Crisi politica: Renzi, la Costituzione e l’alternativa alla Repubblica Pontificia

Quando i vertici della Repubblica Pontificia lo avevano scelto come capo del governo, scalzando Letta senza troppi complimenti, Renzi aveva assunto, precisamente, due compiti.
Il primo era portare a fondo una serie di riforme che eliminano quanto resta dei diritti e delle tutele dei lavoratori delle aziende capitaliste (degli operai, non solo dei metalmeccanici) e, insieme a essi, eliminare diritti e tutele per ampi settori delle masse popolari, dare libertà di manovra per speculatori e palazzinari, dare il colpo di grazia al sistema dell’istruzione pubblica. In questo campo rientrano sia le manovre per dare seguito alle leggi contro i sindacati combattivi ed escluderli di fatto dai posti di lavoro, sia quelle per mettere fuori gioco la CGIL (che, pur con la Camusso e gli altri nipotini di Craxi al comando, rimane il più ampio, articolato e capillare aggregato che raccoglie e organizza i lavoratori del paese). E questo lo ha fatto, con le quattro riforme già approvate dal Parlamento di imbucati e corrotti che le hanno votate pur non essendo mai stati eletti da nessuno per farlo.
Il secondo compito era portare a fondo il processo per rendere “più stabile” e “più governabile” il paese: quella serie di piccole e grandi riforme attraverso cui i vertici della Repubblica Pontificia accentrano il potere nelle loro mani.
Anche in questo campo Renzi ha premuto l’acceleratore. Il centro dello scontro delle scorse settimane, tutto interno ai vertici della Repubblica Pontificia e alle rappresentazioni del teatrino della politica borghese, è stato la riforma della Costituzione (abolizione del Senato elettivo), in stretta relazione con la riforma elettorale, l’Italicum.

Le condizioni oggettive. Sono decenni che i politicanti borghesi parlano di endemica ed eccessiva instabilità politica, di “anomalia italiana” (vedi Resistenza n. 9/2015 “Cosa è la Repubblica Pontificia?”). Le prime misure spacciate per soluzioni sono state le leggi elettorali che hanno via via limitato l’influenza delle masse popolari negli esiti delle urne e nella composizione dei governi, in favore di meccanismi che limitavano i partiti minori (soglie di sbarramento) e favorivano quelli maggiori (premi di maggioranza). La discussione sul modello elettorale ha segnato decenni di storia del paese.
Ma il procedere della crisi politica ha creato una situazione in cui non è più sufficiente limitare il peso delle masse popolari nel teatrino della politica borghese. E’ diventato necessario tagliare o almeno ridimensionare i tanti rami in cui si articola il sistema politico della Repubblica Pontificia: accentrare il potere, verso l’alto. Per farlo è necessario demolire la Costituzione. “Sulla base della Costituzione si è formata nei vertici della Repubblica Pontificia una pluralità di centri di potere, di organismi e di istituzioni che operano in relativa autonomia: organi giudiziari, magistrati, camere del parlamento, governo, Presidenza della Repubblica, amministrazioni locali, servizi segreti (ovviamente “deviati” al servizio degli USA, data la natura della Repubblica Pontificia), singoli apparati della burocrazia, carabinieri, ecc. Man mano che la crisi politica della Repubblica Pontificia si è aggravata, questi centri di potere sono diventati strumenti della guerra per bande che imperversa nei suoi vertici. È un aspetto della “ingovernabilità dall’alto” della Repubblica Pontificia. (…) L’eliminazione della Costituzione del 1948 dovrebbe portare ad un maggiore accentramento del potere” (dal Comunicato (n)PCI n. 31, 25/07/15).

Questo spinge alla resistenza la nutrita schiera di burocrati, funzionari, luogotenenti e consorterie che aveva placidamente goduto nelle pieghe delle regole e delle eccezioni, nel gorgo del debito pubblico e nella fitta rete di poteri paralleli che sono la forma specifica dell’anomalia italiana e sono stati dal dopoguerra a oggi l’articolazione della Repubblica Pontificia. La resistenza dei tanti piccoli e diffusi poteri paralleli (specificità italiana nel panorama della Comunità internazionale degli imperialisti) alimenta la crisi politica prodotta dalla crisi economica e finanziaria (male comune dei paesi imperialisti).

Pertanto, alla luce di ciò e nel contesto dei generali sconvolgimenti provocati dalla crisi a livello internazionale (vedi l’articolo C’è una soluzione allo sfascio in cui la classe dominante sta spingendo il mondo a pag. 1), è del tutto secondario che Renzi sia riuscito a incassare l’accordo con la minoranza PD sulla riforma del Senato (e anche capire cosa ha incassato la minoranza del PD per questo accordo). La partita è tutt’altro che chiusa: un conto è portare a casa il voto in Parlamento e far approvare le riforme, ma renderle operative è tutto un altro paio di maniche. L’applicazione o meno delle riforme (vale in particolare per quelle contro le masse popolari: la lotta per eliminare diritti, tutele e conquiste è il principale collante delle fazioni dei vertici della Repubblica Pontificia) è il principale terreno su cui si sposta la lotta per cacciare Renzi. La sua forza è solo nominale: il sistema di clientele, favori, protezioni su cui si fonda la Repubblica Pontificia si sta sgretolando. E’ una bagnarola che sta insieme con lo sputo, non può solcare i mari in tempesta della crisi.
Mari in tempesta (per il governo Renzi e i vertici della Repubblica Pontificia). In una fase in cui Berlusconi sostiene che la riforma del Senato porta alla dittatura e Calderoli dice che è una legge di stampo fascista (c’è da dire che Renzi fa di tutto per accreditarsi con alcune similitudini con Mussolini, a partire da quando afferma che “abbiamo aspettato 70 anni” – per la riforma della Costituzione, ndr), in cui gli enti locali sono in agitazione (e per le continue sottrazioni di fondi in favore del governo centrale e per le crescenti limitazioni di autonomia – vedi l’articolo Dai sindaci del PCI del dopoguerra a quelli che resistono alle manovre eversive di Renzi a pag. 7), in cui il sottobosco della rete di potere della Repubblica Pontificia si mette di traverso per mantenere piccoli o grandi privilegi e feudi, cioè in un contesto in cui cresce l’ingovernabilità dall’alto, la questione decisiva per le sorti del governo Renzi è il ruolo delle masse popolari organizzate.

