Uno dei fronti caldi delle mobilitazioni d’autunno è la lotta contro la privatizzazione o la chiusura delle aziende pubbliche, in particolare di quelle controllate o solo partecipate dagli enti locali, il grosso delle quali produce e gestisce servizi di pubblica utilità: dai trasporti all’acqua, energia elettrica, gas, dalla raccolta e gestione dei rifiuti alla manutenzione del territorio, dall’assistenza alle persone alle case (ancora) popolari.
Nel corso della crisi generale del capitalismo, i servizi pubblici, la loro produzione, la loro qualità, la loro disponibilità e il loro prezzo sono sempre meno una questione che riguarda lo Stato e la Pubblica Amministrazione, il governo in quanto necessità e bene della collettività: diventano un campo soggetto all’azione delle “leggi naturali dell’economia”, quindi ci sono e sono forniti dove, come e quando servono a valorizzare il capitale. Il TTIP in corso di negoziazione sancisce e aggrava questa situazione, spiana la strada perché diventino terreno di conquista delle multinazionali.
Nel 2012 il governo Monti aveva aperto lo scontro frontale (con la spending review del 2012 che rendeva obbligatoria la vendita o la chiusura entro i 31 dicembre 2013 di “tutte le società in house controllate direttamente o indirettamente da pubbliche amministrazioni centrali e locali), nel 2013 il governo Letta aveva imboccato una via di ripiego (imponendo agli enti che posseggono società in perdita di accantonare riserve e prevedendo, ma solo dal 2017, la chiusura obbligatoria delle aziende che chiudono bilanci in rosso per quattro anni consecutivi), adesso il governo Renzi-Berlusconi torna alla carica annunciando l’operazione “taglia-partecipate”.
L’armamentario propagandistico è lo stesso usato negli ultimi trent’anni per giustificare e far accettare la privatizzazione delle industrie e dei servizi pubblici (inaugurata dalla (s)vendita dell’Alfa Romeo alla FIAT nel 1986 da parte dell’IRI guidata dal Romano Prodi) riecheggiate nei giorni scorsi dal commissario alla spending review Cottarelli: scarsa efficienza, costi elevati, necessità di ridurre il debito pubblico, clientelismo e corruzione, ecc.
Renzi di suo ci aggiunge gli strali contro i compensi faraonici dei manager pubblici.
I servizi pubblici sono stati creati sotto la pressione delle masse popolari e del movimento comunista durante la prima ondata della rivoluzione proletaria. Sono una componente materiale importante e indispensabile della qualità della vita. E sono l’indizio e la manifestazione della nuova società che sta nascendo dalle ceneri del capitalismo, della società in cui ogni individuo per il solo fatto stesso di esistere, di essere membro della società, usufruisce delle ricchezze e delle funzioni della società secondo le sue capacità e particolarità individuali e secondo i suoi bisogni. E’ vero che portano le macchie dell’ordinamento borghese in cui sono venuti alla luce; le macchie sono quelli che cercano di approfittarne, di volgerli a proprio tornaconto individuale, di ricavarvi delle nicchie di sfruttamento, per crearsi proprie situazioni di privilegio e di arricchimento.
I più anziani ricordano quando Togliatti, Berlinguer e C. spacciavano le aziende e i servizi pubblici come “prova provata” che si poteva instaurare il socialismo attraverso le “riforme di struttura” e per via parlamentare. In realtà erano la “base rossa” da cui estendere a tutta la società la produzione di beni e servizi non in funzione del profitto del capitalista, ma delle esigenze collettive, cioè per una lotta più avanzata verso l’instaurazione del socialismo. Il declino che il movimento comunista ha subito sotto la direzione dei revisionisti moderni ha fatto sì che siano state le macchie borghesi ad allargarsi, per cui le aziende e i servizi pubblici sono via via diventati sempre più terreno di speculazione, affarismo, clientelismo, degrado, ecc. Con l’inizio della seconda crisi generale del capitalismo, la stessa classe che, intenzionalmente o spontaneamente (per i capitalisti solo quello che dà guadagno merita la mobilitazione degli sforzi dell’individuo) li ha lasciati andare in degrado, ha avuto gioco facile a usare la carta del degrado per giustificarne la privatizzazione. “Privato è bello ed efficiente” è stata la parola d’ordine da Prodi in qua… quanto sia “bello ed efficiente” basta chiederlo agli operai dell’Ilva e agli abitanti di Taranto.
