Quella che combattiamo è una guerra… e una guerra non si può combattere pensando sia una partita a carte

 

lenin ushankaNon ci dilunghiamo sulle efferatezze, le manifestazioni dell’oppressione di classe, le forme con cui si manifesta la tendenza criminale di una classe al tramonto e sempre più feroce. Chi legge Resistenza queste cose le conosce e sempre più spesso, da quando la crisi è entrata nella fase acuta e irreversibile, le vive sulla propria pelle. Per dare un’impostazione scientifica alla cosa, però, sottolineiamo che le mille manifestazioni del sistema capitalista hanno la forma e la natura di una guerra di sterminio non dichiarata contro le masse popolari. In questa definizione rientrano tutte le conseguenze dirette e indirette, materiali e morali, del “libero mercato”, della “proprietà privata”, della ricerca del profitto: i morti per malattie curabili, l’ecatombe per inquinamento e avvelenamento del suolo, dell’acqua e dell’aria, i morti per incuria del territorio, le condizioni precarie e miserrime che portano a malattie croniche fisiche o mentali, i suicidi per povertà, discriminazione, le patologie e le dipendenze che vengono definite “angelicamente” da chi è responsabile del sistema che le produce “sociopatie”…. Tutto questo si aggiunge ai morti sul lavoro, ai morti nel Mediterraneo, ai morti nelle carceri, agli omicidi di stato…

Questa guerra contro le masse popolari, la borghesia non l’ha mai dichiarata ufficialmente, ma i suoi effetti sono sotto gli occhi di tutti anche se mille sirene confondono e nascondo le responsabilità, i nessi che collegano un aspetto con gli altri.

Ribellarsi è giusto. Lo diciamo sempre e ne siamo convinti, questa verità illumina la nostra pratica. Ma ribellarsi non basta se si limita a chiedere al boia di piangere mentre uccide, se si pretende che il cianuro sia meno amaro mentre ce lo infilano sotto la lingua. Questa guerra non dichiarata della borghesia contro le masse popolari o si trasforma in guerra contro la borghesia o si muore. E noi vogliamo combatterla con le nostre armi, elaborando strategie e tattiche adeguate a vincerla, applicandole per vincere. Questa è la nostra guerra, è la guerra popolare rivoluzionaria.

Solo i superficiali pensano che combattere e vincere una guerra come la nostra si limiti a sparare qualche colpo di spingarda o di AK-47, a fare un po’ di circo con la “propaganda armata” o mettendo insieme un po’ di coraggio e un po’ di incoscienza degli “ultimi” o “degli oppressi”. Ogni guerra, se è una guerra, ha il suo stato maggiore, ha truppe, ha generali e strateghi, intellettuali e scienziati. Preparare queste condizioni (che oggi non abbiamo se non a livello embrionale) è, in questa prima fase della guerra in cui la superiorità della borghesia è preponderante, l’obiettivo di chi vuole fare la guerra e vuole vincerla. Con una difficoltà particolare che sta nella natura della nostra guerra: non esistono volontari e riservisti, truppe regolari e retrovie, è il complesso delle masse popolari che è chiamato a combattere ed è dalla coscienza e combattività del complesso delle masse popolari che dipende l’esito, che dipende la vittoria.

Il principale compito e ruolo dei comunisti in questa fase è costruire, consolidare e sviluppare le condizioni soggettive della guerra: lo stato maggiore (il partito comunista), e le connessioni con quelle che diventeranno le truppe (passando da essere carne da macello e da cannone per la borghesia a protagoniste del proprio destino), le masse popolari.

Chi non ha capito questo rimarrà indietro, avrà modo di capirlo più avanti, ma sottrae oggi il suo contributo allo storico salto che l’umanità ha di fronte: lasciarsi alle spalle il capitalismo e progredire nel socialismo. Ecco perché con “accumulare le forze” intendiamo non solo e non tanto il semplice reclutamento nella carovana del (n)PCI, come ogni altro partito borghese concepisce… ma intendiamo un elevamento della coscienza, della comprensione, della capacità di trasformarsi da ciò che ognuno è oggi per diventare qualcuno o qualcosa di cui c’è bisogno per combattere la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata (l’alternativa è subire la guerra di sterminio non dichiarata). E per questo uno specifico lavoro del nostro partito è quello di formare materialmente e moralmente i suoi membri. Un aspetto di questa formazione riguarda il fatto di assumere (in certi casi di forzarsi ad assumere) un’ottica da guerra.

