Congresso del PRC: cosa resta?

Su Resistenza n. 10-2013 scrivevamo che nel PRC, nelle sue istanze, nelle pieghe del dibattito congressuale in maniera trasversale (nel senso che non si collocano in maniera evidente e netta in uno dei tre documenti congressuali, ma li attraversano e si insinuano in un modo o nell’altro in tutti e tre), si delineano tre orientamenti:
– il primo è quello dei politicanti, degli affaristi, dei gruppi di potere, le persone e i gruppi in cui prevale questo orientamento sono irresistibilmente legati al PD, al Centro-sinistra, alla destra moderata (o peggio);
– il secondo è quello dei compagni che si propongono solo di formare, che aspirano a formare, movimenti attorno a piattaforme rivendicative, ad animare proteste, manifestazioni e referendum;
– il terzo è quello dei compagni che in qualche modo sono convinti che occorre un partito comunista.
Secondo voi, alla luce dei risultati del Congresso, della “linea” che ne deriva, delle mosse (come l’alleanza con il PD in Sardegna…) in corso e all’orizzonte, quali di questi orientamenti ha vinto il Congresso?

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Il IX Congresso del PRC (Perugia, 6 – 8 dicembre 2013) si è concluso con una profonda spaccatura interna che ha portato all’elezione, da parte del Comitato Politico Nazionale (11-12 gennaio 2104), di un segretario e di una segreteria di minoranza. Ferrero è stato riconfermato con appena 67 voti su 153 (54 astenuti, 7 schede bianche e 19 voti ad Arianna Ussi, candidata dell’area che aveva presentato al Congresso il documento “Per la ricostruzione di un partito comunista”). Il Congresso non solo non ha risolto i problemi di linea e di orientamento, ma ha rafforzato gli scontri tra le varie correnti e aumentato la confusione tra militanti e simpatizzanti. L’esito del Congresso del PRC conferma il marasma che attanaglia i partiti eredi dei revisionisti, quelli che avevano portato alla dissoluzione del vecchio PCI, e gli esponenti e gli intellettuali anticomunisti della sinistra borghese che a questi si sono aggregati.

Il fallimento di questi partiti non è dovuto all’opportunismo, al tradimento o alla malafede di questo o quel dirigente, ma alla linea politica che hanno perseguito in questi decenni. La linea del PRC aveva al centro l’obiettivo di fare da sponda politica ai lavoratori e alle masse popolari nelle istituzioni della Repubblica Pontificia, promuovendo rivendicazioni, denunce e proteste, e a questo fine usare (ma possiamo dire anche: per questa via mantenere) il potere che aveva conservato dopo la fine del primo Partito Comunista Italiano e che la borghesia gli concedeva grazie al prestigio che ancora aveva tra i lavoratori e le masse popolari, nel Parlamento e nelle istituzioni della Repubblica Pontificia (nel governo, nelle amministrazioni e negli enti locali, nelle aziende pubbliche, ecc.).

Fare l’ala sinistra dello schieramento del Centro sinistra è stato possibile, oggettivamente, fino all’inizio della fase terminale della crisi generale (2007: anche se il declino politico dei partiti della sinistra borghese è iniziato prima), cioè fino a quando la borghesia non ha dovuto procedere, senza se e senza ma, ad eliminare rapidamente le residue conquiste e i diritti delle masse popolari. A partire da quel momento, la borghesia ha lasciato da parte tutte quelle pratiche di mediazione che avevano caratterizzato i decenni precedenti e ha avviato il licenziamento dei mediatori (i riformisti senza riforme non vanno lontano e non servono a nessuno, né alle masse né ai borghesi!).

Parte da qui lo sbandamento, la frammentazione e il marasma che ha caratterizzato i partiti e organismi che facevano parte di quella corrente politica: partiti e organismi che erano esistiti e si erano sviluppati con la concezione e la pratica della sinistra borghese, che dalla borghesia dipendevano, che non avevano autonomia, non “bastavano a se stessi”, cioè non si fondavano sul marxismo, ovvero sulla scienza che “contiene in sé tutti gli elementi fondamentali, non solo per costruire una totale concezione del mondo, una totale filosofia, ma per verificare una totale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una integrale, totale civiltà” (Antonio Gramsci, Quaderno 11, Nota 27, in Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 2001, p. 1434).

