Comunisti come? Ideali, morale e scienza

Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente, diceva Marx. Iniziamo con questa citazione che in tanti conoscono e in pochi, ancora, condividono. Non perché non aspirino alla costruzione del socialismo, a cambiare il mondo, non si battano contro le ingiustizie e la barbarie del capitalismo, non siano disposti a lottare, anche con generosità, per difendere i diritti e per rivendicare migliori condizioni di vita e di lavoro. Ma perché concepiscono il comunismo e l’essere comunisti principalmente come una questione “sentimentale”, ideale, una questione di etica, di valori, morale.
Che per costruire una società nuova e superiore, per fare la rivoluzione e costruire il socialismo, abbiamo bisogno di ideali, valori, etica e morale di tipo nuovo è fuori discussione. Abbiamo però altrettanto bisogno della salda (scientifica) consapevolezza che la nostra lotta per trasformare il mondo è la spinta per far compiere all’umanità la trasformazione che è nella natura dell’evoluzione che finora essa ha spontaneamente compiuto, la trasformazione a cui si oppongono i capitalisti: le relazioni, i rapporti, i processi, le idee che il loro dominio sulla società impone al mondo sono la gabbia che imprigiona l’umanità, le impedisce di proseguire il suo cammino, di partorire il futuro di cui è gravida.
Questo articolo è rivolto soprattutto ai tanti compagni con la falce e il martello nel cuore che sinceramente vogliono fare la rivoluzione, ma ancora pensano che questa opera sia una lotta contro “la natura umana” e contro “il mondo” per come lo conosciamo.

Le condizioni oggettive per l’instaurazione del socialismo esistono da tempo e le prime due guerre mondiali sono state la manifestazione della mancata trasformazione della società nei paesi imperialisti, sulla base di queste condizioni:
1. un livello delle forze produttive che consente di fornire a ogni individuo i beni e servizi necessari a una vita corrispondente al più alto livello di civiltà raggiunto,
2. la combinazione delle aziende capitaliste a formare tra loro una rete di scambi che copre i singoli paesi e il mondo intero e rende ogni azienda dipendente da altre per la fornitura di materie prime, semilavorati o mezzi di produzione oppure per la vendita dei suoi prodotti,
3. la trasformazione di una parte importante di lavoratori in proletari (venditori della propria forza-lavoro) impiegati nelle aziende capitaliste (operai, lavoratori salariati).

Il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente non è un atto di fede. Bisogna vederlo, dobbiamo imparare e insegnare a vederlo nel carattere contraddittorio dei processi su cui si basa, si è sviluppato e si regge ancora oggi il capitalismo.

La globalizzazione offre un esempio su vasta scala di quanto diciamo. Per trattare la questione dobbiamo distinguere la forma dei processi della globalizzazione dal loro contenuto.
Nella forma si è trattato di un insieme di misure attraverso cui la borghesia imperialista ha sconvolto la vita della popolazione mondiale allargando i confini materiali e finanziari dei suoi investimenti ed espandendo le condizioni per la valorizzazione del capitale a parti del globo che ne erano rimaste escluse per motivi storici. Il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro per le masse popolari dei paesi imperialisti si è combinato con la devastazione e il saccheggio dei paesi semicoloniali e degli ex paesi socialisti; la sensibile riduzione delle frontiere doganali e la revisione generale (conforme agli interessi dei capitalisti) dei regimi fiscali hanno favorito la delocalizzazione di aziende e imprese. L’espansione e la conquista di “nuovi spazi commerciali” (nei paesi semicoloniali e negli ex paesi socialisti) ha alimentato l’unificazione dei mercati, plasmando usi, costumi, abitudini delle popolazioni che vi sono state sottoposte. A tutto ciò le masse popolari di ogni angolo del mondo hanno fatto fronte con grandi e prolungate mobilitazioni, manifestazione della resistenza al nuovo corso imposto dai capitalisti.

Nel contenuto, si è trattato di un insieme di misure e di politiche che hanno favorito le condizioni oggettive del socialismo, hanno sviluppato a un livello superiore al passato il complesso delle forze produttive, la rete di scambio e relazione fra aziende capitaliste, la quantità complessiva di appartenenti alle classi proletarie (la globalizzazione è stata cioè un salto in avanti nella socializzazione delle forze produttive).
La contraddizione fra forma e contenuto della globalizzazione deriva dalla natura stessa della società in cui è maturata: il carattere distruttivo che ha assunto (sia per le masse popolari dei paesi imperialisti che per le masse popolari dei paesi semicoloniali e degli ex paesi socialisti) è la conferma che anche un fenomeno il cui contenuto è conforme alla tendenza positiva del processo di evoluzione dell’umanità, nel regime dominato dalla borghesia comporta principalmente effetti negativi e distruttivi.