Quindi? Esercitazioni e sessioni di poligono? No. Si tratta di concepire e condurre ogni singola iniziativa come tappa, componente, passo che apre la strada a quello successivo, per rilanciare con forze più ampie, con obiettivi superiori, con determinazione maggiore, con un raggio d’azione più ampio: avere l’iniziativa in mano anziché reagire, parare i colpi del nemico e, anche quando abbiamo la meglio in una battaglia, rilanciarla forti del risultato ottenuto anziché fermarsi soddisfatti del risultato ottenuto…

E si tratta di contrastare l’abitudine (tutti viviamo sotto una cappa di influenza borghese e nella tela del senso comune) ad affrontare i singoli problemi uno a uno e ognuno solo dal punto di vista della sua “attualità”: bisogna affrontare ognuno di essi come aspetto particolare della situazione generale, rivolgere il proprio sguardo allo sfondo generale di quel quadro su cui incidono i singoli provvedimenti pratici, affrontare la situazione non come un insieme di punti (un male e il suo rimedio) sconnessi, ma come una questione generale e di principio, composta di vari aspetti. Per chi non impiega il materialismo dialettico il mondo attuale è incomprensibile e i suoi discorsi parole in libertà, narrazioni, affabulazioni, creazioni di fantasia, congetture. Essere materialisti dialettici vuol dire considerare in ogni cosa la trasformazione in corso, quindi la sua storia e le relazioni che la legano al resto. Quindi vuol dire fare una politica di principio, invece che navigare a vista, invece che limitarsi ad approfittare delle opportunità che via via si presentano e trovare a naso soluzioni per tirare in lungo.

Entriamo nel concreto: si parte dalle “piccole” cose che però indicano un orientamento anziché un altro.

Militanza a tempo perso.

Per sua natura il movimento comunista ha come referenti gli elementi delle masse popolari, gente che non solo per vivere lavora, ma che subisce in tutto e per tutto e in varie forme di gravità le privazioni, le difficoltà, le limitazioni economiche, fisiche e morali che le classi dominanti ci impongono. Per tanti elementi delle masse popolari partecipare (e a maggior ragione essere protagonista) della lotta politica è un aspetto che entra in contraddizione con la vita ordinaria, con il tempo da dedicare al lavoro e con quello da dedicare alla famiglia. Ci sono poi le questioni di soldi, perché per fare politica è necessario spostarsi (e nel migliore dei casi le “spese” finiscono qui, ma spesso non è così). Se le incombenze della vita quotidiana prendono il sopravvento (se lasciamo che lo prendano) i ragionamenti e le enunciazioni sulla guerra che dobbiamo condurre lasciano il tempo che trovano e diventano anzi un elemento folkloristico. Neppure è possibile pensare, come fa qualche romantico nullafacente, che per fare politica sia necessario “mollare tutto il resto”: questa è una convinzione sbagliata sia perché non è realistico pensare che ci sia un gruppo di individui che “rinuncia a sé” come i frati di clausura (la Chiesa è il principale esempio che non è possibile, il Vaticano è maestro di doppia morale: da una parte quello che si predica e dall’altra quello che si fa), ed è sbagliata, anche, perché non è realistico neppure pensare che le masse popolari tutte insieme e contemporaneamente “rinuncino a sé”… che Guerra Popolare sarebbe quella che esclude il protagonismo delle masse popolari?

E’ una questione di educazione. Sì, proprio di educazione: di educarci ed educare a dare priorità, a decidere quando e a cosa (e perché) rinunciare e a beneficio di cosa, è una questione di educarci ed educare a trovare soluzioni concrete ai problemi quotidiani, normali, ordinari. Se un compagno salta una riunione, o peggio ne salta più di una, o peggio ancora si ritira a vita privata perché le incombenze della quotidianità lo soffocano, come può quel compagno (e il collettivo a cui appartiene, il partito di cui è membro) aspirare a “fare la guerra”? E come può aspirare a costruire la società in cui “sono le masse popolari a decidere” se lui per primo si sottrae dalla decisione di darsi delle priorità?

Non è il caso di compagni che percepiscono la lotta politica come attività a tempo perso, ma nello spazio del sito dedicato a Resistenza pubblichiamo la lettera di un Segretario Federale indirizzata al Responsabile dell’Organizzazione riguardo al modo sbagliato di mobilitare compagne e compagni per il presidio di Ancona in occasione del processo di appello in cui erano imputati il Segretario Nazionale del nostro Partito e il responsabile dell’Associazione Solidarietà Proletaria. In quel caso la mobilitazione è stata proposta ai compagni e alle compagne come un impegno a cui ognuno poteva decidere se partecipare o meno, a seconda delle priorità che personalmente aveva definito. E’ sbagliato. Soprattutto perché in questo modo non si educano i compagni e le compagne a quel percorso di emancipazione dalle incombenze quotidiane che ognuno ha e che sempre più avremo. Ma così non si diventa dirigenti nemmeno della propria vita, oltre che della guerra popolare rivoluzionaria….

