L’alternativa al governo Renzi-Berlusconi?

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Il mantra della vittoria schiacciante di Renzi, del suo plebiscito, è propaganda di guerra. Nella classe dominante chi la promuove ha il preciso intento di trasformare una menzogna, ripetendola, in verità (“ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità” insegnava Goebbels, il ministro della propaganda di Hitler). La campagna di esaltazione di Renzi e la proclamazione del suo trionfo elettorale valgono quanto la dichiarazione che la crisi sta per finire: avendo puntato su Renzi, i vertici della Repubblica Pontificia non possono che cercare di manipolare in tal senso le masse popolari.
Invece chi, fra quanti si oppongono al corso delle cose, l’accetta e la rilancia o è incapace di pensare in autonomia dalla classe dominante o lo fa per giustificare il proprio opportunismo e mascherare l’incapacità e l’inadeguatezza a fare fronte alla situazione e assumersi la responsabilità di cambiare il corso delle cose.
Per dare seguito concreto all’ambizione di avere un ruolo positivo nel contesto politico del nostro paese, occorre assumere un metodo scientifico di analisi e di lavoro.
Già nel numero scorso di Resistenza abbiamo dimostrato, numero di voti alla mano, che l’esito delle elezioni è stato tutt’altro che un plebiscito per Renzi: è stato una legnata ai suoi padrini, ai partiti della coalizione delle larghe intese e ai vertici della Repubblica Pontificia. Ignorarlo significa navigare a vista e perpetuare limiti, arretratezze, fantasie e velleità “rivoluzionarie” che alla lunga sfociano, e non possono fare altro, nella denigrazione delle masse popolari che “si sono vendute per 80 euro” e “si fanno complici delle politiche del governo”, “non protestano”, “sono pecoroni”.  Così, dall’opportunismo si passa al servizio di quanti promuovono la guerra fra poveri, si passa al servizio della mobilitazione reazionaria.
Il teatrino della politica borghese è un paravento ad uso e consumo dell’opinione pubblica dietro cui tramano e operano i poteri forti, i “grandi elettori”, i gruppi e le fazioni dei circoli della finanza e della comunità internazionale, il Vaticano. Tuttavia è ancora il principale viatico con cui la borghesia imperialista celebra i suoi riti “democratici”.
Detto ciò, né Renzi e il suo governo, né i vertici della Repubblica Pontificia hanno di che stare sereni.

L’opzione della Corte Pontificia per Renzi (e il conseguente plebiscito elettorale) è in verità un moto che sconvolge il PD come entità, come aggregato di poteri, interessi, intrighi e affari. Questo non solo destina al subbuglio sicuro il teatrino della politica borghese, ma annuncia una nuova serie di contrasti nei vertici della Repubblica Pontificia, quelli che operano dietro le quinte del teatrino.
Per spiegare (e capire) la questione, occorre fare un passo indietro e introdurre nel ragionamento un altro fattore.

La costituzione del PD (2007, in pieno secondo governo Prodi) ha rappresentato il passaggio armi e bagagli di una parte consistente della sinistra borghese nel campo della destra moderata. Per un’analisi dettagliata del passaggio rimandiamo i nostri lettori al Comunicato del 20 luglio 2007 del (nuovo) Partito comunista italiano, reperibile sul suo sito www.nuovopci.it. Qui ci basta procedere per sommi capi.

Il processo con cui la sinistra borghese si è trasformata in destra moderata era iniziato anni prima (nel 1989) con il Convegno della Bolognina. Aveva la faccia di Achille Occhetto che nel 1994 doveva costituire il governo benedetto da Agnelli, ma venne trombato dai miglioristi di Napolitano che avevano contrattato con la Corte Pontificia e con la Mafia l’ascesa di Berlusconi al governo del Paese. E’ stato un processo per nulla indolore, fluido, liscio: PCI, PDS, DS.  Questo processo non si è concluso con la costituzione del PD, la manovra aveva (e ha) bisogno di fasi di assestamento e di sviluppo.
Il fattore da introdurre nel ragionamento è che i vertici della Repubblica Pontificia, dopo l’inizio della fase acuta e terminale della crisi generale del capitalismo (2008), si erano messi alla ricerca di un sostituto di Berlusconi: dovevano liberarsene perché bruciato dagli insuccessi della sua politica e dalla mobilitazione popolare contro la sua banda.
La combinazione dei due aspetti è stata che, dopo vari tentativi “extralegali” (cioè in deroga alle leggi, agli usi e alle prassi della democrazia borghese: governo Monti, la rielezione di Napolitano, governo Letta), i vertici della Repubblica Pontificia hanno infine puntato su Renzi (raccogliendo anche il benestare e il sostegno di Berlusconi) per tentare di tenere assieme il paese e farlo funzionare almeno come gli altri paesi imperialisti (fare fronte alla crisi politica).
Questo progetto politico, però, alimenta la crisi della destra moderata che stava insieme finché al governo c’era Berlusconi. Il PD era complice della banda Berlusconi (per motivi loro D’Alema e Violante lo hanno perfino dichiarato in pubblico), ma grazie alla sua opposizione ufficiale a Berlusconi teneva al guinzaglio la sinistra borghese e frenava l’opposizione popolare: nel 2001 (dopo la prova del G8 di Genova) fu addirittura Bertinotti con la sua Commissione Parlamentare d’inchiesta a trarre d’impaccio Berlusconi. L’ascesa di Renzi invece ha prodotto e produce lacerazioni letali nella struttura del PD:  le reti di interessi, i comitati di affari, gli ambiti di manovra e sotterfugio che per anni sono stati appannaggio della sinistra borghese e della destra moderata (in particolare in Toscana, Umbria, Emilia, Marche, Liguria… e sacche in Veneto, Lombardia e Lazio) sono diventate ambito di contesa fra quella parte di PD che ancora usufruisce a proprio vantaggio di quanto rimane del legame con la storia, il patrimonio e le relazioni del vecchio PCI e quella parte di PD di provenienza DC che ha altri giri d’affari e di potere e che ha espresso Renzi.

