“Senza Stalin, eravamo tutti nazisti, questa è la realtà. Non come quella mascalzonata di Benigni in “La vita è bella”, quando alla fine fa entrare un carro armato con la bandiera americana. Quel campo, quel pezzo d’Europa la liberarono i russi, ma… l’Oscar si vince con la bandiera a stelle e strisce, cambiando la realtà”
Mario Monicelli
Il 2 febbraio ricorre l’anniversario della gloriosa vittoria di Stalingrado che arresta l’avanzata nazista e segna la riscossa dell’Armata Rossa, delle masse popolari sovietiche e di tutto il mondo.
Il nome Grande Guerra Patriottica è indicativo della strategia adottata dal PCUS per far fronte all’aggressione nazista: unire in uno sforzo congiunto tutte le masse popolari sovietiche, mobilitandole per rispondere alla minaccia nazista che incombeva. La Grande Guerra Patriottica, in quella fase, fu il principale processo pratico attraverso cui le masse popolari dell’Unione Sovietica proseguirono la loro trasformazione in classe dirigente e rafforzarono il legame con il Partito Comunista. Facendo della lotta contro i nazisti un elemento di avanzamento nella costruzione del socialismo il PCUS guidò il popolo sovietico nell’impresa di spezzare l’assedio di Stalingrado. Fu per questa via che lo guidò a trasformare il momento di maggior pericolo per la sopravvivenza del paese guida del movimento rivoluzionario internazionale, e il più buio per le masse popolari di tutto il mondo che a esso guardavano come al sole dell’avvenire – il periodo di maggior espansione del fascismo su scala internazionale – nel suo opposto, nel primo passo di una marcia che si fermerà solo a Berlino con la sconfitta del nazismo e con la bandiera rossa che sventola sopra il Reichstag.
L’“operazione Barbarossa”. L’attacco nazista all’Unione Sovietica (la cosiddetta operazione Barbarossa) era iniziato nel giugno del 1941 e aveva travolto un’Armata Rossa ancora in fase di addestramento, riammodernamento ed elaborazione di una strategia difensiva, impreparata a reggere l’urto dell’esercito della coalizione fascista (insieme ai tedeschi vi erano i reparti rumeni, italiani, ungheresi, finlandesi, slovacchi e di volontari francesi e spagnoli), considerato fino ad allora imbattibile, forte di circa 3 milioni e mezzo di uomini, migliaia di carri, aerei e pezzi d’artiglieria. Il primo anno di guerra si risolse in una rapida avanzata dei tedeschi, che sfruttarono la difficoltà a difendere un fronte così vasto come quello russo, e una serie di sconfitte e ritirate dell’Armata Rossa che subì ingenti perdite e fu costretta a cedere vasti territori, mentre le industrie pesanti venivano smontate, caricate su convogli ferroviari e rimontate lontano dal fronte.
“Essi non avevano alcun interesse a “bruciare” alcunché, ma avevano invece interesse a salvare i beni per se stessi e a portarli via al nemico. In ogni stabilimento industriale, appena il nemico si avvicinava, gli operai si organizzavano in gruppi per smontare il macchinario, ungerlo, imballarlo e spedirlo a est. Gli operai andavano a est con i loro macchinari e rimettevano in piedi gli stabilimenti nelle zone loro assegnate in Siberia o negli Urali. Quando la città di Karkhov venne occupata dai tedeschi, la fabbrica di trattori Karkhov fu orgogliosa per il fatto di non avere mai smesso, neppure per un giorno, di fabbricare carri armati contro Hitler. La maggior parte degli operai si trasferì a est con il macchinario, ma un certo numero di operai rimase a Karkhov per mettere insieme le parti già costruite, e guidare gli ultimi carri armati contro il nemico. Prima che la produzione venisse fermata a Karkhov, la fabbrica stava di nuovo producendo nell’est”.
Da L’era di Stalin di A. L. Strong – Pagg 138 – 10 euro.
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Nel frattempo la Wehrmacht (le forze armate tedesche) applicava nei territori conquistati e verso i prigionieri di guerra una spietata politica da guerra di sterminio: consegna immediata alle SS dei commissari politici, dei partigiani e degli ebrei catturati, privazione dei civili di qualsiasi diritto di appello e impunità di fatto dei soldati tedeschi da qualsiasi pena per i crimini commessi contro di loro, compresi omicidi, stupri, violenze e saccheggi.
L’avanzata era stata bloccata solo alle porte di Mosca, sfruttando le difficoltà dei tedeschi nell’affrontare il rigido inverno russo, mentre a nord resisteva Leningrado e a sud, cadute l’Ucraina e la Crimea, i tedeschi puntavano al Caucaso con i suoi pozzi di petrolio.
