L’egemonia della classe operaia nella lotta per fare dell’Italia un paese socialista
Sul movimento 9 dicembre (il cosiddetto movimento dei Forconi) se ne sono sentite di tutti i colori, dalle accuse di infiltrazioni mafiose all’ “allarmi son fascisti” passando per “sono dei buffoni”. Ma le accuse di infiltrazioni mafiose in bocca a politicanti da sempre complici, conniventi e “conviventi” con la mafia e le altre organizzazioni criminali, gli “allarmi son fascisti” in bocca a quanti hanno riabilitato il fascismo (“i ragazzi di Salò”), hanno riportato vecchi fascisti e squadristi in Parlamento e coccolano, proteggono e foraggiano i “fascisti del terzo millennio”, parlano a favore o contro il movimento dei Forconi? E gli strali lanciati da chi priva una parte crescente delle masse popolari delle condizioni necessarie per vivere al livello di civiltà raggiunto? E le accuse di “non rispettare la legalità” mosse da esponenti di un governo illegittimo e illegale, installato con un golpe bianco e che procede a colpi di fiducia in un Parlamento eletto con una legge elettorale giudicata dalla stessa Consulta (dopo sette anni, sic!) anticostituzionale?
Di esempi simili, negli ultimi anni, ne abbiamo visti diversi: ad ogni spinta di cui sono protagonisti piccoli imprenditori e commercianti, lavoratori autonomi, piccoli professionisti, artigiani e coltivatori, i vertici della Repubblica Pontificia e l’innaturale codazzo di “ribelli che tifano rivolta quando è negli altri paesi, possibilmente lontano”, si sollevano anch’essi in uno sforzo di propaganda e denigrazione, criminalizzazione e allarmismo. E’ successo in occasione della campagna elettorale del febbraio scorso, in cui “i grillini” erano il primo nemico (singolare che lo siano diventati anche per tutti quelli che ogni giorno ci propinano slogan e massime sul socialismo, sul comunismo e sulla criminalità di banche e padroni… qual è il nemico principale?). Era già successo per i Forconi a inizio 2012. Succede ogni volta che una partita di pallone travalica il limite del “panem et circenses” e assume le caratteristiche di ribellione sociale, dentro gli stadi e soprattutto fuori.
Noi siamo partiti dall’analisi di classe e dal contesto: perché prima e più che dalle idee dei suoi promotori e dai simboli che inalberano, la natura di ogni movimento è definita dal ruolo che svolge nelle circostanze in cui si sviluppa e dalle classi che lo compongono. Chi sono quelli che scendono in piazza (indipendentemente da chi li chiama a farlo)? Si tratta di settori delle classi popolari non proletarie, diventate (a partire dal governo Monti) bersaglio diretto dell’opera di rapina e spoliazione condotta dal governo per conto e a favore del grande capitale italiano e internazionale e che in misura crescente non riescono a vivere come nel passato. Si tratta di settori che per loro natura seguono l’orientamento della classe, fra le due principali (classe operaia e borghesia imperialista), che più dell’altra se ne pone alla testa, le orienta, le dirige.
Consapevoli di fare un esempio per forza di cose parziale, l’affermazione che la “piccola borghesia” è stata il principale bacino di affermazione di Hitler in Germania e di Mussolini in Italia è vera nella misura in cui il movimento comunista non è stato capace di orientarla e mobilitarla. Il parallelo con l’attualità, per chi lo vuole vedere, sta nel fatto che bollare preventivamente come “mobilitazione fascista”, “golpista”, “reazionaria” una mobilitazione che nei fatti è contraddittoria, significa consegnarla preventivamente nelle mani del più audace aizzapopolo o capobastone della borghesia.
