Cosa ci hanno insegnato le mobilitazioni operaie degli ultimi anni

Quando arriva la notizia che gli operai di un’azienda sono in mobilitazione contro i licenziamenti, magari hanno allestito un presidio ai cancelli, magari hanno fatto un blocco stradale, è abbastanza frequente (e giusto!) che  subito ci siano compagni e compagne che accorrono a sostenere la lotta. Tanti o pochi che siano inizialmente, una spontanea e genuina spinta alla solidarietà è la dimostrazione che quando la classe operaia si mobilita attrae subito le componenti più attive del movimento popolare che annunciano, la frase è di rito, “ci mettiamo a disposizione della lotta”.
Quanto più è combattivo il nucleo di operai che avvia la protesta, quanto più è deciso ad “andare fino in fondo”, tanto più la cerchia della solidarietà si allarga e la lotta assume visibilità e “autorevolezza”. La combattività degli operai è contagiosa.
I nostri compagni e le nostre compagne sono in genere fra quanti accorrono ai cancelli delle fabbriche in lotta. Lo abbiamo fatto e lo faremo ancora e sempre. E lo faremo meglio, nel senso che quello che abbiamo imparato nel corso degli ultimi anni, combinato con il processo di formazione/trasformazione di cui tutto il Partito e tutta la Carovana del (nuovo)PCI è oggetto e soggetto, ci spinge ad essere più “esigenti” con noi stessi. Non ci basta più “portare solidarietà” e “metterci a disposizione”, vogliamo imparare a fare delle mobilitazioni operaie una scuola di comunismo, vogliamo imparare a valorizzare la mobilitazione degli operai in funzione della lotta per fare dell’Italia un nuovo paese socialista.
Con questi occhi e con questa consapevolezza, saremmo intervenuti diversamente, durante e dopo, le numerose e importanti mobilitazioni a cui abbiamo partecipato: dalla Ginori di Firenze al S. Raffaele di Milano, dalla Irisbus di Grottaminarda alla Jabil di Cassina de Pecchi, per dirne alcune.
Quelle esperienze ci hanno costretti a porci la questione di cosa voglia dire “fare noi stessi e far fare agli operai una scuola di comunismo” in modo più concreto. Certo è che senza quelle esperienze e senza la formazione politica, saremmo ancora a un livello elementare e spontaneo di concepire il nostro intervento. E questo serve, a noi come serve a tutti, a concepire la singola mobilitazione degli operai di questa o quella azienda come una battaglia nel contesto di una più generale lotta (degli operai contro i padroni) e di una più generale guerra (quella per costruire la rivoluzione socialista). 
Da queste esperienze abbiamo imparato tante cose, le riassumiamo per semplicità in pochi passaggi.

Uno. Il coordinamento degli operai, delle lavoratrici e dei lavoratori è importante. La rete di operai combattivi capace di estendere la mobilitazione, portare un esempio, esercitare un orientamento e coinvolgere altri operai è un obiettivo da perseguire. Ma tale obiettivo non può sostituire quello principale: il fatto che la lotta si concluda con la vittoria. Badate che la questione è di primaria importanza. E’ ricorrente la posizione, la tendenza, che subordina il risultato della singola mobilitazione all’obiettivo generale di “fare movimento”, “costruire coordinamento”, “estendere la lotta”. Tale tendenza e concezione alla lunga, e alla fine, a fronte delle difficoltà  contro cui le condizioni concrete portano a sbattere, finisce con il concludere che “gli operai sono arretrati, perché nemmeno a fronte della chiamata alla lotta di altri operai rispondono e si mobilitano”, finisce con il consolidare una posizione tipica della borghesia: gli operai sono pecoroni. In verità, che gli operai siano remissivi, pigri intellettualmente e facili alla demoralizzazione, alla rassegnazione, diffidenti e poco inclini alla lotta, quando è vero, è una specifica forma dei risultati del lavoro di decenni dei revisionisti, riformisti, vertici sindacali, oltre che una specifica forma in cui si manifesta la concezione borghese e clericale del mondo che ha attecchito nuovamente nella decadenza del movimento comunista e ha avuto vita relativamente facile. C’è da dire che vi ha contribuito pure l’inadeguatezza di chi promuove la lotta “e basta” (lotta, lotta, lotta) senza curare le condizioni in cui avviene, le prospettive, il campo politico di quella lotta. La lotta paga, se vince. Se non vince alimenta la disgregazione (anche di questo principio ci sono tanti e chiari esempi). Il coordinamento degli operai, il “coordinamento delle lotte” è possibile e ha una funzione positiva se inquadrato in una mobilitazione politica di trasformazione della società.

