, certo, ce ne sono ancora che pensano che sono cose da donne.” E aggiunse con un sorriso: “La lotta di classe non è finita, bisogna continuare la battaglia”.
Claudie Broyelle, La metà del cielo. Il movimento di liberazione della donna nella Cina di Mao, Milano, Bompiani, 1974