Il 12 ottobre 2011 a Bologna davanti la sede della Banca d’Italia, gli agenti del VII Reparto mobile caricano gli indignados che in quella città come in tutta l’Italia sono scesi in piazza per protestare contro i tagli contenuti nella manovra del governo, la crisi economica e il ruolo della finanza.
A fare le spese della violenza inaudita del VII Reparto mobile di Bologna è questa volta Martina Fabbri.
Martina puoi dirci in breve qualcosa di te?
Sono una studentessa universitaria di arti visive quasi arrivata alla laurea, prossima al mondo della precarietà lavorativa.
Ho iniziato a fare attività politica durante le mobilitazioni contro la riforma Gelmini, a Roma. Ho continuato, spostandomi a Bologna, all’interno di un collettivo universitario e poi dentro il centro sociale Tpo.
Perché il 12 ottobre del 2011 protestavi di fronte a Banca Italia a Bologna?
Quel giorno a Bologna, come in tante altre città, si sono tenuti presidi e mobilitazioni davanti alle sedi della Banca d’Italia. Volevamo provare ad entrare per consegnare una lettera. La risposta a quella che Draghi e Trichet avevano mandato, qualche mese prima, all’Italia, con le misure da adottare per uscire dalla crisi. Misure che prevedevano tagli e privatizzazioni, svendita del patrimonio pubblico, abbassamento dei salari per aumentare la competitività…Tutte quelle misure che poi sono state adottate e non hanno fatto altro che peggiorare le condizioni di vita di chi, già allora, si trovava senza diritti, senza servizi né welfare, immerso nella precarietà.
I giornali hanno raccontato che sei rimasta ferita in seguito “ai tafferurugli” e “agli scontri tra manifestanti e poliziotti, mentre gli organizzatori della manifestazione hanno parlato di “due cariche a lato, a freddo e con l’intenzione chiarissima di far male”, ci racconti come è andata quel giorno?
Sono stata colpita durante la seconda carica. Non ero davanti e il contingente della polizia che stazionava sul lato e non davanti al cancello della banca è intervenuto quando le prime file di manifestanti erano già state allontanate dall’ingresso dai carabinieri e respinte oltre i gradini: insomma non rappresentavano più alcun pericolo. In questo contesto il settimo reparto mobile ha agito con estrema violenza, arrivando nelle file dietro, colpendo chi a volto scoperto e mani nude provava ad indietreggiare.
Che lesioni hai riportato dal punto di vista fisico?
Ho perso quattro denti, gli incisivi inferiori. Per due mesi, dopo il colpo, sono rimasta senza, perché dopo le prime operazioni ho dovuto attendere che i tessuti guarissero. A dicembre 2011 ho avuto un ponte solo in funzione estetica. Solo a settembre 2012, dopo svariate operazioni per inserire le viti degli impianti nell’osso, ho avuto dei denti provvisori molto più stabili e funzionali. Ora, gennaio 2012, sto aspettando di finire questa lunga trafila e di avere gli impianti definitivi. Sinteticamente, si parla di un indebolimento permanente dell’organo di masticazione.
Dal punto di vista psicologico che effetto ha avuto su di te l’aver sperimentato in prima persona “un abuso di polizia”?
Quello che mi è successo non mi ha fatto smettere di fare politica, anzi. Mi ha convinto ancora di più della mia scelta di vita. Sicuramente posso dire che quando scendo in piazza e mi trovo schierata la celere davanti non è come prima, ed è quello che mi fa più rabbia: quello mi è stato fatto ha generato in me della paura. Anche perché ho dovuto gestire anche tutta l’angoscia che questo ha creato nei miei genitori. Il punto credo che sia spostare ogni volta un po’ più avanti questo sentimento, non farsi vincere.
A Banca Italia sono intervenuti i Carabinieri e il VII Reparto mobile di Bologna.
Patrizio Del Bello, assistente del tuo avvocato Simone Sabattini ha denunciato pubblicamente in una conferenza stampa una lunga serie di “abusi” avvenuti nel corso degli anni che hanno avuto come protagonisti proprio gli uomini del Settimo Reparto mobile di Bologna, tu prima del 12 ottobre eri al corrente di questo particolare?