Questo processo di “assestamento” si è manifestato in varie forme di sconvolgimento: lotte intestine fra “i vecchi” (il più noto capofila è Bersani) e i “rottamatori”, che altro non sono che lotte per l’egemonia sulla rete di interessi e intrallazzi che i revisionisti avevano creato e poi controllato (quel Fassino che esulta al telefono “Abbiamo una banca!” ne è un esempio); lotte intestine per i tradizionali bacini di voti (che i vecchi garantivano in virtù della lunga “tradizione”, proprio dove gli interessi anche economici sono più grandi e sostanziosi); generale sommovimento a destra del PD (fuga da Forza Italia malgrado il ruolo di Berlusconi nella definizione dell’assetto del paese) e a sinistra del PD (spinte concentriche di parti residuali della sinistra borghese – vedi SEL – che gravitavano nella sua orbita).
Il 40% attribuito al PD dei 27.4 milioni di voti validi (cioè il 24% degli elettori) nelle europee è dunque l’inizio di una fase di “resa dei conti” interna le cui forme e la cui sostanza per ora si mostrano nei colpi bassi, nelle inchieste a ripetizione, negli scandali che si susseguono ogni giorno (dal MOSE al Monte dei Paschi, dall’ILVA all’Expo, alla ricostruzione post-terremoto dell’Aquila).
Ma si tratta anche di un sommovimento nei vertici della Repubblica Pontificia, tutt’altro che solidi e compatti:  oscillano fra il sottomettersi agli imperialisti UE o a quelli USA e sono alle prese con il crollo del teatrino della politica borghese.

Un “governo forte” che cavalca verso l’ingovernabilità del paese, dal basso e dall’alto.
Dal basso. Quella che doveva essere una delle manifestazioni di punta dell’apertura del semestre italiano di presidenza europea, il vertice sulla disoccupazione giovanile previsto per l’11 luglio a Torino, è invece stata annullata e rinviata (forse a novembre e forse a Bruxelles) per il rischio di grandi mobilitazioni popolari e contestazioni. E’ diventata l’esempio delle difficoltà  dei vertici della Repubblica Pontificia di fare fronte alla mobilitazione: oggi non possono permettersi un’operazione di repressione di massa come quella tentata da Berlusconi con il G8 del 2001 per mantenere l’ordine in un paese allo sbando economico e sociale, sempre più ingovernabile.
Dall’alto. Le manovre fra Renzi e Berlusconi per far decollare le riforme Costituzionali sono la manifestazione della fretta e della furia con cui i vertici della Repubblica Pontificia sperano di levarsi dagli impicci della crisi politica attraverso quelle misure che più di altre sembrano utili a un maggiore accentramento e a una maggiore disciplina tra centri di potere, organismi e istituzioni. Alla fine della fiera contano i fatti; e i fatti dicono che Renzi e Berlusconi non sono nemmeno due facce della stessa medaglia, ma sono la stessa faccia della medaglia, cioè giocano in staffetta per dare una prospettiva di continuità ai vertici della Repubblica Pontificia. Certo, ognuno ha una posizione diversa e pure risponde a specifici interessi, ognuno ha un suo grado di ricattabilità e una sua capacità di ricatto, ma la natura di questo governo si spiega nella formula che usiamo “Renzi-Berlusconi” per chiamarlo in causa e in questa sua natura ha anche la sua debolezza.
Arrivati a questo punto, a chi giova e perché continuare a suonare il tamburo della vittoria schiacciante di Renzi? Giova solo a chi vuole tenerlo in carica e in questo è aiutato dalla propaganda disfattista di chi pensa che non ci siano le forze e le condizioni per cacciarlo e costruire l’alternativa.