Due. Non è mai detto, non è certo, che parole d’ordine radicali corrispondano a una effettiva coerente comprensione del mondo da parte di chi le agita. Cioè non è detto che chi agita parole d’ordine radicali sappia poi dare loro le gambe. Anzi, a volte succede il contrario: parole d’ordine radicali sono la maschera dietro cui si nascondono i limiti di analisi. “Occupare la fabbrica e autogestirla”, ad esempio, in certi casi nasconde le difficoltà a trovare soluzioni concrete. Per quanto sia una parola d’ordine giusta, non si può usare come la panacea di tutti i mali. Per occupare la fabbrica e autogestirla serve un gruppo coeso di operai che sappia (o voglia imparare a) farsi carico di tutta una serie di aspetti (dentro la fabbrica e fuori) che necessitano di tattica, di strategia, di studio. Ecco perché, spesso, dove ci sono comitati di lotta, formali e non, che promuovono parole d’ordine radicali è abbastanza frequente trovare una “spaccatura” con il resto degli operai, molto più tiepidi. Gli operai “più tiepidi” non sono traditori, crumiri, servi del padrone: spesso hanno solo bisogno di orientamento e formazione. Già ci pensa il padrone a mettere in campo mille espedienti per spaccare il fronte della lotta. Si tratta, da parte di chi ha a cuore le sorti della lotta, di non facilitarlo.

Tre. A fronte dell’importanza degli operai in mobilitazione, non dobbiamo tralasciare l’importanza degli operai che non sono in mobilitazione (magari perché la loro azienda non è ancora oggetto di ristrutturazione e il padrone non ha annunciato licenziamenti e delocalizzazioni). Nello sviluppo di una battaglia sono importanti gli operai che rischiano l’espulsione dal processo produttivo, ma sono altrettanto importanti gli operai che sono ancora parte del processo produttivo. Questo perché, per gli operai, la “naturale” forma di pressione e di lotta è il blocco della produzione. Quindi, più che il coordinamento delle lotte, ha importanza il coordinamento degli operai e delle operaie che insieme possono far valere tutto il potenziale degli strumenti di lotta che mettono in campo (blocchi, scioperi, ecc.) fuori e dentro l’azienda che vuole licenziare o chiudere. Il ruolo della classe operaia nella costruzione della rivoluzione socialista è una questione oggettiva, la combattività della classe operaia è una caratteristica (gli operai possono esserlo o meno, possono esserlo di più o di meno, ma questo non incide sul ruolo sociale e politico della classe operaia) che si coltiva, “si allena” in funzione di quello che è l’aspetto principale: la concezione del mondo che guida e orienta gli operai.

Quattro. Anche se una lotta è sconfitta (perdiamo una battaglia) se l’intervento è stato condotto con la concezione di una guerra, alcune forze (gli operai più generosi, d’iniziativa, lungimiranti) non si disperdono e la loro mobilitazione, la loro intelligenza, la loro combattività va a sostenere e valorizzare la mobilitazione attorno a un’altra battaglia e più in generale sono da valorizzare nella conduzione della guerra. Questo è un aspetto molto importante che ha a che vedere con la comprensione che la lotta di classe non è “fabbrica per fabbrica”, ma è la lotta di una classe indipendentemente dall’azienda, dalla zona, dal contesto particolare. Spesso invece nelle mobilitazioni troviamo, come manifestazione della diseducazione a questo principio, le concezioni di chi pretende di far iniziare e finire il mondo dentro e attorno ai cancelli di una singola azienda. E’ una forma di economicismo che porta gli operai, e con risultati peggiori gli operai combattivi, a non “gettare uno sguardo lungimirante sulle cose del mondo”, ma a concentrarsi nel particolarismo (“il mondo inizia e finisce in quella e con quella mobilitazione particolare”).

