Electrolux: il costo del lavoro lo pagano i lavoratori?

La Electrolux è diventata la capofila della crociata padronale contro gli operai, Ernesto Ferrario, amministratore delegato di Electrolux Italia, è sceso in campo a fianco di Marchionne. Quattro stabilimenti, a Porcia (Pordenone), a Forlì, a Susegana (Treviso) e a Solaro (Milano), 6.500 operai più quelli dell’indotto, tutti di fronte al ricatto come in FIAT. Chiusura dello stabilimento di Porcia, licenziamento di altri 850 operai, diminuzione per tutti del salario (meno tre euro all’ora, fanno 130 euro in meno al mese, quindi un salario di poco più di 800 euro), blocco degli scatti di anzianità, dimezzamento di pause e permessi sindacali, congelamento degli aumenti del CCNL, aumento dei carichi di lavoro (meno linee di montaggio che producono più pezzi): o così o la produzione si sposta in Polonia. Il costo del lavoro va ridotto per far fronte alla concorrenza dei marchi asiatici come LG e Samsung, parola di Electrolux.

Il costo del lavoro e i diritti dei lavoratori come ostacolo da rimuovere per rilanciare la crescita sta diventando un’arma sempre più spesso usata contro i lavoratori, in parallelo con l’eliminazione delle regole di protezione della salute e della sicurezza sul luogo di lavoro e antinquinamento (di protezione della popolazione e del territorio) e con i contributi pubblici e le agevolazioni fiscali ai capitalisti. Ci concentriamo sul costo del lavoro, che è la questione principale, perché isola la classe operaia e la divide (quindi per i padroni, le loro autorità e i sindacalisti complici è più facile da imporre).

“L’idea che una qualche riduzione del salario e dei diritti sul posto di lavoro o un qualche alleggerimento fiscale e contributo pubblico sia una soluzione, è da miopi, è non vedere oltre il proprio naso. È la strada della morte lenta, serve solo a tirare in lungo e ad isolare gli operai perché siano liquidati dai padroni fabbrica per fabbrica, un caso alla volta, un po’ per volta, meglio ancora se mettendo una fabbrica contro un’altra.

Non è il costo del lavoro che induce i capitalisti a chiudere, ridimensionare o delocalizzare le aziende: è la crisi generale del capitalismo. Non è il costo del lavoro il fattore principale che determina la convenienza per un capitalista di mantenere aperta un’azienda in un paese piuttosto che investire il suo capitale nel mercato finanziario o trasferire l’azienda in altri paesi. Non è il costo del lavoro il fattore principale che determina la sua convenienza di investire in un paese piuttosto che in un altro. Il costo del lavoro è solo uno dei fattori e neanche il principale. Ancora più che dal costo del lavoro, la convenienza del capitalista dipende dalle prospettive del mercato finanziario, dal livello generale dei prezzi, dalle rendite (affitti di terreni e immobili, interessi, vitalizi e appannaggi, rendite finanziarie, ecc.) e dalle tasse, dal servizio del debito pubblico, dagli interessi bancari, dal corso dei cambi monetari, dai regolamenti vigenti. A sua volta il costo del lavoro non è più determinato principalmente dalla quantità di beni e servizi di cui dispone il singolo operaio: sul salario di ogni operaio gravano gli affitti, le rendite, gli interessi, i profitti, le tasse, le tariffe e il livello generale dei prezzi su cui i monopoli, i brevetti, la pubblicità, le spese generali, il cambio delle monete e altre voci incidono più che il tempo di lavoro.

Gli operai che accettano riduzioni di salario, aumenti di orario e cancellazione di diritti o che ottengono contributi pubblici e sgravi fiscali per il padrone della loro azienda, al massimo guadagnano un po’ di tempo. Non è la competitività dell’azienda impiantata in Italia rispetto ad altri paesi che salva gli operai del nostro paese: prima o poi qualche azienda di un altro paese prenderà a sua volta il sopravvento.

D’altra parte non sono solo il salario e i diritti sul posto di lavoro che fanno la vita degli operai: l’inquinamento, la devastazione del territorio, il dissesto idrogeologico, la mancanza di prevenzione dei disastri naturali, le guerre, la decadenza del servizio sanitario, della scuola, dei trasporti, dei servizi per anziani e bambini e degli altri servizi pubblici, la riduzione dei diritti democratici e civili, l’abbrutimento e l’insicurezza generali incidono sulla vita degli operai quanto il salario e i diritti sul posto di lavoro.

