Lo scopo dell’assemblea e degli eventuali altri incontri che seguiranno è stato quello di contestualizzare la repressione alle lotte cui si riferisce (non considerandola quindi come un quid separato e da considerare a sè stante), oltre a dotarsi di strumenti adeguati di autodifesa.
Il primo intervento, è stato quello di Benedetto Ciccarone, avvocato e coautore del manuale di autodifesa legale presentato all’assemblea, mette in evidenza il contesto generale in cui si inserisce la stesura del manuale. Oltre a sottolineare la necessità di dotarsi di strumenti di autodifesa (per evitare risposte inadeguate e colmare anche eventuali mancanze di esperienza o di dialogo fra gruppi politici), si premette fin da subito che quando si parla di “norme” ci si riferisce comunque al diritto borghese. Va da sè che le norme, anche quando sono volte a tutelare dei diritti, che appaiono a difesa degli imputati, vanno invece sempre e comunque lette come facenti parte di un diritto unicamente funzionale agli interessi della giustizia borghese. Per questo, se colpiti dalla repressione, per cercare di capire dove vuole arrivare l’accusa e dare una risposta adeguata, soprattutto politica, ma anche “tecnica”, è bene comprendere il contesto in cui nascono le norme e quali sono i loro scopi. In particolare, per quel che riguarda i reati associativi, basati sulla caratteristica della condivisione (amicale, politica..) e sull’appartenenza, l’imputazione comporta in molti casi misure come l’arresto, ordinanze cautelari e, cosa che più riguarda la discussione, il differimento del colloquio con il difensore; il che comporta spesso, ad esempio, un interrogatorio senza la presenza dell’avvocato. La miglior soluzione è chiaramente non rispondere. In questa fase assistiamo ad un ritorno a processi che tendono a mettere nello stesso calderone diversificate esperienze di lotta, accomunandole sotto la generale accusa di terrorismo; di conseguenza, frequente è la pratica diffusa della “raccolta di sommarie informazioni”, non un vero e proprio interrogatorio, dove il fatto discriminante è la posizione dell’interrogato, non imputato ma equiparabile ad un testimone (obbligo di rispondere e dire tutta la verità). In generale, i consigli di questo tipo riguardano soprattutto la fase pre-processuale. Vi è un’ampia discrezionalità e un frequente tentativo di accomunare i solidali a chi viene accusato, con lo scopo di terrorizzare e minare la solidarietà. Si sottolinea che anche in questo caso, la miglior difesa è l’attacco, attraverso una conduzione politica del processo, insieme alla tutela dell’agibilità della difesa da parte degli avvocati. L’intervento è continuato citando alcuni esempi pratici di situazioni-limite in cui ci si può venire a trovare.
Il secondo intervento è stato del compagno Angelo D’Arcangeli, membro dei CARC e imputato a Bologna nel processo relativo al sito di denuncia “caccia allo sbirro”. Per quel sito, dopo un immediato hackeraggio pochi giorni dopo la comparsa sul web, l’accusa è quella di istigazione a delinquere. In realtà non esiste nessun elemento a prova delle accuse mosse. La battaglia promossa col sito, s’inserisce nel più generale tentativo di costringere gli sbirri al codice investigativo, e soprattutto di collegare i processi per “caccia allo sbirro” con quelli per associazione sovversiva a carico dei militanti dei CARC, allo scopo di interrompere e far cessare la costituzione e l’attività di una procura speciale anti-terrorismo, coordinata dal p.m Giovagnoli, dal g.u.p Gamberini, e che si avvale come “braccio” del famigerato settimo reparto mobile di Bologna. Unificare questi processi, ha il significato di spostarli sul piano politico: da accusati ad accusatori. L’intervento si è chiuso evidenziando la necessità di costituire un coordinamento contro la repressione tra le realtà colpite e una vigilanza sull’operato delle forze dell’ordine.
