Un governo di emergenza popolare per attuare con ogni mezzo necessario la parola d’ordine un lavoro utile e dignitoso per tutti

 

Renzi e il suo governo tentano di nascondere il disastro economico e politico in cui versa il paese dietro la propaganda di regime e con la propaganda di guerra. La propaganda di regime a ognuno che sta male cerca di far credere che la sua esperienza non è rappresentativa dello stato generale del paese, che il suo è un caso particolare e sfortunato. Ma la propaganda di regime ha le gambe corte come tutte le bugie: la fanfara che è in corso la ripresa o che “l’Italia può crescere più degli altri paesi” si zittisce quando si mette mano ai numeri. Non solo l’esperienza quotidiana della maggior parte degli italiani, ma anche le cifre fornite dagli stessi uffici statali e dalle organizzazioni sindacali smentiscono di mese in mese la propaganda di regime. Nel terzo trimestre del 2014 (dati ISTAT, indagine a campione) i disoccupati erano più di 3 milioni, con gli inattivi e i disoccupati parziali si arrivava a 7 milioni di persone. Il Dipartimento Settori Produttivi della CGIL (dati marzo 2015) ha contato 640mila lavoratori in CIG nel bimestre gennaio-febbraio 2015 e che quelli in contratto di solidarietà sono passati da 31mila nel 2013 a 100mila nel 2014 (e dal 2015 il governo Renzi gli ha ulteriormente tagliato la retribuzione: anziché il 70% dello stipendio, adesso ne prendono il 60%). La sintesi di questo bollettino di guerra è che su 40 milioni di persone in età lavorativa, solo 22,5 milioni risultano occupati (tra lavoratori dipendenti e autonomi). La propaganda di guerra sono tutte quelle manovre che i vertici della Repubblica Pontifica promuovono per contrapporre alcuni settori delle masse popolari ad altri settori: lavoratori pubblici contro lavoratori del privato, giovani contro anziani, italiani contro immigrati, cristiani contro musulmani, ecc. In questo contesto ci pensano poi gli utili idioti e i Salvini di turno a cogliere le mille occasioni che i vertici della Repubblica Pontificia gli offrono per soffiare sul fuoco del razzismo e distogliere le masse popolari (a partire da quelle più arretrate, abbrutite e moralmente oppresse) dalla lotta di classe.

I numeri sono numeri, ma da soli non servono. Chi crede che questi dati siano abbastanza chiari, gravi, che bastino a “muovere le coscienze” di chi governa è fuori strada. Il 18 aprile Renzi è stato a Pompei per dichiarare che “la cultura è l’anima di un paese” (del resto è in campagna elettorale fissa da quando è stato messo a capo del governo senza che avesse mai sottoposto il suo programma agli elettori); il giorno prima un sindacalista della Whirpool di Caserta, in presidio coi suoi compagni di lavoro dopo l’annuncio della chiusura dello stabilimento (e anche di altri, per un totale di 1350 “esuberi”) gli ha lanciato l’appello ad andare lì con loro al presidio “a vedere in che condizioni stanno quelli che producono, in che condizioni è il paese reale”. Ma davvero qualcuno crede che Renzi non lo sappia? Davvero qualcuno crede che i dati a cui abbiamo accesso noi, lui non li conosca? Ma oltre a lui e con lui, ci stanno la pletora di politicanti affaristi, di sindacalisti di regime, di conciliatori, mestatori, rottamatori della classe operaia e di “impotenti” complici degli affamatori delle masse popolari. Questi dati sono stati pubblicati sul sito della CGIL, non per questo la Camusso (per dirne una) è più decisa a mobilitare il sindacato che dirige per far adottare le misure necessarie a fare fronte agli effetti della crisi.

