L’8 febbraio scorso, per iniziativa di Clochard alla Riscossa, Laboratorio per i Beni Comuni (un’organizzazione di massa promossa dalla sezione di Milano) e Unione Inquilini, è stato liberato a Sesto San Giovanni (MI) il palazzo (di proprietà privata) che è stato per anni sede dell’Impregilo e che versava, anche in questo caso da anni, in stato di abbandono e degrado. L’obiettivo è destinarlo a uso pubblico, sociale e collettivo, in primis per fare fronte all’emergenza abitativa, costruendo un residence “sociale” per le famiglie sfrattate e che vivono per strada.
Fra le tante analisi che possono prendere spunto da questa iniziativa ci soffermiamo in questo articolo sulle prospettive che si aprono sulla lotta per costruire Amministrazioni locali di emergenza, cioè amministrazioni locali che spinte dalla mobilitazione delle organizzazioni operaie e popolari operano per affermare gli interessi collettivi contro la cappa di interessi privati, privatistici, le speculazioni.
Particolarità e innovazioni. Aldo dice 26×1 deve diventare un residence sociale, una mobilitazione collettiva per riappropriarsi collettivamente del diritto alla casa (e delle case) che supera le dimensione “particolare” (riappropriazioni caso per caso, di singoli nuclei famigliari sparsi sul territorio). E deve diventare un centro di promozione della lotta per un lavoro utile e dignitoso per tutti (ad esempio un centro di organizzazione e promozione su vasta scala degli scioperi alla rovescia e di nuove forme di cooperazione autogestite). In entrambi i casi si tratta di “innovazioni” che non cadono da cielo, ma dall’elaborazione dell’esperienza del vasto movimento di lotta per la casa.
Tanto per rendere l’idea, a seguito di un’assemblea che si è svolta il 17 febbraio scorso, i promotori della costruzione di Aldo dice 26×1 hanno emesso un comunicato in cui, fra l’altro, si legge: “L’opera di denuncia delle mancanze colpevoli delle amministrazioni locali però non può bastare per invertire una tendenza per cui, a fronte dell’aumento degli sfratti, neppure le strutture di prima accoglienza esistenti bastano più. Occorre, e questa è l’intenzione assunta dai partecipanti all’assemblea, che il movimento per il diritto alla casa si assuma la responsabilità di ricoprire un ruolo nuovo: diventare una sorta di “autorità popolare” che provvede ad assegnare “dal basso” quegli alloggi già oggi assegnabili e che la “burocrazia” e l’affarismo mantengono chiusi e sfitti.
Quando affermiamo la necessità di un piano casa straordinario intendiamo anche l’apertura di specifiche linee di credito attraverso cui le amministrazioni locali possono reperire i fondi necessari per le ristrutturazioni e le assegnazioni. Sappiamo che a fronte di questa ovvia necessità, troveremo di fronte il muro del “non ci sono i soldi”… in questo senso e per questo motivo l’assemblea si è proposta di avviare uno specifico percorso per studiare e sperimentare possibilità di autorecupero/autocostruzione (aspetto che rende concreto anche il fatto che NON E’ VERO CHE NON C’E’ LAVORO, ma la creazione di posti di lavoro, anch’essa, risponde a una volontà politica)”.
Sesto San Giovanni è un comune limitrofo a quello di Milano, diventato famoso per “il sistema Sesto” (il giro di clientele, mazzette, corruzione, devastazione ambientale e cementificazione del territorio al cui vertice sedeva Penati, già sindaco PD di Sesto e poi Presidente della Provincia di Milano), nomea che ha sostituito la definizione “Stalingrado d’Italia” in virtù della concentrazione operaia e del radicamento del vecchio movimento comunista. Come accade nelle zone in cui i revisionisti hanno avuto e consolidato un potere esclusivo a capo delle istituzioni locali, quella che era la tradizione di lotta e organizzazione operaia e popolare è diventata l’anticamera per affarismo e speculazioni. Oggi la città è in preda agli effetti di decenni di saccheggio che si combinano con una forte immigrazione, con una vertiginosa deindustrializzazione e con il progressivo incedere degli effetti della crisi. Di fronte a tutto ciò la Giunta comunale (a guida PD, sostenuta da PRC, SEL, ecc.) sbanda fra la necessità (e volontà) di rimanere fedele agli impegni che da consolidata tradizione sono dettati dai poteri forti e le contraddizioni che l’amministrazione di un simile contesto apre e sviluppa. Non c’è da sorprendersi dunque se la posizione ufficiale del Sindaco e della Giunta riguardo la liberazione del palazzo Ex Impregilo è di netta chiusura, di condanna, di accorata richiesta al ripristino “della legalità” (!!!). Nelle crepe della “solida maggioranza” che lavora alacremente per raccogliere le briciole dell’Expo 2015, per condurre in porto una grande speculazione (ma in proprio) come la “Città della Salute” (una colata di milioni di metri cubi di cemento nelle aree ex industriali della Falk), si insinua la liberazione di un palazzo enorme, privato, destinato anch’esso a una qualche speculazione, riaperto per fare fronte agli effetti della crisi, per promuovere partecipazione, attivismo e protagonismo del tessuto politico e sociale della città e della zona metropolitana di Milano.