Da tempo la fonte principale della ricchezza non è più il tempo di lavoro, ma l’applicazione della scienza e della tecnica alla produzione. Quindi il furto del tempo di lavoro degli operai, la riduzione di salario e l’aumento del tempo di lavoro (la soppressione delle pause di cui Marchionne si è fatto vanto), non è più e non può più essere la legge della produzione. Ostinarsi in un sistema di relazioni sociali che si basa ancora su quella legge, porta a scontrarsi ogni giorno con problemi più gravi” (dal Comunicato (n)PCI n. 3, 21.01.14).

Qualche esempio per chiarire il concetto.

Dove gli affitti delle case o gli interessi sui mutui (la rendita fondiaria) sono più alti, a un costo del lavoro più alto non corrisponde un maggiore quantità di beni e servizi a disposizione dell’operaio (cioè al salario).

Una rendita immobiliare (su terreno, costruzioni e altri immobili) o finanziaria più alta che subiscono i produttori dei beni e dei servizi che entrano nel consumo dell’operaio, si traduce in prezzi più alti che l’operaio paga per essi e quindi (per una via o l’altra, prima o poi) in un costo del lavoro più alto per il capitalista che lo impiega, senza che l’operaio ne abbia alcun vantaggio.

Lo stesso vale per il carico fiscale con cui lo Stato paga il suo debito pubblico, per le rendite (ad esempio la pensione di 91.000€ al mese che l’INPS paga a Giuliano Amato), i vitalizi e le commissioni per i vari profittatori di regime, per le spese per mantenere il Vaticano e la Chiesa, per le spese per il riarmo e le spedizioni militari, ecc. Questo carico fiscale grava direttamente sull’operaio (quindi sul costo del lavoro del capitalista che lo impiega), grava indirettamente sul costo del lavoro perché le imposte e tasse pagate dai produttori dei beni e dei servizi che entrano nel consumo dell’operaio si traducono in prezzi più alti che l’operaio paga per essi e quindi (per una via o l’altra, prima o poi) in un costo del lavoro più alto per il capitalista che lo impiega, senza che l’operaio ne abbia alcun vantaggio.

Rendite e carichi fiscali pagati direttamente dalle aziende e prezzi dei beni e servizi che le aziende acquistano (su cui incidono rendite, imposte e tasse pagate dai rispettivi produttori) incidono sulla convenienza del capitalista a investire il suo capitale in una data azienda piuttosto che altrove o nel mercato finanziario.

Lo stesso vale per regolamenti e leggi che costringono il capitalista a spese aggiuntive e a spese generali che non sono mezzi di produzione, materie prime o forza lavoro direttamente impiegate nella produzione delle merci che l’azienda vende.

Quindi? “Solo con la lotta per instaurare il socialismo è possibile far fronte alla crisi del capitalismo. Mobilitarsi e organizzarsi per costituire il Governo di Blocco Popolare è un passo su questa strada. Tra tutte le classi sfruttate e oppresse la classe operaia (i lavoratori delle imprese capitaliste) sono più degli altri in grado di porsi alla testa della mobilitazione e organizzazione delle masse popolari per cambiare il corso delle cose.

Gli operai avanzati devono formare in ogni azienda organismi operai che si occupino sistematicamente della salvaguardia delle fabbriche prevenendo con lungimiranza le manovre padronali per ridurle o delocalizzarle. Ma proprio per questo, oltre che occuparsi della loro fabbrica, devono contemporaneamente proiettare la loro azione sulle masse popolari della zona circostante per mobilitarle e organizzarle a formare organizzazioni popolari e stabilire collegamenti con le organizzazioni operaie delle altre aziende per arrivare a creare un loro governo d’emergenza” (dal Comunicato (n)PCI n. 3, 21.01.14).

Landini scrive a Letta di intervenire perché “la vertenza Electrolux travalica il normale confronto tra le parti”, la CGIL gli fa eco che “questa vertenza non è confinabile all’interno di una normale vertenza sindacale”. Vero, non è un problema sindacale, è una questione politica e non solo l’Electrolux, ma la sorte di tutto l’apparato produttivo del paese. Però non si tratta di chiedere al governo Letta-Napolitano di fare qualcosa e cambiare strada, ma di cambiare proprio governo!

carc

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