Quella tendenza all’accentramento dei poteri da parte dei vertici della Repubblica Pontificia di cui parliamo nell’articolo Crisi politica. Renzi, la Costituzione e l’alternativa alla Repubblica Pontificia a pag. 1 è il contesto generale in cui si inseriscono le manovre del governo Renzi per limitare l’autonomia degli enti locali. Questo articolo, che non è esaustivo sulla questione, ha tre obbiettivi:
– mostrare il legame fra le manovre che i vertici della Repubblica Pontificia hanno imposto nel tempo per impedire l’autonomia degli enti locali e le manovre per limitare l’influenza e l’opera del movimento comunista;
– mostrare la natura della contrapposizione fra governo centrale ed enti locali nella Repubblica Pontificia che ancora oggi concorre alla crisi politica e all’ingovernabilità “dall’alto” del paese;
– mostrare che solo nel solco della costruzione del Governo di Blocco Popolare la questione delle autonomie locali può trovare soluzione positiva.
Il fascismo aveva a suo modo risolto la questione delle autonomie locali accentrando il potere ai prefetti e istituendo la figura del podestà, diretta emanazione del governo, da esso nominati e revocabili in qualunque momento. Le aveva dunque soppresse.
A ridosso del 25 aprile del 1945, l’azione del CNL e delle sue articolazioni locali (di fabbrica e azienda, di comune, di villaggio) si è concentrata nella difesa delle strutture produttive per impedire che venissero distrutte dai nazi-fascisti o dai bombardamenti delle “forze alleate” e assicurare quindi che la produzione sarebbe immediatamente ripresa, ma anche nell’occupazione dei “posti di comando”: prefetture, sedi telefoniche e telegrafiche e sedi di amministrazioni comunali e provinciali. E’ grazie a questo lavoro che gli impianti industriali sono salvi e che i servizi pubblici riprendono immediatamente a funzionare. La costruzione delle nuove Autorità democratiche e dei nuovi organismi del potere è il motivo per cui una delle prime azioni dei CNL è stato l’insediamento di sindaci. E’ in questo modo che i CNL assumono nei fatti tutti i poteri di governo e di amministrazione nei territori liberati dal nazi-fascismo. “Si tratta ovunque, da parte di cento CNL comunali, degli stessi compiti, degli stessi problemi che si sono dovuti affrontare nei giorni dell’insurrezione. A questi compiti i CNL hanno fatto fronte in uno spirito di lotta risoluta (…). Il compito in particolare, dell’installazione nei nostri villaggi di una amministrazione democratica, dopo 20 anni di fascismo, all’indomani di una insurrezione popolare, poteva sembrare di impossibile soluzione. E lo sarebbe stato (…) se in ogni comune, in ogni villaggio non ci fossero stati i CNL, non solo per organizzare in forma unitaria lo slancio democratico delle masse, ma per creare i nuovi organismi del potere(…) le nuove Autorità chiamate ad assumersi la responsabilità della cosa pubblica (Emilio Sereni, Il CNL nella cospirazione, nell’insurrezione, nella ricostruzione).
La Costituzione che pure prevedeva l’autonomia degli enti locali (Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni), non è mai stata applicata, al suo posto è rimasto in vigore il Testo Unico del 1934 (del regime fascista) fino al 1977. Una riforma degli enti locali in linea con la Costituzione è degli anni ’90. Perché?
Il PCI era passato da 5 o 6mila iscritti del 1943 ai quasi 2milioni del 1946, dall’immediato dopo guerra governava molte città, alcune di esse anche importanti: i vertici della Repubblica Pontificia hanno allentato la presa sugli enti locali soltanto quando il movimento comunista nel nostro paese era ormai reso inoffensivo dalla lunga, capillare, continua opera dei revisionisti che hanno trasformato il più grande partito comunista d’occidente in un partito socialdemocratico.