Le operazioni condotte per evitare uno sgombero immediato da parte della forza pubblica al momento sembrano aver funzionato (certo che non ci sono certezze…): alcune forze dell’opposizione alla giunta (M5S, lista civica Giovani Sestesi) e persino della maggioranza (SEL) si sono schierate apertamente contro l’intervento della polizia per sgomberare. Da parte dei promotori della riappropriazione si sono susseguiti gli appelli a cercare un dialogo per ottenere essenzialmente tre cose:
– una presa di posizione della Giunta (e non solo delle singole forze politiche) contro uno sgombero coatto e forzoso;
– un tavolo istituzionale che metta a sedere e a discutere le amministrazioni dei comuni limitrofi (in particolare Milano, ma non solo);
– un impegno, da parte delle amministrazioni locali, a premere sulla Regione Lombardia per arrivare o a un esproprio dell’immobile o a un comodato d’uso gratuito.
Si tratta di soluzioni compatibili con quelle leggi vigenti, ma dimenticate, se non apertamente violate, da amministratori locali troppo impegnati a fare accordi palesi e occulti con speculatori e finanzieri.
La regolarizzazione del residence sociale è una questione di sostanza, non solo di forma. Ovviamente già si levano da più parti i cori di quanti sostengono che “regolarizzare non è possibile”, “la giunta di Sesto non lo farà mai”… ovviamente ognuno ha le sue ragioni per essere convinto di quello che dice. Ma i fatti hanno la testa dura e l’aspetto principale non sta nel conquistare “il benestare” delle istituzioni, ma avanzare, passo dopo passo, nel far prevalere ciò che è legittimo per le masse popolari (affermare i loro interessi) su ciò che è “legale”.
Non serve cioè un patrocinio del Comune per consolidare un’esperienza di autorganizzazione e coordinamento, serve prima di tutto che chi la promuove sia deciso (e abbia chiaro) che il contesto in cui opera è politico e in quanto tale occorre che le responsabilità che si assume (che lo voglia o meno) siano politiche: agire da (e diventare) autorità alternativa e antagonista alle emanazioni locali dei vertici della Repubblica Pontificia.
Più alto è il grado di autonomia e indipendenza che chi promuove questo percorso sarà capace di assumere, maggiore è il ruolo che assume nei confronti delle istituzioni locali che saranno, lo sono già e via via lo saranno di più, schiacciate fra gli ossequi ai vincoli, alle leggi e alle prassi del teatrino della politica e le responsabilità che gli vengono poste di fronte da un centro (politico) di mobilitazione e organizzazione delle masse popolari.
Occorre essere chiari sul fatto che questo scenario è possibile nella misura in cui si affronta e si risolve la contraddizione (normale, “naturale”, fisiologica) fra intraprendere il cammino per diventare un centro propulsore dell’iniziativa popolare (una “istituzione” del nuovo potere) e intraprendere, invece, il cammino per diventare un tassello della rete di assistenza sociale che fa da paracadute (più o meno efficacemente) alla miseria e al degrado cui le famiglie delle masse popolari sono spinte dalla crisi.
Il movimento popolare può sostituirsi alle autorità della Repubblica Pontificia solo in un percorso di trasformazione della società in cui al centro c’è il cambiamento delle relazioni sociali, politiche ed economiche vigenti e di cui le organizzazioni operaie e popolari sono le protagoniste.
Il movimento popolare può e deve operare nell’ottica di costruire la rete, capillare e articolata, del nuovo potere, della nuova governabilità del paese, dei territori, delle città, partendo dal mettere in pratica quelle misure urgenti e necessarie a fare fronte agli effetti della crisi. Questa è la dialettica fra la mobilitazione per costruire la nuova governabilità ad opera delle organizzazioni operaie e popolari e la mobilitazione per rendere ingovernabile il paese ai vertici della Repubblica Pontificia. La costruzione di Amministrazioni locali di emergenza rientra in questo solco, Aldo dice 26×1 può e deve esserne uno strumento.