Non più un passo indietro! Proprio da qui, nella primavera del ‘42, Hitler riprese le operazioni militari con il lancio della cosiddetta “operazione Blu”, per conquistare i bacini del Don e del Volga e distruggere le importanti industrie di Stalingrado, principale centro produttivo e snodo di comunicazione nell’area. Quando a luglio i tedeschi entrarono in collisione con l’Armata Rossa nella grande ansa del Don che ospita Stalingrado, il comando generale sovietico aveva deciso per la resistenza a oltranza. L’esercito sovietico, numeroso ma male armato, e l’intera popolazione della città erano decisi a tradurre in pratica la direttiva del Commissario del Popolo per la difesa di Stalingrado e proveniente direttamente da Stalin: “…è giunto il momento di cessare la ritirata: non più un passo indietro!”. Il comando nazista lanciò contro la città oltre un milione di soldati e reparti corazzati, mentre si abbattevano incessanti sulla popolazione i bombardamenti dell’artiglieria e dell’aviazione. Nonostante questa brutale offensiva, la Wehrmacht riuscì ad avanzare solo di 60 km in un mese grazie alla resistenza opposta dall’Armata Rossa e dalla popolazione.
Il 19 novembre, proprio pochi giorni dopo l’annuncio di Hitler di aver conquistato Stalingrado “salvo due o tre isolotti insignificanti”, la città viene svegliata da un rombo proveniente da nord e da sud: con un attacco a sorpresa che colse impreparato il comando nazista, i reparti meccanizzati dell’Armata Rossa (che nel frattempo aveva ammassato un grande numero di truppe e mezzi, riuscendo nel difficile compito di tenerli nascosti ai tedeschi) chiudevano le armate nemiche con una manovra a tenaglia. Era la fine dell’assedio di Stalingrado (durato più di un anno) e del mito dell’imbattibilità tedesca (tra i 250 e i 280 mila soldati tedeschi vennero accerchiati nella “sacca di Stalingrado”) e l’inizio della riscossa per l’Unione Sovietica e le masse popolari di tutto il mondo. In quei giorni a Stalingrado brillò la fiamma più splendente della guerra: l’eroismo di massa del popolo sovietico, l’eroismo che le aveva insegnato il partito comunista.
In ogni situazione, per quanto sfavorevole, i comunisti possono guidare le masse popolari alla vittoria, se hanno raggiunto un’adeguata comprensione della lotta di classe e applicano le leggi proprie della trasformazione del mondo. Il Partito comunista riuscì a dirigere gli eventi, anziché subirli, grazie a una superiore comprensione delle leggi della lotta di classe e dei suoi sviluppi. La gloriosa resistenza e la vittoria di Stalingrado hanno una premessa. Nel 1939, con il patto Molotov-Ribbentrop, il Partito comunista guidato da Stalin evitò che la guerra iniziasse con un attacco all’Unione Sovietica, su cui sarebbero stati concordi tutti i paesi imperialisti, anche quelli “democratici” (come aveva dimostrato la guerra civile in Spagna). Facendo invece leva sui sentimenti antifascisti delle masse popolari francesi, inglesi e statunitensi, costrinse i governi a farla finita con il doppio gioco per cui pubblicamente condannavano gli stati fascisti e le loro azioni mentre segretamente li appoggiavano e, dopo l’invasione della Polonia, a dichiarare guerra alla Germania nazista. Che la linea seguita dai comunisti sovietici fosse giusta è confermato dall’esito finale della guerra, che vede il rafforzamento dell’URSS e la nascita di un vasto campo socialista, cui dopo pochi anni si sarebbe unita anche la Cina, dove i comunisti avevano sconfitto i fascisti giapponesi.
Le conseguenze della vittoria nel mondo: la riscossa del movimento comunista e la sconfitta del fascismo. La vittoria di Stalingrado rendeva evidente ai partiti comunisti dei paesi caduti sotto il giogo fascista che loro era la responsabilità di guidare le masse popolari nella resistenza. Quella vittoria diede nuova vita e forza al movimento rivoluzionario internazionale, dimostrò che sconfiggere i nazisti era possibile, fu la scintilla che riaccese la fiamma della riscossa nelle masse popolari di tutto il mondo che avevano nell’Unione Sovietica un esempio di coraggio e tenacia da emulare, per porre fine alla guerra e alla barbarie naziste e conquistare un futuro luminoso.
Le conseguenze della vittoria in Italia: gli scioperi del ’43 e la Resistenza. Fu la vittoria di Stalingrado a dare impulso nel nostro paese a quella che, in virtù del ruolo assunto dal PCI nella clandestinità, passando per gli scioperi del marzo ’43, la caduta di Mussolini e l’invasione tedesca, vide migliaia di persone prendere la via delle montagne e della clandestinità dando inizio alla Resistenza, mentre nelle fabbriche la lotta partigiana si diffondeva, riprendeva forza il movimento dei lavoratori e si attuava il sabotaggio della produzione. Mettendosi alla testa della guerra contro i fascisti e i nazisti, il PCI raccolse migliaia di uomini e donne, migliaia di elementi delle classi popolari che all’inizio della Resistenza non erano comunisti ma, mossi inizialmente dall’avversione a un regime di cui avevano sperimentato direttamente la condotta terroristica e antipopolare, lo sarebbero diventati sotto l’impulso della loro esperienza diretta.