Quello che è pericoloso (oltre che codista e arretrato) è l’atteggiamento di chi, in nome di un antifascismo da bancone del bar, denigra le mobilitazioni cosiddette “dei Forconi” e non usa le sue strutture, il seguito che ha, l’autorevolezza di cui gode fra le masse popolari per dare un orientamento chiaro e avanzato: dalla FIOM all’ANPI, dall’USB alla CUB, dalla Rete 28Aprile ai tanti frammenti in libertà della “sinistra alternativa, radicale e comunista”.
Individuare lo scontro di interessi determinato in campo economico dalla crisi in corso come base di partenza per far coincidere il più possibile lo schieramento e la contrapposizione nella lotta politica con lo schieramento e la contrapposizione in campo economico, per portare le masse popolari ad assumere comportamenti politici coerenti con i loro interessi: questa compagni è l’ottica dei comunisti, di ogni comunista degno di questo nome.
Tra i molti effetti positivi del movimento 9 dicembre, non ultimo vi è quello di aver indotto a discutere di linea una serie di organismi che sono (o almeno vorrebbero essere) e comunque si presentano come promotori della mobilitazione delle masse popolari contro l’attuale corso delle cose imposto nel nostro paese dai vertici della Repubblica Pontificia e a livello mondiale dalla comunità internazionale dei gruppi imperialisti europei, americani e sionisti.
È utile andare a fondo del dibattito iniziato perché esso riguarda il ruolo della mobilitazione dei lavori autonomi e la linea che i comunisti devono avere in proposito.
Nel nostro paese i lavoratori autonomi sono più di un quarto degli adulti che formano le masse popolari, intendendo per masse popolari quella parte della popolazione che riesce a vivere solo se riesce a lavorare e che la crisi generale del capitalismo sempre più nettamente distingue dalle classi che compongono il campo della borghesia imperialista. Sono quindi una parte considerevole della popolazione e nel nostro paese (come in paesi con un’analoga composizione di classe) lo sviluppo della rivoluzione socialista comporta di necessità il loro coinvolgimento. Per la posizione che gli operai (intesi come i lavoratori delle aziende capitaliste) occupano nella società attuale, la classe operaia può e deve essere la classe dirigente della rivoluzione socialista e quindi noi comunisti dobbiamo promuovere l’egemonia della classe operaia anche sui lavoratori autonomi e in generale sulle classi non proletarie delle masse popolari. Per noi comunisti queste sono verità acquisite e basilari.
Approfondiamo.
Nel dibattito in corso, il primo punto su cui dobbiamo insistere e portare chiarezza è la natura dei lavoratori autonomi nella società attuale. I dogmatici li chiamano “piccola borghesia” e nei libri del marxismo che descrivono la formazione della società borghese hanno letto che la piccola borghesia è una classe in disfacimento, una classe formata da individui che aspirano a far parte della borghesia mentre la maggior parte di essi è ridotta dallo sviluppo del capitalismo alla condizione di proletari. Questa condizione di classe che sta dividendosi in una piccola parte che riesce ad accumulare capitale ed entra a fare parte della borghesia e una massa che finisce nel proletariato, anche nel nostro paese oggi è praticamente scomparsa. Da tempo i lavoratori autonomi sono diventati figure ausiliarie e complementari dell’economia capitalista: lavoratori che l’economia capitalista relega a compiere alcuni lavori che per vari motivi l’azienda capitalista non assume direttamente in proprio. Che la cultura borghese li presenti come lavoratori autonomi dal capitale è un fatto. Ma è un fatto ancora più solido che essi di fatto dipendono strettamente dall’economia capitalista. Ne dipendono direttamente nel senso che lavorano per le aziende capitaliste e sono queste che forniscono loro i mezzi di produzione ed elaborano la tecnologia del loro mestiere. Ne dipendono indirettamente nel senso 1. che è lo Stato (della borghesia imperialista) a stabilire le regole e le condizioni del loro lavoro e le imposte che devono pagare e 2. che i loro clienti, quando non sono direttamente le aziende capitaliste, dipendono da queste per il loro potere d’acquisto. Questo stato delle cose ognuno lo può facilmente constatare considerando i tipi di lavoratori autonomi che ha a portata di mano: il camionista, l’allevatore, il coltivatore, il bottegaio e altri. I lavoratori autonomi in realtà dipendono dal capitalista ma hanno con il capitalista e con il suo Stato una relazione formale (contrattuale e legislativa) sostanzialmente diversa da quella degli operai e dei dipendenti pubblici.