“Non sta succedendo niente, ho solo raccolto informazioni”.

Premesso che fra duri e puri che poi concordano scontri finti con la celere, duri e puri che pur di scagionarsi da un’accusa tengono linee processuali che portano a condanne pesanti per altri compagni, premesso, insomma, che se ne vedono di tutti i colori…. Il più sbagliato comportamento di fronte a DIGOS e forze dell’ordine avviene quando “non sta succedendo niente”, cioè durante un corteo un po’ fiacco, un presidio esiguo, un volantinaggio “di routine”. Quelli sono momenti in cui chi non ha un’ottica di guerra si sente “in stand by” e poco importa quanto dica di sé che è comunista, rivoluzionario, estremista… arriva prima o poi il momento in cui il “digossino democratico” attacca bottone, con discorsi o domande “innocui” e “innocenti” e, complice una supposta superiorità morale che si vuol dimostrare con l’educazione alle buone maniere, qualcuno casca sempre nella tentazione di rispondere o intrattenersi in uno scambio di battute (o anche una chiacchierata). Di questo fatto non c’è da scandalizzarsi, non stiamo parlando di infiltrati, spioni o confidenti. Stiamo parlando di compagni e compagne che credono che la rivoluzione si faccia solo con il passamontagna in testa e la molotov in mano… quando si veste in “abiti civili” la rivoluzione non si fa. E’, anche in questo caso, una questione di educazione all’ottica di guerra. Sul sito pubblichiamo una lettera di un Segretario Federale a un compagno che, informandolo di un semplice volantinaggio, ha riportato che sia lui che altri compagni (esterni al partito) hanno intrattenuto una discussione con un agente della DIGOS (rappresentante sindacale della CISL) che “capiva perfettamente” che la situazione economica del paese va a rotoli. Consigliamo la lettura della lettera e ne riportiamo uno stralcio che centra la questione principale:

“Da una qualunque discussione un poliziotto (e in particolare la DIGOS) può trarre elementi che riguardano rapporti e relazioni politiche, personalità, caratteristiche, punti di forza e punti deboli del compagno con cui interloquisce. Sono tutte informazioni che il poliziotto stesso o chi per lui userà al momento opportuno, userà per fare la sua inchiesta, per fare il suo quadro, per tessere la sua tela.

Penso che ci si possano fare scommesse, con vincita certa, sul fatto che il poliziotto “normale”, “disponibile”, il “padre di famiglia” andrà a parare sullo stipendio, sul rinnovo dei contratti, sul peggioramento della situazione generale, sugli effetti della crisi e su tanti altri luoghi comuni a cui è non solo sensibile, ma addestrato (non credo facciano corsi in Questura, è solo l’esperienza e il buon senso che li rendono “uccelli per tutti i boschi”). Quindi qualche lamentela, qualche commento che riporta al principio che “siamo tutti sulla stessa barca”, sui “giovani che non hanno futuro” o sulle tante famiglie senza prospettiva e oppresse dalla disoccupazione.

E poi diciamocela tutta, è un caso che a “parlare” a “interloquire” ci vengano sempre i digossini sindacalizzati (in questo caso della CISL, ma spesso della CGIL)? Ogni città ha il suo “digossino che votava PRC”…. il poliziotto “democratico” che fa sempre l’amicone…

Allora la questione è che questa gente, manganello o pistola in mano o lingua lunga e affabilità, sono sempre gli stessi agenti della controrivoluzione, pagati per questo, addestrati per questo… sono agenti professionali della controrivoluzione preventiva (togliamo di mezzo le illusioni sul fatto che “una volta smessa la divisa sono persone normali”…). E il principio a cui noi dobbiamo rispondere e che dobbiamo applicare è che seppure operiamo alla luce degli spazi della legalità borghese, noi dobbiamo far sudare ogni informazione su di noi e sul nostro conto. Non dobbiamo regalare niente al nemico. Non dobbiamo indirizzarlo in nessun modo.

Il fatto di parlare con la Digos rispecchia direttamente una concezione da “gruppetto marginale”, cioè da gruppi che sono orientati nella loro opera principalmente dalla propria evoluzione e non dall’evoluzione della Guerra popolare Rivoluzionaria di Lunga Durata. Dico questo non per “affossare” o “denigrare” compagni e organizzazioni e aggregati che cadono in questo errore, ma per individuare qual è il loro punto di partenza e quali sono i passi necessari per la loro trasformazione in comunisti protagonisti della seconda ondata della rivoluzione proletaria”.

 

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