I revisionisti alla direzione del PCI, del resto, si adagiarono su questo andazzo, a fronte del ruolo che assunsero i sindaci comunisti fino agli anni ’60 del secolo scorso nella mobilitazione delle masse popolari per applicare la Costituzione, il ruolo di « buoni amministratori » (cioè compatibili con i vertici della Repubblica Pontificia) ha avuto il sopravvento.
I Sindaci della « ricostruzione » hanno molti tratti in comune: comuni sono i problemi pratici che si trovano ad affrontare, comune è il fatto che per risolverli si affidarono alla mobilitazione popolare e comune è la lotta che iniziano via via più consapevolmente a intraprendere contro i vertici della Repubblica Pontificia, le loro leggi e i loro prefetti.
Antonio Greppi (sindaco di Milano dal 1945 al 1951) nell’immediato dopoguerra per far fronte all’emergenza abitativa sviluppa il sistema della “coabitazione” affinché coloro che avevano disponibilità mettessero a disposizione i propri spazi ai senza tetto; nonostante la ristrettezza economica (nel 1945 le casse comunali disponevano di poco meno di 5 milioni di lire da spendere), riorganizzò l’Ente comunale di assistenza, un organo ideato negli anni del fascismo, riuscendo a fronteggiare le conseguenze del caro viveri (il costo della vita era aumentato del 20,8%). Nel 1945, quando uno dei problemi maggiori in città era rappresentato dal diffondersi della tubercolosi, creò il cosiddetto «fondo penicillina», per coprire le spese necessarie all’acquisto del medicinale per i cittadini meno abbienti e chiese ai milanesi di finanziarlo.
Giuseppe Dozza (nominato dal CNL sindaco di Bologna il 21 aprile del 1945) si trova subito alle prese con la ricostruzione della città. Problemi igienici, sanitari, abitativi, di ordine pubblico cui fa fronte promuovendo la partecipazione della popolazione alla ricostruzione e nel nome della trasparenza.
Nel 1947 promuove le Consulte Popolari (embrione dei futuri Consigli di quartiere), come strumento di controllo continuo e costante da parte della popolazione sull’operato degli eletti. L’obiettivo era di accelerare le tappe della ricostruzione e far giungere ai vertici municipali le domande che partivano dal territorio. Le consulte non nascono sulla base di un provvedimento istituzionale, ma da atti della giunta. All’ordine del giorno c’erano i temi locali: la manutenzione stradale, la luce, le fontanelle, l’assistenza, il piano regolatore e lo sviluppo economico. Dalle Consulte le istanze passavano alla Giunta comunale che nominava un assessore incaricato di seguire le richieste del rione e di tenerne conto nell’elaborazione del bilancio comunale.
In tutta la città vennero costituiti Consigli Tributari, organismi decentrati composti dagli eletti nel Consiglio Comunale che gestivano l’applicazione dell’imposta di famiglia (una tassa sulle risorse famigliari che eccedevano dal fabbisogno essenziale). In nome della trasparenza l’ufficio dei tributi diventa una “casa di vetro”, chiunque poteva verificare il trattamento dei propri dati patrimoniali.
Al momento della sua elezione nel 1946, Dozza denuncia che l’attività municipale è severamente limitata dalla legislazione fascista ancora in vigore e che “debba essere abolita, per mettere fine a una centralizzazione che soffoca ogni libertà e si permetta quell’autonomia amministrativa che è condizione di rinascita per tutto il paese”.
Il reato di essere sindaco. E’ lo slogan che nasce nel 1951 per denunciare la repressione contro i sindaci comunisti e socialisti. La partecipazione dei Comuni alle manifestazioni nazionali (come quella contro la NATO nel 1949) e locali, le attività assistenziali in favore dei bambini, l’organizzazione delle colonie estive e soprattutto il legame con i lavoratori e la classe operaia, provocarono forti contrasti tra amministrazioni locali e governo centrale, spesso risolte con l’intervento repressivo dei prefetti.
Un esempio è la destituzione del sindaco di Casalecchio di Reno (il comunista partigiano Ettore Cristoni) con il pretesto che nel 1951 aveva emesso una ordinanza comunale per inviare dodici bambini poveri e bisognosi di cure in montagna per 4 settimane a spese del Comune. Il PCI raccoglieva a Casalecchio il 60% dei voti.