In questa ottica una parentesi va dedicata al movimento NO Global. Negli anni ’90, e in particolare a cavallo del 2000, è stato la diffusa manifestazione della resistenza delle masse popolari al procedere della crisi. Risalta con chiarezza che le prospettive dell’insieme di quelle mobilitazioni oceaniche, articolate, generose erano confinate nella visione ristretta del grosso dei loro promotori: si limitavano a contrastare la forma del processo in corso. Non coglievano la portata e gli sviluppi dei suoi contenuti. Non coglievano e tanto meno facevano leva sui contenuti come strumento per trasformare la società. Sembra una critica superficiale e “spietata”? E’ al contrario un elemento di bilancio generale e sintetico che rafforza e valorizza la generosità di chi (limitandoci all’Italia) ha resistito alle cariche poliziesche al G8 di Genova, di chi ha resistito alle torture nella caserma di Bolzaneto e alla scuola Diaz, di Carlo Giuliani e di tanti altri giovani e meno giovani, uomini e donne che volevano cambiare il mondo. Possiamo farlo, lo faremo. Con i lavoratori, i giovani, le donne, i popoli che la globalizzazione, imposta col ferro e col fuoco in ogni angolo del mondo, rende oggi più capaci di comprendere il loro ruolo di protagonisti del nuovo assalto al cielo.

“Volete fare la rivoluzione, voi quattro gatti?” Anche fra chi ha la falce e il martello nel cuore e aspira genericamente al socialismo è oggi convinzione diffusa che la rivoluzione non è possibile. Il motivo è l’approccio sentimentale al comunismo di cui parliamo a inizio articolo che si manifesta spesso sotto forma di tendenza a schierarsi su cosa è giusto e cosa è sbagliato secondo i canoni e i parametri della borghesia o del clero (e comunque secondo i canoni e i parametri della società borghese).
Affrontiamo qui, in breve, la contraddizione di chi si dice comunista (o comunque afferma che vuole cambiare il mondo), ma è influenzato della concezione borghese del mondo e concepisce il proprio ruolo in quei termini, si sofferma cioè sugli aspetti negativi, si lamenta, si scandalizza, si indigna, denuncia… e alla lunga si rassegna (e finisce col dare la responsabilità del fatto che le cose non cambiano alle masse popolari “corrotte” “pecorone”, “egoiste”, ecc.).
Di fronte alla repressione del movimento studentesco, è del tutto secondario stabilire quanto sono ingiuste le manganellate a ragazzi e ragazze che lottano per il diritto all’istruzione, cioè è del tutto secondario manifestare indignazione e condanna verso le manganellate, i poliziotti che le danno e il governo che le ordina. E’ invece principale curarsi che i promotori del movimento studentesco, anche a seguito delle manganellate che hanno preso, siano spinti a mobilitarsi contro la repressione, siano oggetto della solidarietà dei settori più avanzati delle masse popolari, siano spinti a organizzarsi a un livello superiore, siano spinti a studiare e approfondire i motivi di quelle manganellate, siano chiamati, formati, coinvolti e sostenuti ad assumere superiori forme di mobilitazione che li leghino alla classe operaia, al resto delle masse popolari che si mobilitano, siano spinti a prendere relazioni con l’esterno. In questo modo trasformiamo le manganellate agli studenti in uno strumento al servizio della lotta degli studenti e, via via che impariamo a usare sistematicamente questo metodo, in strumento al servizio della lotta per il socialismo.

Di fronte allo smantellamento del servizio sanitario possiamo limitarci a inveire contro chi lo ha deciso, a denunciare chi si intasca i soldi pubblici, possiamo lamentarci con lettere ai giornali ed esposti. Sono tutte attività “normali” e spontanee (basta fare una fila alle poste per capire quanto siano reazioni diffuse e radicate fra le masse popolari), ma non cambiano la situazione di una virgola. Al livello raggiunto dal saccheggio della sanità pubblica, anche gli strumenti “tradizionali” di lotta dei lavoratori iniziano a vacillare (quanto può reggere uno sciopero a oltranza dei dipendenti di un ospedale pubblico? A pagare sarebbero soprattutto gli utenti e i pazienti). C’è chi ha iniziato a occupare spazi in disuso per organizzare ambulatori medici popolari, centri di organizzazione fra lavoratori, utenti e “medici democratici”. C’è chi ha occupato gli ospedali che dovevano chiudere, tenendoli aperti contro la volontà delle istituzioni. Qualcuno obietterà che non è stato risolto il problema del saccheggio della sanità pubblica e del suo smantellamento, ma di certo è stato seminato il germe dell’autorganizzazione, della solidarietà di classe ed è coltivata la consapevolezza che non basta più chiedere alle istituzioni: occorre che le organizzazioni popolari diventino esse stesse nuove autorità.

Ci fermiamo qui. Gli esempi sono ancora tanti e vari, basta che sia chiaro il concetto: il socialismo non è solo o principalmente la soluzione ai disastri del capitalismo, ma è “la trasformazione della società borghese secondo la linea di sviluppo che le è propria”: “essa ha fuso popoli e regioni in un unico sistema di produzione. Ha creato le condizioni per cui gli uomini possono produrre tutto quanto è loro necessario e nella quantità che sta a loro determinare. Sono finiti i tempi in cui difendersi dalla fame e dal freddo era un’impresa; in cui le carestie, le epidemie e i “disastri naturali” sembravano castighi di dio. Grazie alla borghesia l’umanità ha imparato che la conoscenza e la cultura possono progredire all’infinito, che la materia è trasformabile e ritrasformabile all’infinito” (Comunicato (n)PCI n. 27).

carc

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