Durante la campagna congressuale abbiamo parlato, discusso, studiato e ragionato sulla base delle Risoluzioni con tanti operai e lavoratori attivi a vario livello nel movimento popolare e pure con alcuni che tanto attivi non sono, ma seguono la politica per interesse o per “passione”, sono di sinistra, si dicono comunisti. Sul legame fra i contenuti del Congresso e la pratica di operai e lavoratori avanzati rimandiamo all’articolo “La parola agli operai”, qui invece trattiamo di alcuni aspetti per avviare quel lavoro che segue il Congresso: la raccolta di forze.
Lo facciamo prendendo spunto da due questioni che si sono presentate più volte nelle discussioni, nelle riunioni e nelle assemblee.
La prima riguarda la contraddizione fra idea e azione, fra teoria e pratica, è l’inquietudine di quanti si dedicano a promuovere lotte, rivendicazioni, mobilitazioni per difendere e affermare diritti e che nonostante la generosità loro e della cerchia di compagni che hanno intorno, ottengono pochi o nessun risultato. Per questi compagni, decisi e combattivi, la lotta diventa il fine, come diventa qualificante e motivo di orgoglio il marciare in direzione ostinata e contraria. L’inquietudine che si nasconde dietro i proclami e le pratiche combattive nasce dal fatto che marciare in direzione ostinata e contraria, marciare sulla via del “lotta, lotta, lotta” non è l’aspetto risolutivo in questa fase storica. Lo sanno pure loro, ma non cedono; lo sanno pure loro, ma non ammettono neppure il dubbio, perché dubitare della marcia di cui si sono messi alla testa li spinge contro uno scoglio: se il “lotta, lotta, lotta” non basta, che fare?
La lotta rivendicativa non coincide con la lotta rivoluzionaria (anche se la prima è parte della seconda), il sindacato (o il coordinamento, il comitato, ecc.) non equivale al partito comunista. Benché affermino che “servono le lotte concrete e non le menate sul partito comunista” sono inquieti. Perché la loro azione non è guidata da un’idea coerente di trasformazione del mondo, perché non è inquadrata in una strategia, perché non hanno una linea. A questi compagni noi diciamo che il piano d’azione per costruire il Governo di Blocco Popolare e avanzare così nella costruzione del socialismo è la linea che collega le loro lotte con quelle del resto delle masse popolari, è la linea che trasforma un gruppo di operai combattivi in avanguardia della trasformazione del mondo, è il fiume a cui fare affluire il loro movimento, affinché sbocchi al mare e non si perda nelle secche della crisi (in regime di crisi acuta e irreversibile la borghesia non concede niente e se anche fosse costretta a concedere domani, si vorrà riprendere tutto e di più dopodomani). A quei compagni diciamo di non contrapporre “il movimento” al Partito, ma di portare il loro movimento e i loro compagni alla scuola del Partito, nella squadra del Partito, nel collettivo.
La seconda questione riguarda la contraddizione fra ciò che si vorrebbe fare (si dice di voler fare) e quello che si fa. Alcuni ci hanno detto: “vi ammiro! Se non avessi tutti questi problemi di lavoro e familiari sarei dei vostri”. Ma essere dei nostri prescinde dai problemi di lavoro e familiari! I comunisti non sono marziani: hanno problemi sul lavoro e problemi familiari, perché tutti gli elementi delle masse popolari hanno problemi di qualunque genere (di lavoro, familiari, economici, di salute, con la legge, psicologici…), se ci soffermiamo sui singoli, specifici e particolari problemi (che poi sono più o meno i problemi di tutti) non ha alcun senso dire che si è d’accordo con l’obiettivo di costruire il socialismo. Per dirla tutta, se ci si ferma ai singoli problemi di ognuno non ha senso neppure maledire la classe dominante, i padroni, i razzisti, i fascisti, ecc. La cosa, tuttavia, non è campata per aria: il rapporto fra personale e politico è uno degli ambiti in cui il P.CARC ha sviluppato la Lotta Ideologica Attiva. Alla scuola del Partito si imparano a trattare i problemi di ognuno alla luce dei compiti storici che abbiamo, che ci vogliamo assumere, che ci assumiamo. Per spiegare la questione citiamo le parole di Arturo Colombi, dirigente comunista ai tempi della Resistenza. E’ un esempio che parla quanto mille documenti.
“A parte le conseguenze organizzative del mio arresto, non avevo preoccupazioni. Non mi preoccupavo delle mie sorelle, né di mio fratello, né della mia fidanzata: erano tutti giovani e le loro condizioni erano senza dubbio migliori delle mie. Se mi rassegnavo io si sarebbero rassegnati anche loro. Lo stesso ragionamento non lo potevo fare per i miei vecchi genitori perché ero stato sino allora il loro principale sostegno; sapevo che la notizia del mio arresto li avrebbe sorpresi e addolorati, tanto più che erano a mille miglia dal pensare che io mi trovavo in Italia esposto al pericolo di essere arrestato e condannato. Pensai però che una mamma, una sposa o fidanzata ce l’hanno tutti, e che se tutti fossero stati trattenuti dal timore di fare soffrire i loro cari, il fascismo non sarebbe mai stato abbattuto” Nelle mani del nemico – A. Colombi, Ed Rapporti Sociali.
Ecco, dopo il Congresso ripartiamo da qui per riprendere il discorso con i tanti e le tante che “vorrebbero”, ma per un motivo o un altro “non possono”. Alla scuola del Partito si impara a fare prima di tutto il passo di emanciparsi dal “non posso”, quindi si impara “a farlo”. Questo è un gradino della scala che porta le masse popolari da classe oppressa a diventare classe dirigente del paese.