Chiuse in casa a farci ammazzare? No, abbiamo un mondo da trasformare!

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A pochi giorni dall’8 marzo, la stampa e l’informazione di regime compongono un quadro allarmante. Assassinate o assassine, minorenni mangiauomini o vittime degli uomini, il ritratto delle donne è sempre a tinte fosche.
Ma questa è la Repubblica Pontificia, impegnata a veicolare terrore, allarmismo, paura, compromessi di cui le donne sono vittime o protagoniste, al massimo tollerando e consentendo schermaglie parlamentari sulle “quote rosa”. Il messaggio che deve passare è chiaro: che le donne stiano in casa a preoccuparsi di cosa cucinare, ci pensano le parlamentari a patteggiare sulle “quote rosa”. Per la società borghese, e lo vediamo bene nel nostro paese, le paladine dei diritti femminili sarebbero proprio le donne del governo Renzi- Berlusconi, ovvero le stesse che contribuiscono ogni giorno ad alimentare la cappa di doppia oppressione che rende sempre più difficile la vita per le donne delle masse popolari.
Ma quanti esempi possiamo fare per mandare al macero quintali di inchiostro e fiumi di programmi televisivi, a dimostrazione del fatto che la tendenza principale nel nostro paese non è quella di rinchiudersi “tra scopa e fornelli”, nell’attesa di essere assassinata, ferita, offesa dai propri famigliari? Quanti esempi possiamo fare di donne che lottano assieme alla propria famiglia, coinvolgendo mariti e figli a dimostrazione che il diritto al lavoro, alla casa, alla sanità sono il terreno dove l’emancipazione della donna muove passi concreti?
Sono tantissimi e di certo non sono riassumibili in poche righe. Anche l’8 marzo di quest’anno, che ha visto donne mobilitarsi nella maggior parte delle città italiane, viene da lontano. Chi vuole svilire questo percorso, parlerà di un “risveglio” delle donne, facendone una questione “culturale”, ma la verità è che questa partecipazione ha raccolto direttamente o indirettamente i frutti di una mobilitazione iniziata da tempo e sparsa capillarmente in tutto il paese, consapevole soprattutto che la conquista di una vita dignitosa parte dal diritto al lavoro. è nella mobilitazione per la sua difesa che migliaia di donne oggi dimostrano di non essere alle prese principalmente con “mariti violenti”, quanto con padroni e affaristi che eliminano le condizioni minime di sopravvivenza per la maggior parte delle famiglie del nostro paese.
Le donne, uno spaccato della lotta di classe del nostro paese: sono sempre più numerose le donne che scelgono di non disinteressarsi delle sorti del proprio paese. Conoscono bene il prezzo della loro mobilitazione e partecipazione alla lotta, che sia la difesa del posto di lavoro, l’ambiente sano, la sanità, l’istruzione. Per farlo sono costrette a rompere una cappa di piombo, pesante e stratificata nel tempo, che comporta “riassestamenti ed equilibri nuovi” nella famiglia e fuori. Ma proprio in virtù della doppia oppressione (di classe e di genere), le donne delle masse popolari imparano tramite l’esperienza pratica che se la strada della propria emancipazione richiede doppia fatica, doppio sforzo, doppio impegno, questa strada è strettamente connessa alla via che prenderà la trasformazione del nostro paese.
“Siamo qui nella speranza di non essere dimenticate. Per ricordare a tutti che le donne in questo Paese non sono soltanto escort e veline, per ribadire a tutti gli economisti, se ce ne fosse bisogno, che il reddito familiare italiano si regge anche sull’enorme sacrificio che ogni donna in silenzio dona al Pil di questo Paese e non perché impegnate in mirabili e soddisfacenti professioni, ma in lavori pesanti e spesso dimenticati”.
A dirlo è un’operaia della Tacconi Sud di Latina, che dal 2010 assieme alle sue colleghe, ha portato avanti una storica resistenza e lotta contro la chiusura dello stabilimento tessile in cui da 30 anni lavoravano. Dopo 550 giorni di occupazione della fabbrica l’hanno spuntata: la fabbrica è rimasta aperta, un nuovo acquirente è subentrato, la produzione è stata riconvertita (commesse per Trenitalia).
Una lavoratrice che dà voce a tutte le altre: solo dal 2010 al 2012, mentre i media nazionali sono concentrati sullo scandalo Ruby e le scappatelle di Berlusconi, centinaia di licenziamenti vanno a colpire aziende e posti di lavoro caratterizzati in maniera massiccia dalla presenza di donne. Dalle lavoratrici della catena Autogrill di Roma, Milano, Bologna, alle operaie dell’Omsa di Faenza e Pomezia, all’azienda di motori elettrici Ma-Vib di Inzago (MI), che procede alla cassa integrazione ed esuberi solo per le donne, ogni posto di lavoro è stato difeso da grandi mobilitazioni. A maggio del 2011 viene reso noto il rapporto Istat sui dati dei licenziamenti per gravidanza relativi al 2010, secondo cui “ben 800.000 donne, con l’arrivo di un figlio, sono state costrette a lasciare il lavoro, perché licenziate o messe nelle condizioni di doversi dimettere”. E dal 2012 ad oggi, dalle lavoratrici del San Raffaele, alle operaie della Fiat, alle mogli di Pomigliano, alle vedove di Equitalia, fino alle attiviste No Tav e No Muos, alle occupanti dei movimenti di lotta per la casa, i fatti valgono più di mille parole di opinionisti e intellettuali da salotto televisivo e stipendiati da Renzi e dal Vaticano.

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