Un lavoro utile e dignitoso per tutti, non chiacchiere. Di tanti discorsi, cifre, numeri, ragionamenti utili come la forchetta per mangiare il brodo che riempiono giornali, telegiornali, direttive sindacali e dichiarazioni contrite e angosciate, la questione vera e insostituibile è che in questo paese occorre subito, d’urgenza, operare con misure straordinarie per garantire a ogni adulto un lavoro utile e dignitoso. Utile, cioè finalizzato a soddisfare i bisogni delle masse popolari (beni e servizi). Dignitoso, cioè che sia pagato, regolamentato dalle conquiste che le masse popolari hanno ottenuto con le lotte dei decenni passati e che oggi i padroni vogliono cancellare; che sia inquadrato in una produzione compatibile con l’ambiente, con la salute delle masse popolari e con la salute di chi lavora. Sicuro, cioè lavorare non deve più essere una roulette russa in fabbrica come nei cantieri, negli uffici e negli ospedali. Senza la riduzione drastica del numero dei disoccupati nessuno onesto o sano di mente può parlare di “ripresa”, “uscita dalla crisi”, “miglioramento delle cose”.

Un posto di lavoro utile e dignitoso per tutti è un obiettivo che non cade dal cielo, non ce lo regala nessuno, ma nemmeno è una chimera, un’utopia, una cosa “bella e impossibile”. Deve diventare programma, deve diventare progetto e aspirazione. Non sta campato per aria se chi lo promuove e lo persegue si dà i mezzi per attuarlo, per farlo diventare concreto.

Un lavoro utile e dignitoso per tutti non è solo una parola d’ordine. E’ un orientamento che ogni lavoratore cosciente può e deve usare per mobilitare le masse popolari: chi un lavoro ce l’ha e lo deve difendere da chiusure e delocalizzazioni, chi langue nella precarietà degli ammortizzatori sociali (l’esercito di cassintegrati, in mobilità, che campa alla meglio possibile con l’assegno di disoccupazione), i disoccupati, gli inoccupati, chi vive nelle zone d’ombra della precarietà di contratti a progetto, lavoro a chiamata. Fino a coloro ai quali una possibilità di lavoro è offerta, ma gratuito, da “volontario per fare esperienza”, la frontiera dello sfruttamento messa in bella mostra con l’EXPO di Milano. Tutte queste persone, milioni, tutti i giorni fanno i conti con gli effetti della crisi e vengono presi per il naso da chi parla di ripresa, promette lavoro, discute di salario garantito o reddito sociale. O la lotta per un lavoro utile e dignitoso conquista i più avanzati fra loro e diventa la prospettiva per valorizzare la loro mobilitazione (che oggi viene dispersa in tante attività che se non, sono dannose per loro e per gli altri sono inutili: dal volontariato all’abbrutimento). Oppure questa gente diventerà terreno di conquista per la propaganda reazionaria e razzista, una massa di manovra in cui sguazzano i fomentatori della guerra fra poveri.

Che la questione del lavoro sia la questione principale per fare fronte agli effetti della crisi lo capisce chiunque non abbia il cervello e la coscienza già corrotti dalla propaganda di regime e dalla propaganda di guerra, chiunque non sia già abbrutito al punto da essere convinto che il problema sono gli immigrati, i fannulloni degli enti pubblici, i falsi invalidi, il vigile assenteista, ecc. La questione del lavoro è tanto evidente che l’aspetto decisivo non è “sensibilizzare le coscienze”, ma mobilitare concretamente, a partire da chi è già disponibile a farlo, le forze che già esistono. Non basta dare la colpa e scaricare le responsabilità sui sindacati corrotti, amici dei padroni, traditori dei lavoratori. Finchè aspettiamo che siano loro a fare quello che non vogliono fare, andremo poco lontano, tutti. Quando “la base” si muove, ai piani alti devono svegliarsi e inseguirla, altrimenti i piani alti saranno spazzati via dalla mobilitazione (principio che non vale solo nella lotta per il lavoro e nelle relazioni sindacali, vedi l’articolo sulla vittoria del movimento NO MUOS a pagina 1).