Abbiamo trattato già nel numero scorso di Resistenza dell’importanza decisiva di non dare per persa né la battaglia contro il Jobs Act come quella contro la Buona scuola, né quella contro lo Sblocca Italia come quella contro il Piano casa: adesso che sono leggi, bisogna creare le condizioni per renderle inapplicabili.
Riprendiamo questo discorso, analizzando meglio il contesto in cui si sviluppano le mobilitazioni popolari ed entrando nel dettaglio di alcuni aspetti relativi al loro orientamento e al loro contenuto.

Per ciò che riguarda il contesto, i prossimi mesi sono quelli in cui “si tratta” per il rinnovo dei CCNL di 23 categorie. Tra di essi quello dei metalmeccanici, da cui tradizionalmente discendono, per un verso o per un altro, quelli di tutte le altre categorie. E’ questa la base materiale, la condizione oggettiva, di ogni autunno caldo della nostra storia, a partire da quello del 1969, da cui viene l’espressione. In questo contesto il governo Renzi affonda l’attacco contro il diritto di sciopero: non con una legge che lo prende di petto, ma con il decreto con cui, in risposta a un’assemblea dei lavoratori che ha portato alla chiusura (annunciata) del Colosseo, ingloba i beni culturali nei servizi essenziali (vedi l’articolo Altro che “ostaggio dei lavoratori”, i Beni Culturali sono ostaggio dei padroni! a pag. 5).

Per ciò che riguarda l’orientamento e il contenuto delle mobilitazioni popolari, ci concentriamo su tre aspetti.
1. Organizzarsi e coordinarsi. Significa, a partire dal posto di lavoro, dall’azienda, dalla scuola, dal quartiere creare organizzazioni operaie e popolari che si attivano per far fronte alle specifiche manifestazioni degli effetti della crisi che esistono nel particolare contesto, alle specifiche ricadute delle riforme del governo Renzi in quell’ambito. Organizzazioni di cui ognuna cerca e sviluppa collaborazioni, cooperazione, unità d’azione con altre organizzazioni operaie e popolari della zona. Questo e solo questo è il processo che “unisce le mobilitazioni”, non gli appelli all’unità! Questo e solo questo rende possibile il coordinamento di operai delle aziende capitaliste con lavoratori di aziende pubbliche, abitanti dei quartieri, studenti e docenti delle scuole e delle università, personale tecnico, ecc.
2. Aggregarsi attorno a una prospettiva unitaria. Significa marciare nella stessa direzione. Sono mille i motivi e gli interessi particolari che, in questa società, mettono in concorrenza o in contrapposizione settori popolari (è storica la contrapposizione fra chi vuole difendere i posti di lavoro e chi vuole difendere il diritto alla salute e a vivere in un ambiente dignitoso e sano). Ma gli interessi particolari dei singoli settori delle masse popolari diventano incompatibili solo perché la società è diretta dalla borghesia per i suoi interessi. Non è possibile marciare nella stessa direzione se le organizzazioni operaie e popolari mettono al centro della loro esistenza e della loro attività l’obiettivo particolare. Ci sono centinaia di migliaia di esempi. Abbiamo trattato nel numero scorso di Resistenza quello degli ex operai Smith di Volterra e del Comitato per la difesa della Val di Cecina che pur operando sullo stesso territorio si guardano ancora da lontano.
Marciare nella stessa direzione è possibile solo se si mette al centro dell’esistenza e dell’opera delle organizzazioni operaie e popolari una prospettiva unitaria, un obiettivo comune. Solo se si mette al centro la comune lotta per un nuovo ordine sociale. Solo se non ci si limita a mobilitarsi contro il danno particolare derivante dall’attuale ordine sociale. Il per, la prospettiva unitaria, è la costituzione del Governo di Blocco Popolare.
3. Il terzo aspetto riguarda il contenuto dell’azione delle organizzazioni operaie e popolari per rendere inapplicabili le riforme del governo Renzi. “A salario di merda, lavoro di merda” titolava l’Unità clandestina nel 1928, incitando gli operai e i lavoratori a scioperare contro l’abbassamento dei salari decretati da Mussolini. Detto in termini meno evocativi, significava costringere il governo fascista a tornare sui propri passi perché la decisione di ridurre i salari avrebbe portato a una complessiva riduzione della produttività, avrebbe indotto i padroni a contravvenire alle leggi fasciste.

L’appello che l’Unità clandestina lanciava agli operai nel 1928, deve essere ripreso oggi con questa formula: rendere ingovernabile il paese, nelle aziende (“lavoro di merda”) e fuori (disobbedienza, autorganizzazione).
Esistono già una miriade di esempi di organismi, più o meno strutturati, più o meno conosciuti, che lo fanno. Ma lo fanno slegati gli uni dagli altri e marciando ognuno per conto proprio, in ordine sparso. Dobbiamo farne un comune movimento.

Ecco: la forza di Renzi e del suo governo, la forza dei vertici della Repubblica Pontificia, è tale solo e soltanto perché le masse popolari devono ancora far valere la propria forza.

unità jobsat

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