Con l’eroismo, il coraggio, la dedizione, il sacrificio, anche, i soldati, gli uomini e le donne che hanno sconfitto le armate naziste a Stalingrado e i nazifascisti in Italia hanno scritto la storia e ci lasciano in eredità un insegnamento: le masse popolari diventano classe dirigente imparando da un processo pratico alla scuola del Partito comunista. Combattendo imparano a combattere, combattendo imparano a vincere.
La guerra di tutto il popolo
Ricevuto da Hitler l’ordine di prendere Stalingrado per il 25 agosto, i tedeschi si rovesciarono sul Volga, incuranti delle perdite. Venne così un giorno tragico per Stalingrado: il 23 agosto 1942. In quel giorno alcune divisioni di fanteria e una divisione carri, a prezzo di enormi perdite, riuscirono a rompere il fronte della 62° armata nel settore Vertiaci-Peskovatka. L’attacco principale era diretto su Stalingrado. Le avanguardie nemiche, appoggiate da cento carri, raggiunsero il Volga nella zona dell’abitato Rynok. Nel corridoio di 8 km così creato, il comando tedesco gettò alcune divisioni di fanteria, motorizzate e corazzate. Si creò una situazione estremamente pericolosa. La minima esitazione, la minima manifestazione di panico sarebbero state fatali. E gli hitleriani contavano proprio su questo. E proprio per provocare confusione e panico, e approfittarne per entrare nella città, il 23 agosto bombardarono selvaggiamente Stalingrado. I fascisti gettarono sulla città un’intera armata di aerei. Mai dall’inizio della guerra si erano avuti bombardamenti di tale intensità. La grande città, estendendosi per 50 km lungo il Volga, divenne un mare di fiamme. Tutto bruciava, tutto crollava. Il dolore e la morte colpirono migliaia di famiglie. Ma la risposta all’attacco nemico non furono il panico e la confusione. All’appello del consiglio di guerra del fronte e delle organizzazioni di partito della città, i difensori di Stalingrado – soldati e cittadini- risposero stringendo le proprie file. L’orgoglio di Stalingrado, l’industria, le famose fabbriche di trattori Barricady e Ottobre Rosso, lo Stalgres divennero i bastioni della difesa. Gli operai forgiarono le armi e, con i soldati, difesero le fabbriche. I canuti veterani della difesa di Tsaritsin, i fonditori, i costruttori dei trattori dell’Ottobre Rosso, i marinai e gli scaricatori del Volga, i ferrovieri e gli operai dei cantieri navali, gli impiegati e le donne di casa, padri e figli, tutti divennero soldati di Stalingrado, si levarono come un sol uomo in difesa della città natale. E presto accorsero in loro aiuto le unità del generale Saraev, dei colonnelli Gorkhov e Andriucenko, del tenente colonnello Bolvinov.
La battaglia assunse un carattere sempre più accanito. Gli hitleriani furono costretti a conquistare ogni metro di terreno a prezzo di enormi perdite. Quanto più le orde tedesco-fasciste si avvicinavano alla città, tanto più duri si facevano i combattimenti, tanto più intrepidamente combattevano i soldati sovietici. Se ci si permette un paragone, in quei giorni la nostra difesa ricordava una molla che, premuta, acquista maggior forza.
Il 23 agosto gli hitleriani raggiunsero i Volga a nord di Stalingrado, ma non riuscirono ad allargare la breccia. Le borgate di Rynok, Spartanovka, Orlovka, in cui era tempestivamente stata organizzata la difesa, divennero barriere insormontabili. Ai combattimenti nella periferia settentrionale della città parteciparono centinaia di migliaia di lavoratori di Stalingrado, che lottarono valorosamente al fianco dei soldati della 62° armata. I fascisti non passarono.
A sud, nel settore della 64° armata, i fascisti, contrattaccati dalle nostre truppe, non riuscirono a raggiungere il Volga.
Il punto più debole della nostra difesa era allora la zona della stazione di Kotublan e dello scalo di Konnyi, sul fianco destro della 62° armata. Se gli invasori avessero attaccato in quel punto, anche con solo due divisioni, lungo la linea ferroviaria verso sud, avrebbero potuto facilmente sboccare sulla stazione di Voroponovo, nelle retrovie della 62° e 64° armata, e tagliarle fuori da Stalingrado. Ma i generali hitleriani evidentemente volevano prendere due piccioni con una fava, cioè prendere d’assalto Stalingrado e circondare tutte le truppe della 62° e 64° armata. La cosa li attraeva tanto che non si accorsero della crescente resistenza opposta dalla 62° e 64° armata, dell’allungamento del fronte e delle vie di comunicazione, elementi che alla fine, anche questa volta, fecero fallire i piani degli strateghi hitleriani. Il calcolo di creare panico e sfiducia nella città con il selvaggio bombardamento che avevano effettuato, si dimostrò errato. La popolazione sostenne anche questa durissima prova.
V. Ciuikov, La battaglia di Stalingrado, Ed. Riuniti