La riforma della scuola del governo Renzi, licenziata nel mese di marzo e passata al vaglio delle Camere, conferma e aggrava la tendenza a fare della scuola pubblica un campo di investimento privato e quindi di valorizzazione del capitale.
Tale tendenza è stata accelerata dal governo Berlusconi (Riforma Gelmini) nel 2008, proprio quando è iniziata la fase acuta della crisi e la classe dominante ha avviato su scala più ampia e con maggiore arroganza lo smantellamento dei diritti e delle conquiste: non ci devono più essere vincoli né formali né sostanziali a intralciare i profitti dei capitalisti.
Le mobilitazioni studentesche dal 2008 a oggi sono state diffuse e generose e, benché non abbiano raggiunto gli obiettivi immediati che si proponevano, hanno avuto il grosso pregio di avviare alla lotta politica centinaia e migliaia di giovani e giovanissimi che in quelle manifestazioni, in quei movimenti hanno iniziato, in molti casi per la prima volta, a concepirsi come parte attiva della società e della lotta contro gli effetti della crisi.
Da più parti si sente dire che a fronte della gravità dell’attacco alla scuola pubblica, il movimento degli studenti (ma anche quello dei docenti, dei precari, del personale tecnico) non è stato e non è adeguato. Questa conclusione ha una base di verità: le mobilitazioni non hanno impedito alcuna riforma e nemmeno intaccato gli usuali e crescenti finanziamenti alle scuole private che proseguono da decenni. Se ci limitiamo a questa verità, ci impantaniamo nella logica di vedere il bicchiere mezzo vuoto e, soprattutto, non ci poniamo la questione di come riempire l’altra metà del bicchiere. Che è mezzo pieno, ma non è sufficiente. Riempiamolo, fino all’orlo e oltre, facciamo che le mobilitazioni degli studenti esondino dalle questioni strettamente rivendicative per assumere un ruolo nella trasformazione del paese, non nella difesa del (cattivo) presente.
E’ possibile salvare (o persino migliorare) la scuola pubblica in un contesto di generale decadenza, disgregazione, degrado materiale e morale in cui versa paese? Dobbiamo essere realisti: possiamo difendere la scuola e vedere ospedali che vanno allo sfascio, morti per malattie curabili, disoccupazione e miseria che avanzano, disgregazione sociale? Gli studenti non sono una classe, sono una categoria della società: nella scuola pubblica ci sono studenti che provengono da famiglie proletarie e quelli che provengono da famiglie borghesi (aumentano i primi e diminuiscono i secondi, anche se l’abbandono scolastico da parte di giovani che provengono da famiglie proletarie sta dilagando). Non è un giudizio morale, ma una questione concreta: sono gli studenti delle famiglie proletarie, gli studenti delle masse popolari, che non solo “vedono” la società che va allo sfascio, ma la vivono e la subiscono, sono quelli la cui esperienza concreta offre mille e uno motivi per ribellarsi, organizzarsi e combattere.
Se non lo fanno, più e prima che addossare la responsabilità a loro, cerchiamo di capire quale è la prospettiva che gli viene offerta da chi “chiama alla lotta”. Respingere la riforma Giannini? E tacere sul Jobs Act, sulla disoccupazione crescente, sulle condizioni delle case popolari, sullo strozzinaggio a cui le famiglie sono costrette per accedere a un mutuo? Chiunque capisce che non è credibile. Sembra una lotta inutile, da fare a tempo perso, da cui non dipende il proprio futuro.
Un futuro fatto di domande, come è normale che sia, le cui risposte sono generalmente inquietanti.
La relazione fra la grande generosità e partecipazione delle lotte studentesche e il loro repentino riflusso sta proprio nel fatto che sono concepite principalmente come lotte rivendicative, di settore, che non hanno trovato la strada (non gli è stata preparata e non è stata perseguita) di diventare affluente nella generale lotta per la trasformazione del paese di cui i giovani e giovanissimi sono, per interessi generali, di prospettiva e per condizioni oggettive, un pilastro essenziale e determinante.
Il motivo di questo limite non può essere imputato agli studenti: loro stessi ereditano un “modo” di concepire le cose, il mondo, la lotta, la mobilitazione; lo ereditano dalla concezione della sinistra borghese (che fa parte integrante del senso comune corrente) e lo riproducono, seppure con tendenze positive, creative e innovative. Che devono essere coltivate e sviluppate. Non è una rivisitazione dello slogan “la fantasia al potere”, al contrario è la linea specifiche che il movimento degli studenti, dei giovani e dei giovanissimi può e deve assumere partendo dalla “naturale” tensione a sperimentare e ricercare. Se a questa tensione combiniamo la predisposizione a scoprire e imparare (propria di tutti i giovani) e focalizziamo il discorso alle leggi proprie della trasformazione del mondo, il ragionamento fila liscio e ci permette di superare la sindrome da bicchiere mezzo vuoto.
Scoprire, conoscere, assimilare, sperimentare nella pratica le leggi secondo cui la società funziona e si trasforma, le leggi che la determinano, imparare metodi e strumenti e sperimentarli, questo è il collo di bottiglia. Il movimento comunista offre ai giovani l’unica possibilità di essere protagonisti del presente e costruttori del futuro.
Il bicchiere mezzo pieno si riempie se la lotta per la difesa della scuola pubblica si traduce in lotta per conquistare.
Il contesto in cui si svolge è una grande prateria dove sperimentare: dall’autorganizzazione per i lavori di manutenzione (coinvolgendo lavoratori, cassintegrati e disoccupati), alla disobbedienza fiscale (non pagare più le tasse o autoridursele in massa), al sostegno alle mobilitazioni degli operai, alle occupazioni di stabili per riconsegnarli all’uso collettivo.
E poi lo studio, lo studio della concezione comunista del mondo e del bilancio della lotta di classe.
Teoria e pratica: quella che per i padroni è “scuola di pessima qualità e stage in aziende”, per noi è “imparare dall’esperienza della lotta di classe e sperimentare i criteri, i principi e gli insegnamenti che ne ricaviamo”.
Sono due modi di intendere la formazione. La prima è la formazione a essere il più possibile compatibili, disponibili e utili allo sfruttamento. La seconda è la formazione a essere parte attiva e cosciente della trasformazione del paese e della società. Non ci sono altre possibilità: o la prima o la seconda. Tutte le teorie sulla “liberazione individuale” come via per fare fronte al caos e alla barbarie è propaganda di guerra che serve a che giovani e giovanissimi si perdano in uno dei tanti modi che la classe dominante mette a disposizione.