“Tagliare le partecipate” significa licenziamento di lavoratori, riduzione dei loro diritti e dei loro salari, peggioramento delle loro condizioni di lavoro, significa eliminare servizi che servono a tutte le masse popolari o renderli delle merci che chi ha i soldi si può permettere e chi non ce li ha si arrangia, significa ridurre ancora di più l’autonomia degli enti locali. E’ qualcosa che fa a pugni con le esigenze della convivenza civile, con le necessità di una sia pur minima coesione sociale, con i sentimenti e le idee che l’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria ha fatto crescere e ha radicato tra le masse popolari. Quindi il fronte delle forze che possono essere mobilitate contro la vendita o la chiusura delle aziende delle istituzioni locali è ampio: lavoratori e utenti prima di tutto, ma anche amministratori locali che non vogliono fare gli esattori di tasse e gli aguzzini e che o rompono con le imposizioni del governo centrale o finiscono fatti fuori.
La lotta contro le privatizzazioni possiamo vincerla, l’esperienza che abbiamo alle spalle ci insegna che dobbiamo condurla come una battaglia di civiltà che riguarda il complesso della società, come una questione politica: come componente di un movimento per dare al paese un governo che agisca su mandato delle masse popolari organizzate e che faccia dell’attuazione dei loro interessi il suo programma. Ridurla a una battaglia principalmente sindacale (cioè che riguarda solo il salario e le condizioni dei lavoratori addetti) non fa che indebolire i lavoratori.
Affannarsi a dimostrare che conti in attivo e interesse collettivo possono stare assieme è volere il diavolo con l’acqua santa. Accettare l’utile di bilancio come criterio per misurare l’efficienza di un servizio o per decidere del suo mantenimento o della sua attivazione vuol dire accettare anche le privatizzazioni e quello che ne consegue. Le argomentazioni di tipo finanziario, economico e gestionale che politicanti e sindacalisti complici usano per giustificare le privatizzazioni sono vere dal punto di vista degli interessi della borghesia e nel quadro del suo sistema sociale, cercare di confutarle restando nello stesso ordine di idee e di interessi (tipico della sinistra borghese) è arrampicarsi sugli specchi.
Non ci sono “isole felici”, ogni successo che riusciamo a ottenere va usato per rilanciare, allargare e rafforzare la lotta per costituire un governo di emergenza popolare: la riprivatizzazione a cui sembra avviata l’ABC di Napoli, costituita da De Magistris per “affermare il diritto all’acqua pubblica”, conferma in piccolo quello che la violazione dell’esito dei referendum del 2011 sull’acqua pubblica e i beni comuni ha confermato in grande.
Non siamo i paladini di “carrozzoni” disprezzati dalle masse popolari: la lotta contro la privatizzazione dei sevizi pubblici è lotta per migliorarli ed estenderli, per renderli universalmente disponibili e il più possibile gratuiti, perché i servizi privatizzati ridiventino servizi gestiti dalle pubbliche autorità nell’interesse della collettività.
“Da trenta anni a questa parte i governi di centro-sinistra e di centro-destra si sono dati da fare, in alternanza e in stretta unità di programma, per privatizzare l’istruzione, l’informazione, l’assistenza sanitaria, la ricerca, i servizi pubblici, le autostrade, le case popolari, le banche, le assicurazioni, i musei, il patrimonio artistico e demaniale, le poste e altro ancora. Il sistema delle industrie pubbliche, dall’IRI alle minori, le aziende municipalizzate, le centrali del latte e le altre aziende delle istituzioni locali sono state privatizzate o trasformate in società per azioni da gestire con criteri completamente capitalisti, come monopoli capitalisti in combutta e con la partecipazione dei maggiori esponenti del capitalismo nazionale e internazionale e delle Organizzazioni Criminali. Romano Prodi passerà alla triste storia di questi anni come il distruttore dell’IRI.
Il grande patrimonio pubblico è stato svenduto ai capitalisti perché lo usassero come strumento per estorcere denaro alla popolazione e arricchirsi. L’Alitalia è stata una delle ultime esibizioni di questa criminale dilapidazione del patrimonio pubblico. Governi di centro-sinistra e di centro-destra hanno fatto a gara per vendere e svendere quasi tutto il possibile, in un’orgia di favoritismi, speculazioni, tangenti e corruzione superata forse solo da quanto hanno fatto i loro compari che hanno presieduto alla dilapidazione del patrimonio pubblico dei primi paesi socialisti dell’Europa Orientale e dell’Unione Sovietica. Quello che non hanno venduto e svenduto, lo hanno dato in appalto spennando la popolazione e sfruttando all’osso i lavoratori. Le ricchezze di Berlusconi, di Caltagirone, di Ligresti e di altri profittatori e criminali di regime sono il risultato di questa devastazione del patrimonio pubblico e della eliminazione di fatto dei piani regolatori delle zone urbane. I capitalisti hanno in questo modo avuto la possibilità di allargare la loro sfera d’azione e l’area di investimento dei capitali che non riuscivano più a far fruttare.