Cinque. Ogni mobilitazione si sviluppa e cresce, diventa “autorevole” e ha margini di successo se e nella misura in cui chi la promuove ha un legame con il movimento comunista. Per quanto si possa criticare il vecchio movimento comunista perché non ha assolto i suoi compiti storici e i revisionisti ne hanno fatto una caricatura che lo ha portato alla sconfitta, esso ha sedimentato fra le masse popolari e soprattutto fra gli operai, gli elementi basilari (senso di appartenenza a una classe, riconoscimento dell’importanza e del ruolo della solidarietà, combattività, disponibilità alla mobilitazione, importanza decisiva dell’organizzazione) che pongono gli operai “di sinistra” a un livello superiore quanto a capacità di analisi e di organizzazione della lotta. Valorizzare quel legame, trasformarlo in funzione degli obiettivi politici, farne un punto di forza per la costruzione di autorità popolari, oggi è questo il compito dei comunisti.

Fra le mobilitazioni in cui stiamo sperimentando ciò che abbiamo imparato negli ultimi anni rientrano le lotte dell’Essentra di Salerno (vedi Resistenza n. 5/2014) e degli operai della Marcegaglia di Milano contro la chiusura dello stabilimento.

L’esperienza dell’Essentra si è praticamente conclusa con la firma da parte dei sindacati di regime di un accordo che alla fine ha convinto anche gli operai: mobilità, buonuscita e chiusura. Si tratta di uno di quegli esempi in cui concepire la lotta come una battaglia è essenziale: non saremo noi a dare dei “venduti” agli operai e soprattutto non saremo noi a mandare all’aria il lavoro che hanno fatto (e che abbiamo fatto con loro) per diventare punto di riferimento della mobilitazione di un intero territorio. Rimandiamo alla lettura dell’articolo citato (reperibile anche sul sito) per conoscere la ricca attività dei mesi scorsi, dall’occupazione dell’azienda all’assunzione di un ruolo fuori dall’azienda: si tratta oggi di valorizzare quanto quella mobilitazione ha sedimentato, si tratta di raccogliere quanto ha seminato, si tratta di riprendere il lavoro fra (e con) quegli operai che hanno imparato lì che la lotta di classe è una scienza, che va oltre la conquista di migliori condizioni, che si può perdere, appunto, una battaglia, ma l’obiettivo è vincere la guerra.

L’esperienza della Marcegaglia è invece in pieno svolgimento e l’esito della lotta è tutt’altro che definito. Si concentrano qui molte delle tendenze nocive che abbiamo indicato sopra (chi mette la costruzione del coordinamento delle lotte come aspetto decisivo al di sopra della vittoria della vertenza, chi lancia parole d’ordine radicali senza riuscire a parlare con gli operai del futuro dello stabilimento, chi considera e denuncia gli operai “incerti” come quinte colonne del padrone, chi punta a grandi mobilitazioni operaie senza curarsi di far riuscire un piccolo presidio fuori dai cancelli). Noi stiamo sperimentando la linea di raccogliere la parte sana della società attorno al gruppo combattivo di operai, in modo da mettere “tutti contro il padrone”, in modo da rispondere nella maniera più ampia e collettiva possibile all’annunciata chiusura dello stabilimento (con annessa “deportazione” degli operai in altro stabilimento a più di 100 km di distanza). Il fatto è, dunque, di mettere avanti e far valere che i posti di lavoro non sono di proprietà della Marcegaglia, che la loro difesa (e la creazione di nuovi) è questione che riguarda e compete alla collettività, che se il padrone non è disposto a riconoscerlo, sarà la collettività a fare fronte ai licenziamenti. Una parola d’ordine radicale? Sì, è per questo che puntiamo a curare tutte le forze disponibili a farsi carico di costruire l’alternativa. Un’alternativa che nasce dai cancelli dell’azienda, ma che per crescere, svilupparsi e affermarsi deve vivere nel resto della società, con il contributo e il sostegno del resto (la parte sana) della società.

Torneremo presto a parlare di quanto e come la sperimentazione della linea della Carovana del (nuovo)PCI arricchisce la pratica di lotta per costruire la rivoluzione socialista nel nostro paese. Torneremo a parlarne perché si tratta di un ambito determinante, strategico, della politica rivoluzionaria. Conquistare il cuore e la mente della classe operaia, sottrarli all’influenza della borghesia e del Vaticano, è il compito di chi oggi guarda al futuro con spirito di conquista. E quando gli operai guarderanno al futuro con spirito di conquista, vorrà dire che saranno più pronti per dirigere il paese. 

carc

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