Quando entrai nei CARC, circa 15 anni fa, il motivo della mia adesione era la combinazione di tre aspetti:
cercavo una spiegazione al crollo dei primi paesi socialisti e ai limiti per cui il movimento comunista non era riuscito a instaurare il socialismo in nessun paese imperialista, fra cui l’Italia, e qui la trovavo;
cercavo un organismo che lottasse con decisione contro la borghesia e che definisse chiaramente come suo obbiettivo, con una linea, la rivoluzione socialista e qui lo trovavo;
cercavo un organismo che fosse un baluardo contro la repressione, che avesse una linea di attacco e vincente e qui lo trovavo.
La mia adesione al comunismo era tipicamente identitaria (di bandiera, di cuore). 15 anni fa iniziava a esaurirsi il ruolo positivo che le Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista (i gruppi nati sull’onda del movimento degli anni ’70 del secolo scorso) avevano svolto fino ad allora: nel 2004 fu infatti fondato il (n)PCI e anche i CARC divennero Partito (vedi in proposito Resistenza n.6/2015 e La Voce n. 50). L’adesione identitaria era ancora l’aspetto predominante e base della coesione ideologica fra le nostre fila, anche se le cose iniziavano a cambiare: l’elaborazione della Carovana si sviluppava (la sintesi di questo patrimonio, il Manifesto Programma del (n)PCI, viene pubblicato nel 2008) e la crisi generale entrava nella fase acuta e irreversibile (nel 2007/2008). Diventavano sempre più chiare tre cose:
a) che stante il precipitare della crisi, era necessario che i comunisti si dotassero di una linea tattica adeguata alle condizioni concrete per avanzare nella lotta per il socialismo (la linea del GBP, lanciata dal (n)PCI nel 2009);
b) che stante il precipitare della crisi e i sommovimenti politici e sociali era necessario che i comunisti assumessero un ruolo superiore nella lotta di classe in corso, benché le nostre forze fossero ridotte e il nostro livello organizzativo inadeguato (il GBP non cade dal cielo, la sua costituzione dipende dalla nostra opera, dipende da noi comunisti);
c) che l’adesione identitaria non era più sufficiente a garantire lo sviluppo e la qualità dell’attività, in particolare dei dirigenti.
In passato, ai tempi del riflusso del movimento degli anni ’70 del secolo scorso, della dissociazione e del pentitismo, del “crollo del comunismo” e dell’anticomunismo imperante, della repressione, della derisione, dell’isolamento, l’adesione identitaria era stata invece determinante contro la disgregazione delle forze ed era la base per raccogliere e ripartire, ma in quel contesto era necessaria una trasformazione del modo di concepire l’essere e fare i comunisti. Non bastava più professarsi e proclamarsi, occorreva apprendere, assimilare e applicare la concezione comunista come metodo per conoscere la realtà e come guida per l’azione. Passare dall’adesione identitaria a quella cosciente: assimilare e praticare la concezione comunista del mondo nella condotta personale e nell’attività interna ed esterna del Partito.
Nel 2010 il P.CARC ha iniziato quindi un lavoro via via più sistematico e articolato di formazione dei dirigenti e membri, la Carovana del (n)PCI ha sviluppato l’elaborazione di metodi e strumenti per la formazione e la cura dei compagni: è iniziato quel percorso che oggi ci porta a concludere che la Riforma Intellettuale e Morale dei comunisti dei paesi imperialisti è indispensabile ai fini della comprensione, assimilazione e sviluppo della linea della Guerra Popolare Rivoluzionaria.
