Un lavoro utile e dignitoso per tutti

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A proposito delle aziende che chiudono, delocalizzano o licenziano circolano varie soluzioni di tipo rivendicativo.
Ci sono le classiche soluzioni da “morte lenta”, quelle portate avanti dai sindacati di regime: vari tipi di cassa integrazione, mobilità con o senza buonuscita, indennità, ecc.
Ma nel movimento operaio e popolare si fanno avanti anche altre parole d’ordine che alimentano la concezione rivendicativa ed economicista, negando, di fatto, che la soluzione sia invece di carattere politico: costituzione di un governo di emergenza popolare e il suo sviluppo fino all’instaurazione del socialismo.

Il reddito di cittadinanza (o reddito minimo garantito) è una rivendicazione che viene avanzata come rimedio alla disoccupazione di massa, per dare un reddito “illimitato nel tempo” a chi non ha lavoro. I fautori si ispirano al fatto che in alcuni paesi europei la socialdemocrazia, per far fronte al movimento comunista e approfittando della posizione privilegiata del paese nel sistema imperialista mondiale, ha effettivamente introdotto sussidi minimi di sopravvivenza per ogni cittadino in cambio della sua sottomissione ad alcuni obblighi e controlli. Keynes negli anni ’30 del secolo scorso consigliava al governo inglese di pagare un salario ai disoccupati mettendone una metà a scavare buche e l’altra metà a riempirle, piuttosto che lasciarli per strada a costituire un pericolo per l’ordine pubblico. Un regime di controlli e angherie che inducano a cercare un lavoro e un sussidio di sopravvivenza hanno la stessa funzione. A questo fenomeno pratico si ispirano tanti di quelli che sognano “uno stato che funzioni come dovrebbe” oppure che concepiscono la libertà di non lavorare come massima forma di libertà, ovviamente da rivendicare rivolgendosi a chi detiene saldamente il potere. Di fatto è una forma di elemosina statale, un ammortizzatore sociale della miseria, che ignora e cancella il contributo che ogni individuo può dare alla produzione di quelle opere e servizi necessari alla collettività e che si presta a fomentare la divisione fra le masse popolari, fra chi ne usufruisce e chi no, fra chi ne ha diritto o meno, ecc. (a partire dal fatto che è aleatorio dire “per tutti”). Al di là dei proclami più o meno radicali, sostanzialmente chi la propone parte dal presupposto che il lavoro che c’è lo decide il padrone in base alle sue prospettive di profitto e se questo decide che non c’è da lavorare, si sta a casa, ma senza morire di fame!

Lavorare meno per lavorare tutti: anche questa parola d’ordine parte dal presupposto di spartirsi il lavoro che c’è, è l’altra faccia dei contratti di solidarietà di Landini e porta infine al risultato pratico del “meno lavoro per meno salario”. E’ anche questa una misura che parte dal presupposto che è il padrone a decidere se il lavoro c’è o non c’è, cosa produrre e cosa no e in che quantità, in base alle sue esigenze e alla sua sete di profitto. I fautori di questa parola d’ordine semplicemente rivendicano la distribuzione di questo lavoro fra tutti i lavoratori disponibili e così contribuiscono a mantenere gli operai sul terreno della rivendicazione e dell’economicismo. E’ un’illusione sostenere che, nella società borghese, lavorare meno porterebbe a lavorare tutti. A parità di altre condizioni i capitalisti prima o poi vanno a cercare i profitti dove sono maggiori e questa parola d’ordine si rivela inconsistente, porta a spartirsi la miseria.
Perché, al contrario,  non dire “lavorare tutti per lavorare meno”? In effetti di lavoro ce n’è per tutti e tanto. Pensiamo alla cura del territorio, alle ristrutturazioni di case da assegnare a chi non ne ha, alla fame di assistenti sociali per disabili e persone in difficoltà, alla penuria di personale nella scuola, nella sanità, alla messa in sicurezza di case e scuole, ecc. Si tratta cioè di rovesciare la visuale e trasformare la realtà: non concepire il lavoro come fonte di profitto per il padrone (lavoro che i lavoratori devono spartirsi ed elemosinare), ma come la fonte di produzione di beni e servizi per la collettività, di cui la collettività può disporre in base alle esigenze e alla cui produzione contribuisce: diritto al lavoro e obbligo al lavoro (chi non lavora non mangia! non è il motto dei capitalisti, ma degli operai protagonisti della prima ondata della rivoluzione proletaria!). Ma questa cosa non si presenta ai padroni come rivendicazione, bisogna imporla come regola della nuova società. Qui sta la differenza con le parole d’ordine campate in aria e riformiste.

