Lettera alla Redazione (stralci)
Durante gli anni ‘50-‘60 il lavoro all’interno dei cantieri del porto di Napoli si svolgeva in condizioni disumane, senza garanzie, senza contributi, senza coperture sanitarie, con cicli di lavoro senza orari. I lavoratori del mio cantiere sono stati i primi, all’interno del porto di Napoli, a tutelarsi attraverso il sindacato.
Allora il sindacato era debole e il padrone contrastava ogni tentativo dei lavoratori di portarlo all’interno delle fabbriche, colpendo con la repressione tutti i lavoratori che alzavano la testa. Gli operai resistevano a tutto questo attuando una serie di battaglie che alla fine costrinse la Società a confrontarsi e ad accettare l’entrata del sindacato in fabbrica. All’inizio degli anni ‘70 si passa ad un livello di scontro superiore grazie all’organizzazione dei lavoratori e si susseguono numerose iniziative di lotta e di solidarietà che iniziano a contrastare le misure di sangue imposte dai padroni nei cantieri del porto, raggiungendo così le prime conquiste. Quando entra in società un nuovo azionista e nasce la Tecnaval, la fabbrica aumenta la sua produttività da un lato ma dall’altro licenzia gli operai con ruoli sindacali e punti di riferimento nella lotta. Solo la risposta unita dei lavoratori che entrano immediatamente in sciopero costringe il padrone a ritirare tutti i licenziamenti. Un primo momento di forte crisi è stato quando, nonostante la fabbrica avesse moltissimo lavoro, i padroni dell’azienda non pagano per sei mesi lo stipendio ai lavoratori, che in risposta occupano la fabbrica fino a che nel luglio del 1987 il Tribunale dichiara fallimento. Neppure di fronte al fallimento gli operai si arrendono e infatti proprio in quel periodo prende corpo per la prima volta l’idea di costituirsi in cooperativa e autogestire il cantiere. Vengono fatti tutti i passaggi per la nascita della cooperativa e diventa sempre più verosimile la possibilità di acquistare il cantiere alla vendita all’asta… la quale però viene vinta da una società di imprenditori. Gli operai nonostante tutto non si scoraggiano e rimangono fermi in occupazione fino a farsi assumere tutti dai nuovi padroni.
Nel 1990 entra un nuovo socio, tale Arienti, che attraverso una gestione speculativa delle commesse del cantiere fa entrare in crisi l’azienda e blocca il pagamento degli stipendi agli operai. è così che nel 1992 il cantiere viene nuovamente occupato e inizia la battaglia lunga due anni che vedrà nascere la Cooperativa dei Cantieri Megaride.
I lavoratori erano forti dell’esperienza di occupazione precedente e si organizzano subito con turnazioni e vigilanza sul cantiere, per difendere i mezzi di produzione e per respingere ogni provocazione da parte dei vecchi padroni o di nuovi avvoltoi: il curatore fallimentare tenterà più e più volte non solo di entrare in fabbrica ma di manovrare per cacciare gli operai ed avere così strada facile per prendersi i macchinari. Per i lavoratori non furono mesi semplici: senza soldi per portare avanti le famiglie e senza certezze per il futuro se non la loro determinazione a non mollare. Si organizzarono per i pasti gestendo la mensa aziendale e si organizzarono per recuperare soldi per mangiare raccogliendo ferro vecchio e cartoni, portarono le loro famiglie all’interno dei cantieri e le resero partecipi della battaglia: Natale e Capodanno si passavano tutti insieme in mensa! Si soffriva ma si teneva duro grazie all’unità e alla solidarietà che da subito arrivò dall’esterno: dal movimento dei disoccupati, degli occupanti casa, degli studenti e dei compagni. I lavoratori non si chiusero dentro isolandosi dal resto della città, al contrario acquisirono forza facendo entrare la città nel cantiere! Si organizzarono iniziative di autofinanziamento per la cassa di resistenza dei lavoratori, che così poterono sopravvivere durante la lotta, assieme al resto del movimento (cene sociali e concerti); si fecero iniziative di scambio di esperienze con altri lavoratori portuali in lotta (vennero i cantieristi di Liverpool tramite i compagni); si realizzarono festival comunisti, giornate di dibattiti e autofinanziamento in mensa!