Un salto nel buio. Per chi concepisce il governo del paese solo come il frutto degli accordi e dell’accondiscendenza dei vertici della Repubblica Pontificia, pensare a un’alternativa a Renzi sembra un salto nel buio. Ecco il motivo delle reticenze di tutte quelle componenti della società civile, della sinistra sindacale, della sinistra borghese a fare questo salto nel buio: hanno principalmente paura del futuro.
Il fatto è che oggi la mobilitazione per la costruzione dell’alternativa spetta, più che ai membri autorevoli dell’opposizione alle larghe intese e all’austerità, alle masse popolari organizzate. Sono loro che possono costringere gli autorevoli esponenti dell’opposizione a tirare fuori la testa dalla sabbia in cui l’hanno nascosta, superare le reticenze e le leggende metropolitane (“le masse popolari non sono pronte, non ci sono le condizioni”) e costringerli ad assumere un ruolo positivo che vada oltre le litanie e le messe cantate.
Alcuni esempi che traiamo dall’Avviso ai Naviganti n. 43 del (n)PCI, 5 giugno 2014.

“La cosa su cui richiamiamo l’attenzione è la cieca pervicacia con cui alcuni noti promotori del movimento delle masse popolari, quindi persone che godono di prestigio e seguito, completano con i loro pianti e lamenti l’immagine del mondo presentata dal sistema di distrazione di massa. Per sentire le loro lamentele c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Giorno dopo giorno monotono il manifesto rigurgita e piange “l’indubbio successo di Renzi nel voto europeo” (uno a caso: Massimo Villone, 5 giugno).

Dal sito della Rete 28 Aprile www.rete28aprile.it Giorgio Cremaschi nell’articolo I gufi ribelli illustra “il quadro economico e sociale italiano nel quale ha trionfato Renzi” e assicura che “il voto alle europee premia con un consenso da anni ‘50 un partito e un leader che fruiscono di un sistema di potere e sostegno senza precedenti nella storia repubblicana”.

Su www.abitarenellacrisi.org si vuole convincere i lettori (Contro la guerra ai poveri di Renzi: Roma rilancia! 4 giugno assemblea pubblica) che “dopo le elezioni ci rendiamo conto, inoltre, di quanto una parte dell’elettorato abbia confermato il governo dell’ordine, quello che garantisce sogni tranquilli a quella parte del paese che non vuole mettere in discussione i propri privilegi. Il 40% al PD è l’espressione di quella violenza messa in campo a Piazza del Popolo, quella che è contenta, nonostante un alto tasso di astensionismo, di stare sempre su quella strada che, già da tempo, segue l’Europa neoliberista. Le briciole degli 80 euro al mese solo per alcuni, le garanzie alla borghesia delle grandi opere e della rendita hanno prodotto la continuità che il nostro caro Presidente della Repubblica Napolitano sperava”.

Sergio Bellavita, dell’esecutivo provvisorio dell’area “Il sindacato è un’altra cosa-Opposizione Cgil”, intervistato da Checchino Antonini (http://anticapitalista.org) aggiunge mesto che “quel 40% al PD, come si evince dalle dichiarazioni di queste ore, cancella ogni minoranza, se mai fosse esistita, nel PD e restituisce un quadro desolante” (L’opposizione nella Cgil. Intervista a Sergio Bellavita).
E potremmo continuare ancora a lungo”.

Possibile che siano le organizzazioni operaie e popolari a imporre la soluzione, a guidare il processo di costituzione del governo di Blocco Popolare trascinando gli autorevoli esponenti dell’opposizione? Sì. Per due motivi.
Da una parte il generale peggioramento delle condizioni di vita delle masse popolari le spinge a trovare soluzioni. La loro mobilitazione plasma anche le caratteristiche di quella che oggi è l’opposizione, cioè il campo da cui provengono quelli che saranno gli esponenti del Governo di Blocco Popolare.
Dall’altra parte, il corso delle cose impone che ai tentennamenti degli autorevoli esponenti dell’opposizione le masse popolari organizzate facciano fronte procedendo per conto proprio alla costruzione dell’alternativa, diventando esse stesse nuove autorità. Cioè, se gli autorevoli esponenti dell’opposizione non si danno una svegliata, saranno superati e scavalcati.

Oggi non si tratta di vincere contro un nemico enormemente più forte, più intelligente, più potente e autorevole di quanto lo sia chi vi si oppone. Oggi si tratta di combattere contro una tigre di carta, un gigante dai piedi di argilla, un assembramento di rissosi ricchi che possono contare su un relativamente misero stuolo di servi, ognuno pronto a vendersi al miglior offerente. Sono questi che parlano di salvare il paese? Vogliamo credere che lo faranno? Saranno capaci di fare fronte alla crisi? Sapranno assicurare alle masse popolari, e vorranno farlo, anche solo una parte delle conquiste che hanno strappato con le lotte dei decenni passati?
“I comunisti ci hanno strappato la bandiera della povertà” dice Bergoglio. “Le masse popolari vi strapperanno le redini del paese”, diciamo noi. Volerlo fare è il passo per poterlo fare. Alla volontà c’è da aggiungere lo studio della strategia e della tattica per farlo.

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