L’ultimo intervento prima del dibattito, è dei compagni anarchici del centro di documentazione Fuoriluogo. Vi è stato, nel caso dell’attacco repressivo contro questi compagni, un cambiamento nella strategia repressiva; un attacco che si articola in maniera diversificata, non solo con lo strumento legislativo tout-court. Non più, come in passato, si è ricorso all’art. 270bis, ma ad una più generica “associazione a delinquere con finalità di terrorismo”. Il tentativo dello stato è quello di delineare una sorta di collage di situazioni di lotta, per riunirle in una cornice unica (tra l’altro senza capi d’imputazione specifiche), di costruire in questo modo la sussistenza di una non precisata “pericolosità sociale”, di configurare l’esperienza del Fuoriluogo come un gruppo chiuso e ben individuato (cosa assolutamente non corrispondente alla realtà). L’ultima inchiesta in particolare unisce differenti iniziative di lotta in un’unica ipotesi di reato associativo (situazione analoga a quanto avvenuto per i compagni anarchici di Torino in merito alla campagna contro i CIE). Elemento interessante è lo spostamento della “barra del consentito”: non più la teoria del doppio livello, ma direttamente l’attività alla luce del sole viene ricondotta a ipotesi di reato associativo. Si veda a proposito quanto ha dichiarato il procuratore Alfonso: “l’art 270 non serve più, bisogna trovare altre strategie per incriminarli”, perchè, il più delle volte, il fatto non sussiste. E in effetti, accanto alla repressione giudiziaria esiste un ambito repressivo meno “eclatante”, costituito da misure che tendono a disarticolare le realtà che portano avanti le lotte sul territorio. Nel caso di Fuoriluogo, ad esempio, il sequestro della sede e l’attacco a tutti coloro che esprimevano solidarietà o tentavano di portare avanti l’attività: avvisi orali, fogli di via, sorveglianza speciale, il tutto con la massima discrezionalità della questura. Senza dimenticare il piano della forca mediatica, utile alla costruzione del “profilo” incriminatorio (si veda il dossier pubblicato dall’Espresso sui compagni bolognesi). Infine, a completare il quadro, va aggiunto un controllo a bassa intensità e realizzato attraverso fermi arbitrari, perquisizioni, controlli e permanenza in questura, fino ad arrivare ad una vera e propria attività occulta, come danneggiamenti “misteriosi” (che in un caso, a seguito della manomissione di un’auto di un compagno, ha sfiorato il tentato omicidio).
Negli interventi susseguiti, si aggiunge che le ipotesi di reato sono sempre più strumentali a dividere o sottolineare le differenze, e questo lo si evince anche dalla differenziazione nella carcerazione preventiva: si creano posizioni differenti per rendere più complicato anche il fronte della difesa. Questo aspetto, come già accennato, si aggiunge al fatto che i reati di cui si viene accusati, sono sempre più ininfluenti rispetto al “profilo” che lo stato vuole delineare attorno a chi porta avanti lotte concrete e diffuse. Per questo, si ritiene importante e necessaria la coesione tra gli imputati per opporsi alla divisione attraverso l’innalzamento del grado di rottura col terreno del nemico, attraverso il disconoscimento dei ruoli determinati dalla giustizia borghese e un rapporto positivo con coloro che vengono reclusi.
Non di meno, la repressione non deve essere lasciata agli “addetti ai lavori” ma considerata un campo di lotta comune e di classe; questo in quanto tutti gli interventi concordano nel considerare che il piano cosiddetto “tecnico” funziona solo se è al servizio di quello politico; la strategia di rottura con la giustizia borghese va portata avanti insieme e su entrambi i piani.
Si propone di proseguire questo percorso di dibattito e di confronto, insieme ad un’attività comune e unitaria nella lotta alla repressione e nella solidarietà attiva.
Si accoglie la proposta, realizzata con la stesura di questo report, di esprimere come assemblea e all’unanimità la solidarietà a tutti i compagni colpiti dalla repressione nelle ultime inchieste; i compagni dei Carc, i compagni del Fuoriluogo, i compagni che hanno lottato contro i CIE, il TAV, e tutti i prigionieri rivoluzionari tuttora nelle carceri.
Parma, 29 aprile 2012