La definizione del PRC (ma anche del PdCI) come partito della sinistra borghese irrita tanti compagni e compagne che vi militano, ma questa è la verità se mettiamo le cose con i piedi per terra e non ci fermiamo alle definizioni, ai simboli e alle dichiarazioni. Noi chiediamo a questi compagni e fra loro in particolare a chi vuole andare a fondo e imparare dall’esperienza, di spiegare in cosa e come il PRC (ma anche il PdCI) si è distinto e si distingue concretamente dai partiti socialisti e riformisti.

La dispersione del PRC in diversi partiti e frammenti, i personalismi, l’avvilupparsi in sterili polemiche, la politica di fallimentari alleanze elettorali, le lamentele sull’essere inadeguati e sulla complessità della situazione, i proclami sulla forza della borghesia e sull’arretratezza delle masse popolari, sono il frutto della mancanza di un’analisi scientifica (giusta) della fase (natura della crisi in corso e soluzioni possibili) e della mancanza di una linea strategica e tattica per farvi fronte, elementi fondamentali perché un’organizzazione possa meritare il nome di partito comunista.

Nei documenti e nel dibattito congressuale emerge che gli esponenti di tutte le correnti del PRC non hanno una benché minima comprensione dell’origine e della natura della crisi in corso: si discute, a mo’ di mantra, dei suoi effetti, dei sommovimenti e disastri che essa provoca, di come rovesciare la crisi su chi l’ha prodotta, di “sviluppare il conflitto”, ma nulla si dice sulla sua origine e natura. Il non essere capaci o non voler capire che questa è una crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale impedisce di comprendere la direzione che la società sta prendendo e quali sono le uniche prospettive concrete possibili: la guerra (distruzione del capitale) o la rivoluzione (eliminazione del capitalismo). Il gruppo dirigente del PRC non comprende o non vuole comprendere che dalla crisi generale del sistema capitalista e dal corso disastroso che essa determina usciremo solo instaurando il socialismo.

Il gruppo dirigente del PRC con i suoi economisti e intellettuali di riferimento pensano, e sostanzialmente propongono, la linea che è possibile uscire dalla crisi riformando il capitalismo, “imponendo” cioè alla borghesia (con la contrattazione o la partecipazione ad un futuro governo di Centro sinistra come sostiene la corrente di destra; con proteste e lotte dure e coordinate come sostiene la corrente di sinistra) misure favorevoli alle masse.

La questione principale che sfugge ai (e dalla quale sfuggono i) dirigenti del PRC è che l’evoluzione della crisi generale del sistema capitalista pone sempre più in evidenza e con forza che per uscire da questa crisi bisogna farla finita con il capitalismo. Per farla finita con il capitalismo bisogna costruire il socialismo, e per questo non basta l’unità di quelli che si dichiarano comunisti, ma occorre un partito comunista che abbia scienza, volontà e determinazione di mobilitare, organizzare e dirigere i lavoratori e le masse popolari a costruire il proprio potere. Deve essere un partito comunista in grado di analizzare le condizioni, le forme e i risultati della lotta di classe in corso e di far tesoro dell’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale. Deve aver compreso e superato (o mettersi nella condizione di superarli) i limiti per cui il movimento comunista non ha instaurato il socialismo in nessun paese imperialista nonostante fosse possibile e nonostante l’eroismo dispiegato dai comunisti e dalle masse popolari (ad esempio nella Resistenza). Deve essere un partito che non aspetta che la rivoluzione scoppi come un temporale, ma la costruisce passo dopo passo (la “guerra di posizione” di cui parlava Gramsci).

Il terreno principale sul quale i comunisti devono impegnarsi è superare lo sbandamento ideologico (nel campo della teoria e della politica) che impedisce di elaborare una linea e una pratica coerenti, perché solo con una concezione del mondo d’avanguardia il movimento comunista può rinascere. La sua rinascita è indispensabile per guidare le masse popolari e la classe operaia a invertire il corso delle cose imposto dalla borghesia e dal clero.

Anche il trambusto creato dal recente congresso del PRC è occasione per tante compagne e compagni che militano in questo partito di superare il senso di sconfitta e rassegnazione, alzare con orgoglio la bandiera rossa del socialismo e prendere il posto che gli compete, adeguato alla loro dedizione e aspirazioni, per costruire la rivoluzione socialista qui e ora!

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