Personalmente ritieni che si tratti solo di mele marce (e a questo punto di molte mele marce all’interno di un unico Reparto) o che vi sia qualcosa di più?
Ero a conoscenza dei fatti di Genova e della maglietta indegna che era stata stampata a seguito del G8, con un poliziotto che tiene a terra un giovane e la scritta A GENOVA C’ERO ANCHE IO. Sapevo di altre ragazze ferite a Bologna, ma non pensavo che fosse sempre opera dello stesso reparto.
Non credo che tutti i poliziotti italiani siano dei sadici e dei violenti. Però sono convinta che all’interno delle forze dell’ordine l’omertà sia l’atteggiamento principale nei confronti di colleghi e colleghe che commettono violenze. C’è uno spirito di cameratismo e un muro di silenzio che nella maggioranza dei casi si alza a difendere i colpevoli, lasciando senza risposta le vittime di abusi di polizia. Credo sia ancora peggio: impedisce a chi ha subito una violenza di poter elaborare quanto gli è accaduto, di dare un nome ai responsabili. E’ come essere vittime di una violenza doppia.
Tutto ciò è dimostrato anche dalla reticenza e dal rifiuto di intavolare un discorso concreto sul numero identificativo e sul reato di tortura.
C’è voluto più di un anno ad identificare il poliziotto che ti ha colpito, nonostante i filmati, le testimonianze e soprattutto nonostante il fatto che il contingente del Reparto mobile che il 12 ottobre vi caricò davanti a Banca Italia fosse composto da soli sette agenti di cui soltanto uno (il tuo manganellatore) portava gli occhiali da sole sotto il casco, perché è servito così tanto tempo? Che atteggiamento c’è stato da parte degli altri poliziotti?
C’è stata un’omertà densa e impossibile da ignorare che ha fatto chiudere gli occhi a chi, quel giorno, ha sicuramente visto il responsabile, e a tutti quelli che si sono dimostrati restii a fornire le foto dei componenti delle squadre presenti in piazza, cercando di rallentare e ostacolare il corso delle indagini.
Il celerino che ti ha colpito e che oggi è imputato per lesioni volontarie aggravate è ancora in servizio?
E’ stato spostato nell’Ufficio di Gabinetto del Questore, pochi giorni dopo l’accaduto e non, come riportano i giornali, una volta ricevuto avviso di fine indagine. Questa dinamica, insieme al silenzio omertoso ci ha rivelato la volontà di proteggere, di mettere in ombra un poliziotto che si conosceva già da tempo come responsabile.
Nella lettera aperta che all’indomani degli scontri hai scritto al tuo manganellatore sconosciuto, dici tra l’altro “Io ti penso con superiorità perché solo così si può pensare un uomo (?) che colpisce intenzionalmente al viso una ragazza disarmata con un manganello e si protegge dietro la divisa che ne tutela l’identità.”
I giornali non mostrano foto del tuo aggressore e danno solo queste scarne informazioni “P. B., 29 anni, agente scelto del VII Reparto mobile”. Ci sono voluti processi pubblici importanti che hanno calamitato l’attenzione dei media per conoscere le facce di quei poliziotti che hanno ammazzato per esempio Federico Aldrovandi o ridotto in fin di vita il tifoso del Brescia Paolo Scaroni (anche in quest’ultimo caso era all’opera il VII Reparto mobile di Bologna), mentre basta un niente per sbattere il nome e la faccia di un attivista o militante politico in prima pagina. Cosa pensi di questo? L’obbligo del codice di identificazione per gli agenti di polizia quanto agevolerebbe processi come il tuo?
Sinceramente non mi interessa che vengano rese pubbliche sui giornali le fotografie di chi commette un abuso; per quanto mi riguarda non avrebbe cambiato nulla. Penso sia più importante che i colpevoli vengano allontanati dai loro incarichi e non continuino a girare per le strade o nelle manifestazioni.
