Un’autocritica, un esempio utile per tanti compagni

 

Dal “difendere posizioni” al “conquistare posizioni”

 

La lettera che pubblichiamo tratta due questioni distinte, ma che spesso nell’attività pratica sono combinate tra loro:

1. le difficoltà e il timore a intervenire in pubblico, la lotta per superarli e il ruolo che hanno in questo la volontà individuale, la spinta e il sostegno del collettivo, gli strumenti che il partito dà ai suoi membri;

2. la tendenza a vedere il “bicchiere mezzo vuoto”, a mettere in primo ciò che di arretrato c’è in un ambiente, in un organismo, in un’iniziativa (e, con onestà, il compagno mostra come questo può diventare la giustificazione dietro cui nascondere le proprie arretratezze!), a cercare chi è simile a noi anziché individuare il positivo da sviluppare, gli appigli su cui costruire. Se un compagno non esce da un’assemblea, una manifestazione, un presidio, da qualsiasi iniziativa che coinvolge le masse popolari senza dei contatti da sviluppare, senza una comprensione migliore della situazione, senza aver individuato limiti ed errori da superare (come il compagno della lettera), senza delle proposte di iniziative da organizzare, non ha ancora svolto il suo compito di comunista.

 

Cari compagni, sull’esempio di alcuni articoli che avete pubblicato nei numeri scorsi di Resistenza che partivano da esperienze concrete, in certi casi lettere, con cui la Redazione ha trattato questioni di metodo e orientamento, attraverso le attività delle Sezioni o i resoconti di singoli compagni, ho deciso di porre apertamente alcune riflessioni che riguardano la mia attività e che credo possano essere utili a tanti compagni e a tante compagne nell’andare a fondo del discorso che riguarda la trasformazione che dobbiamo fare per elevare la nostra pratica al livello della nostra teoria. Non so se pubblicherete questa lettera, ma il mio obiettivo è quello di rendere collettiva l’esperienza di cui tratto, in modo che la trasformazione che devo fare io si inserisca, come l’affluente si inserisce nel corso di un fiume, nel sommovimento che tutto il Partito e tutta la Carovana del (nuovo)PCI vive in questa fase di lotta tra due linee. E in modo che la trasformazione che devo fare io sia patrimonio di tutti, verificabile e qualificabile dal collettivo. Intendo cioè sottrarmi dalla sfera individuale (in cui ognuno può “accettare” le proprie arretratezze e i propri limiti e trovare scuse e attenuanti) e affidarmi al collettivo. L’esempio che riporto è piccolo e parziale, vediamo se sono capace di trarne gli elementi generali utili a me e utili ad altri che, come me, sono alle prese con le difficoltà di adeguare (di cambiare) mentalità e personalità in modo efficace a tradurre in pratica la concezione comunista del mondo.

Il 12 ottobre ho partecipato con un altro compagno della Sezione di Milano a una delle due assemblee programmate nel quadro delle mobilitazioni NO EXPO. Devo dire subito che è un ambito che non seguiamo con sistematicità e continuità e pure che è promosso da aggregati e forze con cui abbiamo avuto più che altro rapporti diffidenti, per non dire conflittuali. Ma è più giusto dire “superficiali” e non solo per responsabilità loro.

Avrei dovuto fare un intervento, come stabilito dalle indicazioni della Segreteria Federale Lombardia. In verità per vari motivi, benché avessi abbastanza chiaro (ma in astratto) cosa dire, non avevo preparato l’intervento dettagliatamente, contando sulla mia (presunta) capacità di “leggere la situazione sul momento” e articolare gli argomenti a seconda della piega che avrebbe preso l’assemblea. Nei fatti una serie di circostanze (prevedibili, se ci avessi messo la testa almeno il giorno prima) hanno influito sulle mie presunte capacità di intervenire a braccio: assemblea non strutturata, interventi non programmati, intervento introduttivo essenziale e che non affrontava alcuna delle questioni che ritenevo importanti (e su cui avevo pensato di articolare il mio intervento improvvisato). Ecco, non ho trovato spunto, non ho colto l’occasione, ho soffocato quel po’ di spirito di iniziativa che pure avevo fino ad alcune ore prima. Non ho fatto l’intervento. Man mano che si susseguivano gli interventi degli altri compagni il compito di intervenire è stato sostituito nella mia testa dal compito di ascoltare cosa di interessante (per il nostro lavoro politico presente e futuro) venisse fuori. Cioè ho iniziato, del tutto “spontaneamente” a cercare qualcuno che dicesse qualcosa che andava bene a me. Non scrivo questa lettera per concludere se qualcuno abbia effettivamente detto quel qualcosa, la scrivo perché quando l’assemblea si è conclusa avevo la testa pesante e un peso “morale”, quasi fisico: avevo un compito, era importante, non soltanto non l’ho svolto, ma non l’ho nemmeno iniziato. Non ho perseguito l’obiettivo che il mio collettivo mi aveva affidato.

Badate che non sono uno alle prime armi. Sono uno di quelli che ha fatto della lotta rivoluzionaria una scelta di vita, ho ruoli di responsabilità ai massimi livelli del Partito, la mia dedizione alla causa è verificabile in tanti modi, la maggioranza dei quali rientra in quella che chiamiamo “adesione identitaria”. Il peso morale che mi opprimeva alla fine di quella assemblea era il peso morale di chi sa che l’incondizionata adesione e dedizione alla causa, identitaria, non è sufficiente a raggiungere gli obiettivi minimi del nostro lavoro (un intervento a una assemblea) figuriamoci quelli alti, quelli massimi.