Un lavoro utile e dignitoso per tutti: così facciamo fronte agli effetti più distruttivi della crisi e costruiamo l’alternativa. La lotta per il lavoro utile e dignitoso è il perno centrale della costruzione del Governo di Blocco Popolare. Perché difendere i posti di lavoro esistenti e crearne di nuovi non è (non può più essere, non deve essere) una questione che attiene alla concertazione fra padroni e lavoratori (che si conclude sempre in favore degli interessi dei primi e sulla pelle dei secondi). E’ una questione politica, di governo del paese, di governo della società. Alcuni esponenti della sinistra borghese continuano a ripetere che “serve un piano industriale”. Ma questo governo di parassiti non vuole e non può fare un piano industriale, perché serve gli interessi dei gruppi della finanza internazionale, non quelli delle masse popolari. Questo governo di parassiti fa quello che può, sa ed è chiamato a fare: svendere, distruggere, saccheggiare l’apparato produttivo del paese, rapinare le masse popolari. Allora, se serve un piano industriale “serio” (per dirla alla Landini, che gli piace tanto), darsi i mezzi per raggiungere i propri obiettivi significa che è necessario costruire un governo che abbia la volontà di farlo, questo piano industriale, che sappia farlo, che assuma come ragione della sua esistenza l’obiettivo di garantire a ogni adulto un lavoro utile e dignitoso. Ecco perché il naturale contesto della lotta per il lavoro è la lotta per costruire la nuova governabilità del paese. Ecco perché l’unica prospettiva realistica di ogni lotta per il lavoro è quella che alimenta la costruzione del Governo di Blocco Popolare.

E’ chiaro, in tanti dicono “a me del governo del paese non interessa un’acca, mi preme solo che ci facciano lavorare”. Se ci limitiamo a sentire il “senso comune” andremo poco lontano (tutti: chi lo usa e chi lo ascolta). Come in ogni cosa si tratta di partire da quegli operai, quei lavoratori, quegli elementi avanzati delle masse popolari che per caratteristiche, condizioni, esperienza sono più disposti e capaci di vedere le cose in prospettiva e nel complesso. Partire da loro significa partire da quanti attraverso la loro pratica possono assumere un ruolo dirigente e di orientamento rispetto agli altri.

Gli operai con la falce e il martello nel cuore, sono quelli che per primi possono comprendere il nocciolo della questione e fare il passo conseguente. Se per tenere aperte le aziende governo e sindacati (e capitalisti, s’intende) si accordano sulla via della spartizione della miseria (“spartirsi il lavoro che c’è”, i contratti di solidarietà) e se spartirsi la miseria è l’anticamera del modello Marchionne (lavorare senza diritti, quando, dove, come e quanto dice il padrone, altro che malattia e limiti di orario…), è chiaro che le sorti del paese sono in mano ai padroni. A che serve invocare la “redistribuzione della ricchezza”?

Oggi molti dei promotori del movimento popolare (ultimo arrivato anche Landini) mettono l’accento su una ripartizione dei beni e servizi (reddito di cittadinanza e simili) più favorevole alle masse popolari. Ma la ripartizione di beni e servizi dipende dalla produzione, nel senso che chi è padrone e promotore della produzione comanda anche la ripartizione. Oggi chi comanda la produzione fa produrre per valorizzare il suo capitale: se non è soddisfatto della ripartizione (cioè se da produzione e distribuzione non valorizza abbastanza il suo capitale), cosa fa? Smette di produrre, sposta la produzione altrove, si dedica alla speculazione finanziaria, ecc.