Un lavoro utile e dignitoso per tutti! Perché il nostro paese ha necessità di lavoro e di gente che lo faccia, altro che lavorare meno per lavorare tutti o reddito di cittadinanza!
Anche quando e dove in qualche misura queste parole d’ordine vengono attuate, si rivelano misure che non favoriscono uno sviluppo positivo della società, che non creano i presupposti per un innalzamento della partecipazione delle masse alla direzione della società. Il lavoro è la base della coesione sociale. Che ogni adulto abbia un ruolo costruttivo nella società è una misura di civiltà,  oltre che la base concreta che permette di ridurre il tempo dedicato al lavoro in produzione, partendo dalla gestione democratica e consapevole dell’aumento della produttività del lavoro. Produttività sì, ma a favore dei lavoratori e non del profitto!
Ma questa parola d’ordine non la può realizzare nessun governo emanazione dei vertici della Repubblica Pontificia. Questa parola d’ordine è strettamente legata alla costruzione di un governo d’emergenza che sia frutto della mobilitazione delle organizzazioni operaie e popolari e formato da suoi rappresentanti di fiducia. La crisi del capitalismo non lascia spazio per soluzioni parziali, in ballo c’è la direzione del paese: chi decide cosa produrre, quanto e perché.

Autoconvocati contro la riforma Fornero

Il 14 giugno si è tenuta la seconda assemblea nazionale del coordinamento “RSU contro la riforma delle pensioni Fornero”. Questo coordinamento, formato principalmente (ma non solo) da RSU autoconvocate della CGIL si pone l’obiettivo di creare un movimento generalizzato dei lavoratori per far saltare quella riforma. Gli aspetti positivi stanno nella creazione di una rete di RSU che si organizzano indipendentemente dai vertici dei sindacati di appartenenza, prospettando anche la possibilità di convocare autonomamente scioperi e manifestazioni territoriali e nazionali sulla questione.

Il limite è quello di porsi l’obiettivo di una riforma pensionistica favorevole alle masse popolari senza porsi l’obiettivo dell’instaurazione di un governo d’emergenza popolare che possa seriamente mettere in campo un simile provvedimento. E’ giusto mobilitare e organizzare i lavoratori sulla base della lotta contro questa controriforma, ma dobbiamo contemporaneamente creare in essi la consapevolezza che nessun governo ligio al programma comune della borghesia imperialista, nessun governo formato dai partiti delle larghe intese accetterà mai di abrogare una legge che è frutto di un percorso lungo anni ed è uno dei tasselli fondamentali della rapina a danno delle masse popolari. L’attacco alle pensioni è partito da Amato e Dini negli anni ‘90, per arrivare fino alla Fornero; senza dimenticare lo “scalone” di Maroni e della sua Lega Nord, promotrice ora di un referendum opportunista contro la stessa legge Fornero!

Proprio il referendum della Lega è la più chiara dimostrazione degli effetti a cui ha portato negli anni il mantenere questa, come altre lotte, sul terreno puramente rivendicativo, nonostante il precipitare della crisi. Mantenersi su quel terreno vuol dire giocare in un campo dove la borghesia detta le sue regole ed è facile farsi scavalcare da quei soggetti che possono vantare contatti e legami ben più saldi con la classe dominante, offrendo soluzioni più a buon mercato, credibili e attuabili anche se aberranti, come la guerra fra poveri promossa dalla destra reazionaria.

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