La crisi generale del capitalismo in corso travolge e soffoca i lavoratori autonomi da mille lati (ordinativi, tariffe, imposte e tasse, regolamenti, ecc.) e li esclude dai profitti e dai privilegi del capitale finanziario. Quindi il malcontento e la ribellione si estenderanno tra le loro file. I promotori delle prove di fascismo possono certamente avvalersi e si avvarranno dei pregiudizi individualistici, antiimmigrati, particolaristi, campanilistici e antiproletari (contro gli operai e contro i dipendenti pubblici) che la Repubblica Pontificia ha alimentato tra i lavoratori autonomi. Ma la realtà dei fatti e l’esperienza pratica contrappongono i lavoratori autonomi al capitale finanziario (che distrugge l’economia reale capitalista ai cui margini essi vivevano) e al suo Stato (che aumenta imposte e tariffe e restringe da mille lati i margini della loro autonomia). Chi confonde il processo che oggi vivono nel nostro paese e negli altri paesi imperialisti i lavoratori autonomi e in generale le classi popolari non proletarie con quelle della piccola borghesia dei paesi europei tra le due guerre mondiali è completamente fuori strada. Legge libri e si nutre di letteratura, invece che guadarsi attorno e studiare le relazioni sociali in cui è immerso.
Il secondo punto su cui dobbiamo insistere e portare chiarezza è l’antifascismo padronale, l’antifascismo della sinistra borghese. La sinistra borghese ha completamente accettato che la Repubblica Pontificia mantenesse ai loro posti e nelle loro funzioni i fascisti e i loro eredi. Ha anche direttamente riabilitato valori, cultura, miti, procedure e figure del fascismo. Ha fatto proprie le procedure criminali del fascismo contro le masse popolari (Lampedusa è una chiara dimostrazione) e ha calpestato le prescrizioni popolari e antifasciste della stessa Costituzione. Ha ridotto a vuoto e ipocrita cerimoniale le cerimonie, le ricorrenze, le celebrazioni, le canzoni e le memorie della lotta contro il fascismo e della Resistenza. L’antifascismo della sinistra borghese è un suo “fondo di garanzia”: strumento per strappare voti e procurarsi militanza gratuita. Di fronte alla ribellione dei lavoratori autonomi la sinistra borghese ha gridato e grida al pericolo fascista perché è spiazzata: il suo terreno tradizionale di pascolo, che ha ereditato dalla corruzione e dissoluzione del movimento comunista e dall’opera disgregatrice del revisionisti moderni (da Togliatti, a Belinguer, a Occhetto, a Bertinotti, a Napolitano, ecc.), è costituito dai lavoratori dipendenti (operai e dipendenti pubblici in primo luogo).
Il fascismo è stato il regime terroristico della borghesia imperialista, con il compito principale di soffocare il movimento comunista. Non è stato il regime della piccola borghesia. La borghesia imperialista si è servita della piccola borghesia, per costituire le sue forze terroristiche, sfruttando l’incapacità dei partiti comunisti dei singoli paesi di prospettare una soluzione ai problemi che in quel periodo schiacciavano la piccola borghesia, come del resto non diedero soluzione neanche ai problemi che schiacciavano gli operai e gli altri proletari. Questo per i limiti propri che il movimento comunista dell’epoca non seppe superare e che i comunisti oggi hanno capito traendone le dovute lezioni. Infatti oggi i comunisti sono marxisti-leninisti-maoisti (e non solo marxisti-leninisti) e la loro strategia è la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata.
“Trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti «spontanei», cioè rinunziare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli ad un piano superiore inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto serie e gravi.” A. Gramsci.