Conclusioni. Sta fuori dal mondo chi sostiene che “tanto peggio, tanto meglio: se peggiorano le condizioni di vita e di lavoro le masse saranno costrette a svegliarsi e a combattere”. La combattività delle masse non dipende dall’oppressione che subiscono, ma da quanto è riconosciuta e ritenuta realistica (cioè legata all’esperienza) la prospettiva di fare fronte al cattivo presente e costruire un futuro migliore. Sembra un discorso retorico, ma è concreto, invece: difendere i posti di lavoro con ogni mezzo necessario è la premessa e condizione per passare dalla difesa all’attacco e combattere per conquistarne di nuovi. Azienda per azienda, fabbrica per fabbrica, settore per settore, zona per zona: non è una lotta sindacale, ma politica (ecco il “segreto” della formula che il sindacato deve fare politica: deve concorrere alla costruzione del Governo di Blocco Popolare); non è una lotta disperata, ma cosciente; non è una lotta ognuno per sé, ma collettiva. Si impara a combattere combattendo, si impara a vincere vincendo e facendo il bilancio anche delle sconfitte.

Il cuore di questa mobilitazione sono gli operai e i lavoratori avanzati che si occupano della loro azienda e che escono dall’azienda: che si organizzano per occuparsi sistematicamente della salvaguardia della loro azienda prevenendo le manovre padronali per ridurla, chiuderla o delocalizzarla e che stabiliscono collegamenti con organismi operai e popolari di altre aziende, mobilitano e organizzano le masse popolari, i disoccupati e i precari della zona circostante a svolgere i compiti che le istituzioni lasciano cadere, a gestire direttamente parti crescenti della vita sociale, a distribuire nella maniera più organizzata di cui sono capaci i beni e i servizi di cui la crisi priva la parte più oppressa della popolazione.

Il cuore di questa mobilitazione sono gli operai e i lavoratori avanzati che più coscientemente e sperimentando riprendono quel filo rosso che lega movimento operaio e movimento comunista: il primo che alimenta il secondo e il secondo che orienta e dirige il primo attraverso gli operai, l’avanguardia dei lavoratori che non lottano più solo per strappare conquiste, ma per diventare nuova classe dirigente del paese.

Cambiare i rapporti di produzione o cambiare la distribuzione dei prodotti?

E’ una questione che è alla base della nascita del movimento cosciente e organizzato. Marx ed Engels hanno fondato il movimento comunista andando oltre il socialismo utopista. Questo consisteva nella protesta contro la distribuzione iniqua del prodotto tra gli uomini e tra le classi sociali e nella rivendicazione di una diversa (più giusta, meno disuguale, egualitaria: ognuno ci metteva del suo) distribuzione del prodotto. Marx ed Engels dimostrarono che al punto in cui la specie umana era arrivata, una egualitaria distribuzione del prodotto era effettivamente possibile (Critica al Programma di Gotha, 1875 – formularono anche i due precisi successivi criteri 1. a ognuno secondo il suo lavoro e 2. a ognuno secondo i suoi bisogni), che le classi oppresse e tra esse la classe operaia avevano tutte le ragioni per rivendicarla (le loro lotte, i loro sentimenti e le loro idee esprimevano una potenzialità reale), ma essa

1. era possibile solo grazie al punto in cui l’evoluzione della specie umana era arrivata (quindi aveva poco o niente a che fare con il comunismo primitivo) e

2. era possibile realizzarla effettivamente solo tramite una riorganizzazione generale della società, instaurando un sistema di rapporti sociali corrispondente al livello delle condizioni materiali e spirituali raggiunte.

Bisognava riorganizzare la produzione, per cambiare effettivamente la distribuzione. E questa riorganizzazione della produzione, che comportava la riorganizzazione generale della società, era una necessità intrinseca del percorso che la specie umana aveva compiuto e che sta ancora compiendo a partire dal suo lontano stato animale (simile alle altre specie animali superiori): la natura della trasformazione che doveva compiere era indicata dai presupposti già esistenti nelle condizioni attuali della società umana (analisi del funzionamento del capitalismo) e nelle relazioni attuali della specie umana con il resto della Terra su cui vive e si sviluppa. Elaborarono quindi una concezione del mondo, della storia dell’umanità, del percorso che la specie umana sta compiendo.