Mi interessa di più che si faccia battaglia per avere un numero identificativo e per inserire il reato di tortura; perché – ad esempio nel mio caso – avremmo avuto un’identificazione molto più veloce. E in molti altri casi non sarebbero rimasti impuniti i colpevoli. Penso ad esempio al mio compagno Fabiano, torturato in Val di Susa durante la manifestazione del 3 luglio 2011:la procura di Torino ha chiesto l’archiviazione della sua querela; molto più difficile è archiviare il sangue, le ferite e le offese che quel giorno gli sono state inflitte.
Cosa diresti tu a Nicola Tanzi, segretario del SAP (sindacato di polizia) che alla domanda della giornalista che lo ha intervistato recentemente “Ma voi provate a mettervi nei panni degli studenti o degli operai, stremati dalla crisi e dalle poche prospettive per il futuro?” risponde “A loro dico che chi scende in piazza si trova davanti un cittadino come lui, e che magari in cuor suo simpatizza con quello studente che potrebbe essere suo figlio o quel lavoratore che ha la sua stessa età.”?
Non credo che tutti quei poliziotti che hanno manganellato senza pietà studenti e studentesse durante tutto l’autunno, a partire dal 5 ottobre fino ad arrivare al 14 novembre a Roma, simpatizzino con i motivi della protesta. Quanto meno sono bravissimi a nasconderlo! Scegliere di intraprendere un lavoro nelle forze dell’ordine non è una scelta che, personalmente, stimo: prendere ordini che implicano di dover usare la forza contro persone di cui potresti condividere le idee mi sembra schizofrenico. Detto ciò, quando ci si trova davanti ad un uso della forza spropositato e criminale, come quello che ha interessato me e tanti altri, l’idea che chi ti colpisce, simpatizzi con le tue idee non è decisamente plausibile. Ho letto da poco la testimonianza di una ragazza presente nella caserma Ranieri di Napoli, nel marzo 2001. Quello che le ffoo hanno fatto lì dentro, un’anticipazione della Diaz, i soprusi, le violenze, le intimidazioni non credo ci parlino di poliziotti che simpatizzano con le proteste.
I PM Morena Plazzi e Antonella Scandellari che hanno avviato l’inchiesta contro il celerino che ti ha colpito e che oggi è a processo, sono le stesse che di recente hanno oggi indagato 43 studenti che quel 12 ottobre manifestavano a Banca Italia per i reati di violenza, resistenza a pubblico ufficiale e interruzione di pubblico servizio. Imparzialità della giustizia o cos’altro?
Penso che la giustizia in Italia non sia imparziale. Lo dimostrano le pene assegnate a chi è stato ritenuto colpevole di aver spaccato vetrine e bancomat a Genova, confrontate con quelle dei poliziotti che sono intervenuti alla Diaz o che hanno ucciso Federico Aldrovandi. Lo dimostra il fatto che utilizziamo un codice scritto durante un regime totalitario che prevede il reato di devastazione e saccheggio, ma non quello di tortura. Le 43 misure prese contro studenti e precari che erano in piazza Cavour sono arrivate subito dopo che si è chiusa la mia indagine, quasi come a riequilibrare il piatto della bilancia: un colpo al cerchio e uno alla botte. Sono curiosa di vedere se il poliziotto che ha senza alcun motivo spaccato la faccia ad una ragazza, causandole un danno permanente verrà punito oppure se si sceglierà, ancora una volta, di essere severi con chi quella mattina cercava solo di difendere la dignità della propria vita, contro i diktat della Bce.
Un’ultima domanda: quanto ha contato la solidarietà che hai/avete raccolto? Quanto ha inciso su di te e sul corso degli eventi che ti/vi hanno riguardato?
La solidarietà raccolta non solo ha contato, è stata fondamentale. Senza quella non credo che avrei saputo reagire e sopportare come ho fatto più di un anno di sedute dentistiche e tutto quello che ne è derivato. Sono stata fortunata, perché non sono una persona sola che subisce un abuso, ma mi sono ritrovata all’interno di una comunità molto forte, oltre ad aver ricevuto il sostegno di moltissimi altri, che si è dimostrato ad esempio nella partecipazione alla serata benefit per le spese mediche.