E in tutto questo ovviamente si susseguivano manifestazioni nel porto e in città, dove gli operai scendevano in strada con disoccupati e studenti, memorabile fu il corteo per il lavoro con alla testa i macchinari su ruota dei cantieri che paralizzò via Marina!
Non mancarono denunce e momenti di forte tensione in cui la polizia attaccò i lavoratori, ma restarono uniti forti di essere nel giusto e di non avere altra scelta per riprendersi il lavoro.
è in questo modo che obbligarono le istituzioni locali ad aprire bene le orecchie, iniziarono a valutare una serie di progetti di autogestione del cantiere e costrinsero l’Autorità portuale (ente che gestisce il demanio del porto e che nei fatti è un’istituzione politica in cui intervengono Ministero, Comune, Provincia e Regione) a riconoscere il diritto di prelazione dei lavoratori sul cantiere (cosa che ovviamente il curatore fallimentare non avrebbe mai sostenuto al fine di favorire ancora una volta i privati), passo necessario a cacciare definitivamente il padrone e ad evitare che ne arrivasse un altro a speculare sul fallimento.
Quindi si mise mano alle varie procedure per la costituzione della cooperativa. Gli operai versarono la loro quota per diventare soci della cooperativa prendendo i soldi della mobilità, ma una parte del denaro non fu investita e venne usata per la sopravvivenza dei lavoratori e delle loro famiglie. Ovviamente questo passaggio non era previsto da leggi e regole, ma era necessario per vivere e quindi legittimo. D’altronde per la legge dello Stato non andava fatta neppure la lotta (che poi ha portato alla nascita della cooperativa), i blocchi e la stessa occupazione erano illegali… ma sono state forzature che hanno in definitiva consentito la vittoria dei lavoratori.
La cooperativa ha incominciato a partecipare alle gare di appalto per la commesse e ha incominciato a vincerne alcune, perché senza i profitti del padrone si abbattono i costi. Ma nel mercato capitalista c’è sempre un privato che ha i costi ancora più bassi perché ricorre al lavoro nero e in generale al non rispetto dei diritti dei lavoratori. Questi vent’anni che hanno seguito la nascita della cooperativa non sono stati tutti “rose e fiori” perché si deve combattere con le dinamiche speculative che avvantaggiano i privati con a disposizione non solo grandi capitali ma anche il favore di istituzioni, leggi e banche. Pur avendo costituito un’associazione di lavoratori che gestisce la produzione, siamo sempre dentro il sistema capitalista. Ad esempio pur avendo commesse di lavoro una delle difficoltà è riuscire ad accedere al credito, che le banche ostacolano insieme ai governi che si susseguono (nonostante oggi le banche hanno “in ostaggio” i nostri stipendi!), che impongono sempre più regole volte a favorire i grandi capitalisti sul mercato e opere di speculazione finanziaria che uccidono la produzione e a maggior ragione piccole realtà come la nostra. Siamo dovuti ricorrere alla cassa integrazione e per mesi non abbiamo visto soldi, campiamo perché poi gli stipendi ci arrivano tutti insieme al pagamento dei lavori, che avviene anche ad anni di distanza. Da quando la crisi è precipitata i problemi si sono moltiplicati e aggravati. Le commesse di lavoro vanno concentrandosi sempre di più nelle mani dei grandi cantieri privati, perché loro hanno agganci con le istituzioni e i governi, perché ricorrono al lavoro nero in dose sempre più massiccia e la legge possono non rispettarla. Un tempo un lavoro importante nell’economia della cooperativa era la costruzione di pescherecci su mandato di privati finanziati per buona parte dallo Stato. Successivamente a causa del super sfruttamento del mare e del conseguente azzeramento della fauna ittica (pur di fare profitti hanno distrutto l’eco-sistema marino, senza preoccuparsi dei danni che provocavano a lavoratori e abitanti del nostro territorio), ora lo Stato paga per distruggere i pescherecci drenando ancora una volta fondi pubblici ai privati, per poi probabilmente tra 10 anni tornare a pagare per ricostruirli ma non Italia, nei nuovi mercati di espansione dei privati dove il costo del lavoro è quello che forse il nostro paese aveva negli anni ‘50, quando non c’erano i diritti! Oggi la nostra cooperativa rischia di chiudere. Anche se prendiamo ora la commessa, la banca non anticiperà i soldi sufficienti per materie prime e manodopera, così staremo altri 2 anni senza stipendi… ed è chiaramente una situazione insostenibile per le nostre famiglie!