Contraddizioni fra teoria e pratica. Studiare la concezione comunista del mondo (il materialismo dialettico) per conoscerlo, assimilarlo e applicarlo: questo è il contenuto della formazione e qua c’è il primo scoglio fra teoria e pratica, fra dire che bisogna studiare e studiare, fra studiare “perchè va fatto”e studiare con la consapevolezza che serve (per comprendere il mondo) e a cosa serve (per trasformarlo), in quali campi e in quale modo. Anche io, come tanti altri compagni, ho avuto e per certi versi ho ancora, resistenza allo studio. Ci sono sempre tante altre cose da fare e poi c’è l’abitudine (senso comune) di scambiare lo studio scientifico, che ha come obbiettivo l’assimilazione per elaborare, per ragionare e per sperimentare, con il nozionismo borghese che ha come obbiettivo il “sapere per sapere”, l’autoperfezionamento. La combinazione delle tante cose da fare con il nozionismo e l’autoperfezionamento porta a non usare ciò che si studia come guida per l’azione e alimenta la pigrizia intellettuale (“che studio a fare?”) e il navigare a vista: in breve l’abitudine pratica diventa l’opposto di quanto si riconosce giusto (e pure io lo riconosco) nella teoria.
“L’inadeguata conoscenza e assimilazione del materialismo dialettico è la causa dei nostri scarsi risultati”. Vero. Ma la pigrizia intellettuale alimenta quel processo attraverso cui, a fronte di risultati che si ritengono insoddisfacenti, individualmente si ricercano le cause in se stessi (periodi di avvitamento, insoddisfazione e frustrazione) o addirittura nella linea sbagliata del Partito (sono quelli che abbandonano, che disertano): è il contrario dell’atteggiamento scientifico che si va predicando.
Per chiarezza: la militanza nel Partito non è stata solo né principalmente fonte di insoddisfazione e frustrazione, ma il non imboccare con decisione la via della Riforma Intellettuale (studiare ed elaborare la teoria come guida per la pratica) e Morale (fare sulla base di ciò che si è studiato ed elaborato, con tenacia e spirito sperimentale) è la condizione preliminare per perdersi per strada.
Perdersi per strada per me non significa perdere coscienza rispetto all’opera che i comunisti si pongono di compiere (cioè non metto in discussione che il comunismo è il futuro dell’umanità), ma perdere quell’entusiasmo con cui, 15 anni fa, ho aderito alla Carovana (divenendo nel tempo un dirigente del P.CARC) consapevole che mi stavo ponendo “contro”: contro il capitalismo, contro l’insipienza della sinistra borghese, contro lo Stato della Repubblica Pontificia e i suoi servi, contro il Vaticano e per il socialismo. Quel “per il socialismo” che 15 anni fa era poco definito e che oggi è invece particolareggiato e nell’ordine concreto delle cose (la strategia della Guerra Popolare Rivoluzionaria, la linea del Governo di Blocco Popolare, il “dipende da noi”) è, contemporaneamente, il legame con la mia vecchia adesione identitaria e il peso delle abitudini e concezioni inadeguate, retrive, che devo superare per afferrare con decisione e compiere la mia Riforma Intellettuale e Morale. 15 anni fa bastava resistere, oggi resistere non è più il contenuto principale del nostro lavoro. 15 anni fa la nostra (la mia) comunità era il cerchio stretto dei compagni e delle compagne, oggi sono le masse popolari già organizzate e le ampie masse che cercano una via di uscita dall’attuale marasma. 15 anni fa le nostre responsabilità immediate (non intendo quelle storiche dei comunisti) erano ristrette alla cerchia dei militanti e agli ambiti più prossimi, oggi dobbiamo essere educatori, formatori e organizzatori sia al nostro interno (formare dirigenti migliori di noi) che all’esterno (formare e organizzare operai e lavoratori comunisti, i giovani e le donne delle masse popolari, gli immigrati). 15 anni fa il contenuto del nostro lavoro era principalmente interno e la propaganda era lo strumento con cui ci proiettavamo all’esterno; oggi la propaganda apre le porte all’organizzazione, eleva la coscienza dei nostri referenti, è uno strumento per sviluppare il lavoro sulle organizzazioni operaie e le organizzazioni popolari affinchè agiscano come Nuove Autorità Pubbliche.
