Ancora su “occupare la fabbrica, uscire dalla fabbrica”

CdF-Mirafiori

(Dal rapporto del segretario della sezione di Brescia). Durante la discussione su Resistenza n. 1/2014, abbiamo approfondito l’articolo “Occupare la fabbrica e uscire dalla fabbrica”. Da quella discussione ho preso spunto per alcuni approfondimenti che chiariscono (mi hanno chiarito) cosa si intende, con esempi pratici. “Occupare le fabbriche” non è inteso nel senso corrente di presidiare la fabbrica, starci fisicamente dentro, bloccare la produzione, ecc., ma di formare organizzazioni operaie che si occupano del futuro della fabbrica, che diventano punto di riferimento, voce e presenza alternativa e antagonista alla direzione ufficiale e “legale”, il padrone, e alla sua longa manus (le dirigenze nazionali e spesso anche locali dei sindacati di regime). Nel contesto delle “vicende” attuali questa parola d’ordine diventa l’orientamento concreto per quelle migliaia di operai che si stanno mobilitando, ad esempio, alla Piaggio di Pontedera, all’Electrolux, all’Indesit, negli stabilimenti FIAT.
Prendiamo come esempio i consigli di fabbrica durante il Biennio Rosso (1919-21), quando il movimento delle occupazioni (in quel caso le fabbriche erano occupate anche fisicamente) si è esaurito perché gli operai sono rimasti chiusi nelle fabbriche: Giolitti lo aveva capito, per quello non ha mandato l’esercito come gli chiedevano gli industriali.
Altro esempio utile è quello dei consigli di fabbrica degli anni ’70 e dei comitati unitari di base della fine degli anni ‘60 (vedere Proletari senza rivoluzione di Del Carria!), organismi autonomi formati da operai, tecnici e impiegati. Erano formati da lavoratori iscritti o meno al sindacato, ma che erano avanguardie di lotta riconosciute dagli altri lavoratori e che ai lavoratori rispondevano del loro operato (ed erano revocabili in qualsiasi momento). Questi organismi “occupavano la fabbrica”, imponendo al sindacato di seguirli con la loro iniziativa, e “uscivano dalla fabbrica” legandosi strettamente agli altri lavoratori (scambio di esperienze, mobilitazioni coordinate, elaborazione comune delle iniziative e delle prospettive) e agli studenti (le famose assemblee operai/studenti) e allargando il raggio delle loro mobilitazioni a tutte le altri classi proletarie e popolari. Nella storia di quegli anni ci sono alcuni esempi particolarmente significativi. Nel ’68 alla Marzotto di Valdagno, in Veneto, una fabbrica del padrone “buono” che forniva anche le case agli operai, la vertenza in fabbrica diventò lotta e rivolta di tutta la cittadinanza. Sempre in quegli anni al Petrolchimico di Porto Marghera (Venezia) e alla Pirelli di Milano i lavoratori esautorarono letteralmente per interi periodi i sindacati, creando strutture autonome di base che trattavano direttamente con l’azienda, mettendo in campo forme di lotta alternative (scioperi a gatto selvaggio, scioperi di reparto, a singhiozzo e senza preavviso, ecc.) concludendo accordi che coinvolsero in alcuni casi anche il Ministero del Lavoro. Altro esempio significativo fu la lotta alla SNAM Progetti, legata all’ENI, un’azienda che impiegava diecimila lavoratori fra tecnici, ingegneri e impiegati (vi si facevano i progetti per gli impianti petroliferi e chimici): la lotta per il contratto collettivo portò alla formazione di un comitato di sciopero indipendente, comprendente anche i non iscritti al sindacato, che nell’autunno ’68 organizzò blocchi stradali, comitati per la stampa e la controinformazione, cercò di coordinarsi con altre realtà di lotta in Italia, consolidò i rapporti con gli studenti. Nel mese di novembre si arrivò all’“occupazione aperta” del Bunker (così veniva chiamato dai lavoratori l’enorme capannone in cui lavoravano) in concomitanza con l’occupazione del Politecnico da parte degli studenti: si crearono commissioni di lavoro e di studio, si formò il gruppo di lavoro delle donne, le trattative sindacali passarono in secondo piano rispetto ai progetti politici e la commissione interna del sindacato venne posta sotto il controllo dell’assemblea.
Infine Mirafiori a Torino: nella primavera del ’69 partì la lotta di centomila operai FIAT organizzati nei gruppi di base gruppi di base, con l’autoriduzione dei tempi di lavoro e scioperi a scacchiera, cortei interni allo stabilimento, assemblee. Le lotte in fabbrica procedevano parallelamente con le lotte degli stessi lavoratori FIAT per il diritto all’abitare: occupazioni dei comuni della periferia torinese, scioperi degli affitti, occupazioni di case. Questa lotta culminò il 3 luglio ’69 in uno sciopero generale contro il caro affitti, indetto dai sindacati per recuperare consenso, ma che gli operai FIAT gestirono a modo loro: Corso Traiano e altre zone popolari della città e della periferia divennero un campo di battaglia, con la partecipazione di tutte le masse popolari (comprese donne e ragazzi) dei quartieri operai all’attacco della polizia.
Andando più indietro nel tempo, i soviet sono l’esempio migliore di operai che “hanno occupato la fabbrica e sono usciti dalla fabbrica”. Sono diventati la base del primo paese socialista, a differenza dei consigli di fabbrica qui da noi. Perché in Russia c’era un partito comunista deciso a fare la rivoluzione, a costruire il nuovo potere degli operai e dei contadini contrapposto a quello delle classi dominanti e dei loro alleati interni ed esterni. Come diceva lo stesso Lenin “accanto a questo governo (il governo provvisorio di Kerenskij) e indipendente da esso, abbiamo oggi in tutta la Russia una rete di soviet di deputati degli operai, dei soldati e dei contadini”. Ovvero i soviet erano le articolazioni del nuovo potere che già operava per prendere posto del regime allora vigente.

Noi oggi possiamo e dobbiamo contribuire a costruire questo nuovo potere: la crisi non lascia alternative positive, avanza a livello economico, politico, ambientale e culturale. Anche e soprattutto chi lotta per salvare la sua fabbrica, il suo posto di lavoro o chi non accetta di perdere tutte le conquiste pagate col sangue di tanti lavoratori nei decenni passati, deve portare la lotta sull’unico terreno risolutivo, quello politico. La questione chiave è chi deve dirigere la società? La borghesia o le masse popolari? “Per cambiare il corso delle cose bisogna che il governo del paese sia in mano a chi vuole cambiarlo” dice il (n)PCI. Noi oggi possiamo trasformare le organizzazioni operaie e popolari in organismi di quel nuovo potere che sarà la base del socialismo di domani.

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