Istintivamente e immediatamente ho accampato alcune scuse per giustificare il mio “blocco” al compagno che era con me (e a cui non ho certamente dato un esempio positivo). Ma quelle giustificazioni stridevano, anche mentre le formulavo nella testa, con la consapevolezza che non esistono giustificazioni, esiste solo una lotta, fra il vecchio e il nuovo, in cui ho privilegiato, in quel momento e in quel modo, il vecchio. Il mio vecchio, il vecchio del collettivo che rappresentavo, il vecchio del Partito, ciò che diciamo (e ne sono convinto!) che dobbiamo abbandonare per affidarci e conquistare il nuovo.

Fare un intervento in un’assemblea è per alcuni una cosa semplicissima. Per me no. Ma non averlo fatto mi ha spinto a pensieri, ragionamenti e conclusioni sbagliate, che si sono affiancate, allo stesso modo e parallelamente, alle scuse che cercavo per non essere riuscito a intervenire: “sono sempre i soliti discorsi”, “non è uscito niente di positivo”, “stanno sbagliando direzione” e altre stupidaggini che qualificano non solo le mie arretratezze, ma giustificano pure chi a quell’assemblea ha partecipato, è intervenuto, e pure chi l’ha indetta, ad avere rapporti di diffidenza, se non “conflittuali”, con la nostra area politica.

Per dirla tutta e in modo semplice, mi sono comportato un po’ come la volpe che non arriva all’uva e dato che non ci arriva dice che è acerba.

Allora, mi sono chiesto, è così che contribuisco a elevare la nostra pratica al livello della nostra teoria? In quell’assemblea sono stati fatti interventi arretrati, interventi avanzati, interventi chiari e interventi confusi. Non ero lì per cercare qualcuno che facesse (con le stesse o con altre parole) le nostre analisi e indicasse la via che indichiamo noi. Ero lì per portare un’analisi e un orientamento, per aprire spazi di confronto e discussione, per conoscere aspetti positivi e limiti di chi partecipava e di chi promuoveva e valorizzare il positivo. Non ero lì per affermare “ci siamo anche noi”, ma per individuare le tendenze positive, qualunque fosse il livello da cui partivano, e sostenerle, svilupparle, legarle a quanto di avanzato esprimono altri aggregati e altri organismi. Ero lì per contribuire, nel concreto, nel particolare e nello specifico, a creare le condizioni attraverso cui le organizzazioni operaie e popolari costruiranno il Governo di Blocco Popolare.

Erano due settimane che rimuginavo su questa cosa e la vivevo con un misto fra senso di colpa, vergogna (nei confronti del mio collettivo) e anche un po’ di frustrazione. Avrei dovuto preparare l’intervento prima, considerare le condizioni possibili e probabili in cui si sarebbe svolta l’assemblea, avrei dovuto intervenire, abolendo quella superficialità che mi spingeva a credere di poter fare un intervento a braccio. Era il modo concreto per prepararmi a cancellare, preventivamente, quelle conclusioni supponenti, negative, sbagliate e nocive sul fatto che “dall’assemblea non è uscito niente, potevamo anche non andare”. Quando uno arriva a quella conclusione lì, vuol dire che sta fuori, a sbagliare è SOLO lui.

Ma non basta dire “avrei dovuto”, bisogna fare. Situazione similare il 24 ottobre in occasione dello sciopero generale dell’USB: nonostante il fallimento dell’esperienza precedente, il collettivo ancora mi affida di intervenire all’assemblea conclusiva (dobbiamo anche migliorare nel fare il bilancio dell’esperienza: nessuno mi aveva criticato per l’assemblea del 12 ottobre, ma mi è stato assegnato ancora un intervento…). Questa volta mi preparo, ma lungo il corteo, man mano che si avvicina il momento, ci sono mille (molti meno, ma rende l’idea) fattori che si frappongono fra me e l’assemblea e io non ne contrasto nemmeno uno. Alla fine, su sollecitazione di un compagno che mi spinge a svolgere il compito che mi era assegnato, mi sveglio dall’immobilismo e salgo sul palco. Intervengo. Non dico nulla di ciò che avevo preparato. Ma finalmente il mio collettivo ora può discutere di contenuti, di quello che ho detto, non solo del fatto che, per l’ennesima volta, avrei dovuto intervenire e non l’ho fatto. Quando sono sceso, dopo pochi minuti, ho avuto un riscontro immediato: non mi è lontanamente passato per la testa che gli altri interventi fossero “sempre i soliti”, “tutti arretrati”, non avevo frustrazioni e non vedevo “tutto nero”. Vedevo che avrei potuto intervenire meglio, ma ero concentrato più che altro a verificare se con il mio intervento avevo contribuito, e in che modo, attraverso quali vie, ad arricchire di contenuti e di prospettive una giornata di lotta a cui hanno partecipato tante lavoratrici e tanti lavoratori.

So che non basta. So che si tratta di un piccolo esempio, di un frammento, di ciò a cui bisogna mettere mano. E questa consapevolezza, però, mi fa vedere con più serenità la trasformazione che devo e che dobbiamo fare, ognuno ad affrontare i propri limiti, le proprie resistenze, ognuno alle prese con la trasformazione della propria adesione, da identitaria (di chi deve difendere delle posizioni) a cosciente (di chi le posizioni le deve conquistare).

Un compagno della Federazione Lombardia

carc

 

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