La lotta di classe, noi comunisti e la sinistra borghese
Attività del (nuovo)PCI – Avviso ai Naviganti n.56 del 30 settembre 2015
Con la morte il 27 settembre di Pietro Ingrao (1915-2015) scompare uno degli esponenti più illustri e autorevoli di quel gruppo di intellettuali formatisi nelle università fasciste e in generale di buona famiglia (a quei tempi rari erano i casi di giovani di famiglie non ricche che arrivavano all’università) che Palmiro Togliatti nel 1944-1956 impose alla testa del PCI al posto dei dirigenti formatisi nella lotta contro il fascismo e nella Resistenza: questi vennero poi definitivamente emarginati nel 1956 perché inadatti a collaborare con la DC sotto l’ala del Vaticano. Il Partito della lotta contro il fascismo e della Resistenza già soffriva dei limiti di formazione ideologica, di assimilazione della concezione del mondo e di comprensione delle condizioni, delle forme e dei risultati della lotta di classe in Italia che abbiamo illustrato anche recentemente nel Comunicato CC 11/2015 (20 aprile 2015) diffuso in occasione del 70° anniversario della vittoria della Resistenza e nell’omonimo articolo di Umberto C. in La Voce 49 (marzo 2015).
I nuovi arrivati rafforzarono la destra del partito. La loro cooptazione nel gruppo dirigente del PCI fu la sanzione della rinuncia alla rivoluzione socialista, rinuncia spacciata ai militanti come “via italiana al socialismo”. Fu la sanzione della linea della collaborazione politica con il Vaticano e la DC, linea condotta costantemente “alle spalle” del grosso dei membri e dei seguaci del partito dal gruppo dirigente del PCI raccolto prima attorno a Palmiro Togliatti e poi attorno a Enrico Berlinguer. Fu la sanzione del passaggio del PCI a partito capofila del revisionismo moderno nei paesi imperialisti (che più tardi assunse la denominazione di eurocomunismo) e a pilastro della Repubblica Pontificia: il ruolo che Mao Tse-tung denunciò nel 1963 nella lettera aperta Ancora sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi (in Opere di Mao Tse-tung, vol. 19, Edizioni Rapporti Sociali).
In questo PCI i nuovi cooptati costituirono sia i capi della destra salottiera e intellettuale (Pietro Ingrao appunto) che nella propaganda di regime veniva presentata come “sinistra del PCI” (il manifesto è attualmente il suo erede più rappresentativo), sia i capi della destra affarista del PCI (capeggiata da Giorgio Napolitano, successore di Giorgio Amendola).
Man mano che le condizioni politiche delle masse popolari italiane peggioravano, essi vennero anche assunti dai vertici della Repubblica Vaticana a ruoli di prestigio nelle istituzioni della stessa Repubblica. Ingrao divenne presidente della Camera dei Deputati succedendo nel 1976 a Sandro Pertini e lasciando nel 1979 la carica a Nilde Iotti (formatasi all’Università Cattolica di Milano fondata e diretta dal fascista e razzista Agostino Gemelli). Napolitano fu dapprima presidente della Camera dei Deputati (1992-1994: l’epoca dell’accordo Stato-Mafia garantito dall’ascesa di Berlusconi ai vertici dello Stato), poi ministro degli Interni (1996-1998, creatore dei campi di concentramento per immigrati) e infine Presidente della Repubblica (2006-2015).
Oggi i complici e soci di Pietro Ingrao (della sinistra borghese e della destra borghese indifferentemente) si affannano a magnificare le doti umane e letterarie del defunto, ad esaltare l’individuo: “l’uomo” come direbbe papa Francesco che nel suo recente discorso a L’Avana ha contrapposto gli uomini (buoni) alle idee cattive (la concezione comunista del mondo). In effetti i complici e soci di Pietro Ingrao non possono fare altro. Non solo per la loro concezione clericale e borghese del mondo, ma anche perché devono distrarre l’attenzione del pubblico dal bilancio dell’opera che Pietro Ingrao ha svolto nel movimento politico del nostro paese, nel percorso che ha portato la classe operaia e il resto delle masse popolari dall’apogeo della Resistenza (Il punto più alto raggiunto finora nel nostro paese dalla classe operaia nella sua lotta per il potere) alle condizioni di oggi. Considerando le cose da questo punto di vista, è facile profezia dire che di Pietro Ingrao non resterà traccia nella storia.
Noi comunisti quando facciamo il bilancio del movimento comunista del nostro paese, non è gli esponenti del revisionismo moderno che dobbiamo mettere in primo piano. Chi attribuisce ad essi il declino del movimento comunista è fuori strada: come se la debolezza del movimento comunista dipendesse dalla forza della borghesia, della cui influenza i revisionisti sono i portatori nelle file del movimento comunista. Sul piano della concezione del mondo e dei principi di lotta il movimento comunista è un movimento del tutto autonomo dalla borghesia e dal clero. Credere il contrario è come attribuire agli stregoni e ai guaritori i limiti della medicina moderna, agli astrologhi i limiti dell’astronomia attuale, ecc. Il movimento comunista è il portatore di una scienza che né il clero e il mondo feudale in generale né la borghesia avevano scoperto: la scienza delle attività con cui gli uomini fanno la loro storia. Il bilancio del movimento comunista del nostro paese noi comunisti dobbiamo farlo scoprendo i limiti della sinistra del partito, di quelli che spingevano in avanti la lotta di classe, che volevano instaurare il socialismo. Per questo rimandiamo all’articolo di Rosa L. Pietro Secchia e due importanti lezioni in La Voce 26 (luglio 2007). Gli esponenti della sinistra del PCI sono i discepoli di Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao, sono i veri e degni eredi di Antonio Gramsci: i Pietro Secchia, i Vaia, gli Alberganti, i Moranino, le Teresa Noce e la lunga e gloriosa fila dei combattenti contro il fascismo, contro la Repubblica Pontificia, contro il regime DC e contro l’imperialismo americano e la NATO (sotto il cui ombrello invece si dicevano tranquilli Pietro Ingrao ed Enrico Berlinguer). È di questa gloriosa schiera che noi siamo eredi e continuatori. Mentre lasciamo nella spazzatura della storia i servitori del Vaticano e della NATO.