Sono solo pochi esempi (e parziali) di una tendenza che si diffondeva in tutto il paese: la contrapposizione tra amministrazioni locali e governo centrale che dura fino ai giorni nostri. Del resto è subito evidente il ruolo parassitario dei vertici della Repubblica Pontificia sugli enti locali, in particolare i Comuni: già nel 1948 il governo centrale scarica il peso della spesa per i servizi pubblici (Legge 26 marzo del 1948, che va in vigore nel 1952.): Pietro Montagnani, vicesindaco di Milano dopo la Liberazione e senatore del PCI, denuncia che questi servizi avevano all’epoca, per il comune di Milano, il costo di 3 miliardi di lire.
Nel 1947 si costituì a Firenze la Lega dei Comuni Democratici per risolvere problemi di varia natura, dal riassetto delle finanze comunali all’accanimento dei prefetti contro i Consigli Tributari e contro la gestione diretta delle imposte sui consumi da parte dei Comuni. Dal canto suo il governo centrale aumentò il controllo sugli enti locali: all’entrata in vigore dell’ordinamento regionale, nel 1971 (ma la legge era del 1953) divenne operativo il CO.RE.CO (Comitato di controllo regionale sugli atti di comuni, province ed enti locali).
Tra l’autonomia promessa e l’autonomia concessa anche la storia legislativa degli enti locali è lo specchio dello sviluppo lento e soffocato del nostro paese: come signorotti feudali, i vertici della Repubblica Pontificia avviluppano il paese una fitta rete di vincoli economici (tasse, Patto di Stabilità, ecc.) in cui gli enti locali hanno il ruolo degli esattori. Solo nel 2000 si conclude un decennio di riforme con il nuovo TUEL (Testo Unico degli Enti Locali, che soppianta definitivamente quello del 1934), ma già dal 2001 si riapre la battaglia sul Titolo V della Costituzione e sulle autonomie locali, quello a cui il governo Renzi sta mettendo mano oggi.
La debolezza del movimento comunista genera mostri. L’opera dei revisionisti moderni, prima, e della sinistra borghese, poi, ha portato alla dissoluzione del patrimonio di organizzazione, lotte, esperienze del movimento comunista e lo ha indebolito fino al punto in cui siamo oggi. Durante questa parabola discendente, la questione delle autonomie locali è diventata terreno di conquista per due distinte tipologie di animali politici: da una parte gli illusi del federalismo borghese (la cui caricatura è stata la Lega, che fondava la propaganda reazionaria della secessione su una solida base di ribellione contro il governo di Roma ladrona – la Repubblica Pontificia) e dall’altra i faccendieri delle autonomie locali (gente di sinistra e di destra che ha usato gli enti locali come feudi per i propri traffici: dai capobanda del PD nelle “regioni rosse” ai capoclan di Forza Italia / ex DC dove comandavano la mafia e le altre organizzazioni criminali), entrambi funzionali al potere del governo centrale. Mentre la prima tipologia si fondeva con la seconda, si è sviluppata una rete disorganizzata di sinceri democratici che aspirano all’applicazione della Costituzione. Indipendentemente dagli orientamenti di questi ultimi i fatti indicano che la lotta per le autonomie locali, il governo del territorio, la valorizzazione delle risorse non può essere concepita come diversa dalla lotta per liberarsi dai vertici della Repubblica Pontificia. Così come solo la lotta per la costruzione del Governo di Blocco Popolare è l’unica che possa dare prospettiva alla rete disorganizzata di sinceri democratici che si battono per le autonomie locali, la lotta per costruire amministrazioni locali di emergenza (che disobbediscono al governo centrale, che operano per affermare gli interessi delle masse popolari, che operano attraverso la mobilitazione e il protagonismo delle masse popolari organizzate) è spinta che va in quel senso e contribuisce a quell’obbiettivo.