Imparare a fare quello che non si sa fare, ma va fatto. Era più facile 15 anni fa, si trattava di sviluppare la parte positiva di quanto rimaneva del vecchio movimento comunista: partecipare ai picchetti e ai cortei, agli scontri e alle occupazioni, sventolare la bandiera rossa e cantare l’Internazionale, fare scena muta agli interrogatori, organizzare proteste e iniziative, scrivere volantini e comunicati in cui si denuncia quanto fa schifo il capitalismo e quanto sia oscurantista e reazionario il Vaticano, leggere libri e recensirli, studiare tanto e ritenere in virtù di ciò di essere un intellettuale organico… Badate, non voglio squalificare nessuna di queste cose, dico solo che era più facile quando tutto ciò sembrava adeguato a essere e fare i comunisti, perché oggi non è più sufficiente. La realtà impone altro: dobbiamo trasformarci per essere educatori, formatori e organizzatori comunisti. La consapevolezza che professarsi comunista non basta è il preciso motivo per cui è necessario imparare a fare quello che non si sa fare. Senza questo atteggiamento, in generale, l’umanità sarebbe all’età della pietra e io stesso sarei ben più indietro del livello intellettuale e morale rispetto a quello che mi spinse, 15 anni fa, ad aderire alla Carovana del (n)PCI.
Senza retorica, essere di fronte al nocciolo della questione che qualifica la trasformazione di un compagno dall’adesione identitaria a quella cosciente, per diventare un dirigente migliore di quello che è, per diventare educatore, formatore e organizzatore comunista, provoca una lacerazione esistenziale. Prima ci si sente inadeguati (e infatti lo si è) e anche un po’ “traditori” ricordando i tempi in cui si affermava che “per la causa farei tutto”, poi si diventa insofferenti perchè la trasformazione ci si presenta come troppo difficile, impossibile, e pure si rigetta l’idea di essere condannati a rimanere inadeguati. Questa lacerazione investe e si riflette in tutto: se stessi, i collettivi più prossimi e il partito, le relazioni personali. E porta a chiudersi. Questo è l’atteggiamento arretrato, difensivo, individuale e individualista (lo chiamiamo infatti “vecchia morale”) ed è quello che ho fatto per un certo periodo.
L’entusiasmo (e l’afflizione) è uno stato d’animo. Parlo di questa esperienza perché la crisi di avvitamento che ho vissuto e vivo non è questione mia ed esclusiva: in condizioni e con contenuti particolari tutti i dirigenti del P.CARC, soprattutto se compagni di lungo corso, si sono trovati o si troveranno a viverne di simili. Questa è la forma in cui si manifesta, individuo per individuo, la trasformazione che dobbiamo fare, che non si riassume e non si liquida in una questione di entusiasmo. Entusiasmo e afflizione sono due stati d’animo che esistono e che diventano decisivi solo se si continua a mettere in primo piano il senso comune anziché la scienza comunista e l’individuo anziché il collettivo. Se guardo ai risultati della mia attività complessiva, ai risultati dei collettivi che dirigo o in cui sono inserito, ai risultati del Partito, al percorso compiuto in 15 anni sia come individuo che con una visione più ampia del corso delle cose, non ho alcun motivo per essere afflitto. Ho anzi mille motivi per essere più tenace, creativo, fiducioso. Non è dall’entusiasmo che dipende il successo del mio e del nostro lavoro, ma dalla capacità di trasformarsi da oggetto a soggetto della costruzione della rivoluzione e dalla capacità di guardare dall’alto il processo che la Carovana del (n)PCI ha fatto in questi anni per comprendere le condizioni, le forme e i risultati della lotta di classe nel nostro paese e nel mondo e avanzare nella costruzione della rivoluzione socialista per il nostro Paese.
Scrivere questa lettera è, contemporaneamente, un modo per rielaborare collettivamente la mia esperienza e il mio percorso e un modo per mostrare che la trasformazione che siamo chiamati a compiere, che sono chiamato a fare, è per sua natura graduale e diversificata da compagno a compagno, ma tutti devono sentirne la tensione, è un processo impegnativo, di dura lotta, ma anche liberatorio. Un processo in cui si forgiano i comunisti che si assumono il compito di trasformare il mondo.