Proprio alla luce di questa esperienza dico che la cooperativa è stata una conquista, un passo in avanti per la difesa del lavoro, sicuramente la nostra condizione è migliore di quella di tanti altri lavoratori ma non ha significato la risoluzione di tutti problemi.
La concezione che ha guidato la lotta della Megaride ha permesso di ottenere una vittoria, ma è diventata inadeguata per affrontare il futuro. è stato un errore pensare che la forma cooperativa potesse creare un paradiso dei lavoratori all’interno del sistema capitalista, compatibile con la società borghese. Sbaglio che ha aperto ad ulteriori errori: chiudersi nella cooperativa senza più interagire col movimento di classe esterno al cantiere, non mobilitare più gli operai a partecipare all’elaborazione delle soluzioni ai loro problemi- non solo della cooperativa in sé, ma della società intera che continuava a remargli contro e ancora di più con l’avanzare della crisi. In definitiva non legare la lotta dei cantieri alla lotta per trasformare il paese, per fare dell’Italia un nuovo paese socialista, ha determinato un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli operai della Megaride stessa. Gli stessi operai che avevano cacciato i padroni sono arretrati: prima si sono illusi di diventare essi stessi “imprenditori” che potevano concorrere con altri capitalisti sul mercato e poi si sono distaccati nei fatti dal resto della lotta di classe, fino a diventare passivi di fronte al procedere della crisi, arrivando a ragionare come un’azienda qualsiasi… che però non sono: non godendo dei privilegi e dei favori che la classe borghese ha in questo sistema!
Oggi noi lavoratori della cooperativa dobbiamo riprendere la lotta insieme al resto dei lavoratori del porto, fare bilancio della nostra esperienza e comprendere meglio la situazione complessiva in cui siamo immersi, ed è un compito che voglio assolvere. è per questo che insieme ad altri abbiamo iniziato a riorganizzarci con un comitato dei lavoratori del porto di Napoli, per rilanciare la lotta e per ragionare delle soluzioni ai problemi e di come metterle in campo. Sappiamo che dobbiamo unirci al resto dei lavoratori di altre aziende in crisi del territorio, coordinarci dentro e fuori dal porto, come abbiamo fatto un tempo ma compiendo oggi un passo avanti. In definitiva l’esperienza della Cooperativa Megaride mostra concretamente che se non cambiamo il paese, i problemi dei lavoratori non trovano soluzioni stabili ma precarie e temporanee. I lavoratori hanno dimostrato che sono capaci di dirigere la produzione meglio di un padrone, ma ora abbiamo bisogno che i lavoratori dirigano l’intera società, abbiamo bisogno di un altro sistema economico e di un’altra società, non solo per noi ma per i nostri figli. è una cosa che dobbiamo imparare a fare, il socialismo non si improvvisa e non accade dalla notte alla mattina, è chiaro e la storia lo insegna. Ma così come, prima della nascita della Cooperativa Megaride, i lavoratori del cantiere hanno dovuto condurre molte lotte, sperimentarsi, mettersi in gioco, ora noi dobbiamo osare guardare oltre e sperimentarci, facendo tesoro degli insegnamenti delle lotte del passato ma guardando al futuro e puntando a un obiettivo più alto. Non abbiamo certezze ma non possiamo rinunciare solo perché è difficile! Altrimenti cosa racconteremo ai nostri figli? Quale futuro consegneremo loro?
Mario DB
Segretario della Sezione Napoli-Ovest – del P.CARC e socio della Cooperativa Megaride