Dalla fondazione del marxismo, nel campo delle dottrine economiche vi è stata una lotta continua

– tra chi sosteneva che l’origine dei mali della società (crisi, ingiustizie, ecc.) stava nella distribuzione del prodotto (dagli utopisti, a Keynes e ai suoi epigoni nostri contemporanei) da una parte

– dall’altra i marxisti che sostengono che l’origine dei mali sta nella produzione: nel modo di produzione, nei rapporti di produzione.

I primi in un modo o nell’altro occultano o sorvolano sulla necessità di eliminare il capitalismo, la borghesia, la divisione dell’umanità in classi sociali.

I secondi mettono l’eliminazione del capitalismo, l’instaurazione di un nuovo modo di produzione (precisamente definito dai presupposti già esistenti, cioè il comunismo tramite la fase di transizione dal capitalismo al comunismo: il socialismo) come conditio sine qua non di ogni trasformazione sociale e della stessa prosecuzione del progresso e dell’esistenza della specie umana.

Dalla fondazione del marxismo, nel lotta di classe si sono sempre scontrate due correnti:

– rivendicare una partecipazione più ampia alla società esistente sfruttando le occasioni, possibilità e opportunità esistenti in campo politico (democrazia borghese), economico, sociale, ecc.

– lottare per instaurare il comunismo attraverso il socialismo usando la rivendicazione come strumento ausiliario della mobilitazione del proletariato a organizzarsi e lottare per instaurare il socialismo.

Dalla fondazione del movimento comunista, nel campo delle dottrine politiche vi è stata una lotta continua tra

– chi sostiene che bisogna fare una distribuzione più equa del reddito, misure sociali, ecc.

– chi sostiene che bisogna riorganizzare l’intera società a partire dalla politica (dittatura del proletariato invece che dittatura della borghesia e del clero: quindi completamento della trasformazione democratica, abolizione del ruolo politico privilegiato che la borghesia e persino il clero e altre classi dominanti hanno mantenuto nei paesi europei anche dopo la generalizzazione in Europa dei risultati della rivoluzione francese) e dall’economia (proprietà collettiva di tutte le aziende importanti, delle banche, delle assicurazioni, ecc.).

Noi oggi chiamiamo economicismo la prima via, che non esclude lotte accanite e anche eroiche. Ma non è la nostra via. La crisi generale in corso, la sua fase terminale in maniera più evidente, mostra i limiti di quella via. C’è stato, è vero, un periodo in cui, pur nell’ambito dei rapporti di produzione capitalisti e del lavoro salariato, la ripartizione dei beni e servizi era più favorevole per le masse popolari, in cui i lavoratori e il resto delle masse popolari hanno strappato una ripartizione del prodotto a loro più favorevole. Ma non perchè allora i padroni erano umani e illuminati e adesso sono sadici e scemi, ma perchè i padroni avevano a che fare con un movimento comunista forte, che aveva instaurato paesi socialisti, vinto il nazifascismo, condotto la rivoluzione anticoloniale e antimperialista, democratica e antifeudale nei paesi oppressi e perché il capitalismo era nella fase di ripresa e sviluppo dopo le distruzioni e gli sconvolgimenti delle due guerre mondiali. Per questo i capitalisti sono stati costretti ad andare “contro natura”, cioè contro le leggi del capitalismo: i sindacalisti della Repubblica Federale Tedesca dicevano che al tavolo delle trattative oltre a loro e ai padroni c’era un convitato di pietra, la Repubblica Democratica Tedesca. Appena non hanno avuto più il “fiato sul collo”, i capitalisti hanno ripreso a fare secondo la loro natura (in vari riconoscono che a partire dagli anni ’80 i ricchi hanno iniziato a diventare sempre più ricchi e a spadroneggiare nel mondo, ma in genere in pochi collegano questo con il declino del movimento comunista, con l’esaurimento della prima ondata della rivoluzione proletaria, con il crollo dell’URSS e degli altri paesi socialisti).

 

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